“Crepi l’astrologo” lo dico io. Se lui,
l’astrologo, dice che una grande crisi della democrazia è “in cammino”, vada in
malora. Meglio che accada a lui che a “lei”. Speriamo che l’astrologo stia
interpretando male i segni del tempo. Come diceva Trockij “E’ vero che la
storia è maestra di vita, ma è una maestra senza allievi”. Speriamo dunque che
il “profeta di sciagure”, che qui sarei io, abbia torto marcio. Auspichiamo che
non sia come Cassandra. Ricordate? - Lei era una delle tante figlie di Priamo,
il vecchio re di Troia, padre di cinquanta figli, tutti belli sani e forti:
come quel Paride, un po’ troppo “femminaro” - come direbbe il Montalbano di
Camilleri dell’amico Mimì - per essere un grande guerriero: il Paride che a
Sparta si portò via, con l’assenso di lei, la moglie del sovrano Menelao,
Elena, conducendola a Troia; o come quell’Ettore, difensore principale di Troia
dagli attacchi degli Achei (avvenuti verso il 1200 a.C.), Achei
ufficialmente scesi in guerra per vendicare il ratto, per altro consensuale,
della moglie di Menelao (“non sia mai”), come canterà poi Omero nell’Iliade, nell’VIII secolo a.C.. Ma
torniamo a Cassandra. A quel tempo c’era un grande dio del sole, ma anche della
profezia, Apollo. Era lo stesso che aveva già dato non pochi guai al povero
Edipo, cantato poi da Sofocle nel V secolo a.C. nella più bella tragedia di
tutti i tempi.
Il dio aveva detto oscuramente a Edipo tramite la profetessa, la Pizia, a Delfi
- in un sito oggi diroccato in cui io pure sono stato, vedendo con timore e
tremore il punto da cui lei parlava, dieci anni fa - parole oscure che poi,
male interpretate - e perché il destino avrebbe comunque dovuto compiersi -
contribuirono alla rovina dello sventurato eroe. A un certo punto questo dio
Apollo si era invaghito di Cassandra. Lui, come il suo babbo Zeus, aveva una
forte tendenza a insidiare le più belle ragazze del mondo, fossero esse
consenzienti o anche dissenzienti (almeno nel suo caso), com’è stupendamente
rappresentato nella statua su Apollo e Dafne (1622/1625) del nostro Bernini:
complesso statuario che, se non lo conoscete “faccia a faccia”, fareste bene a
andarvi a vedere a Roma alla Galleria Borghese, perché neanche il Mosè (1515)
di Michelangelo, per me, è così bello. Il dio voleva Cassandra, ma lei non voleva
dargli quel che si sa. Forse lei aveva altri gusti, anche se la cosa, per le
ragazze, allora non era neanche contemplata (per i ragazzi lo era anche
troppo). Allora Apollo, che già l’aveva “toccata” con le sue virtù (profetiche)
- siccome il diniego di lei gli aveva fatto girare le auree palle - l’aveva
condannata a saper prevedere - volente e persino nolente - il futuro, ma a non
essere creduta da nessuno. E così la ritrae - mentre lei profetizzava non solo
la caduta di Troia, ma il grande atto del raccontarla da parte del vecchio
Omero cieco, che avrebbe dato gloria anche ai vinti, e in specie a Ettore,
difensore della patria oppressa, - il nostro Foscolo, in alcuni tra i passaggi
più toccanti di Dei Sepolcri (1807). Il
tutto lo dico per sottolineare che io so bene che chi antivede o crede di
antivedere qualcosa che è ancora in pentola, spesso non è creduto, anche quando
abbia buoni argomenti. Ma io li enuncio ugualmente. Il mio paradosso - ma a
quanto pare lo era stato pure per Cassandra - è che vorrei che la mia profezia
risultasse falsa. Ma enunciarla può servire a dare un allarme. Se poi sarà
stato un allarme eccessivo, pazienza. Meglio un allarme in più che uno in meno.
Punto di partenza. Moltissima gente ha sempre detto che alle elezioni
vorrebbe vedere solo due parti in competizione. Essa sceglierebbe
periodicamente; e la parte non scelta dovrebbe fare l’opposizione aspettando di
essere scelta a sua volta da “lei”, venuto meno il gradimento della maggioranza
per la parte avversaria. Ma nella storia italiana quest’assetto - tra due
partiti o almeno due parti ben differenziate e competitive, che è poi la democrazia dell’alternativa - è stato
ed è molto raro: 1) perché spesso ci sono grandi emergenze che consigliano di
collaborare pur essendo le parti opposte; 2) perché c’è nel nostro DNA italico
molto individualismo, e ciascuno vuol farsi un gruppo a sé, sicché i due
diventano poi una decina; 3) perché - dato l’individualismo, spesso amorale,
che c’è “da noi” - molti si fanno allettare dal potere che c’è, ossia da chi
comanda: per far più presto ad avere il loro “particulare”; perché conviene; e
così fan tutti; e poi perché il potere che c’è, per evitare che una parte
decisiva di oppositori possa crescere preferisce coinvolgere gli avversari se appena
“ci stiano”.
Perciò - benché il senso comune dica da sempre che ci vorrebbero due
parti tra cui scegliere, e che quella non scelta dovrebbe aspettare il suo
turno - i contendenti importanti preferiscono la mescolanza delle parti in
lotta, ossia la libera collaborazione, o connivenza, o complicità, sopra o
almeno sotto banco, che si chiama “trasformismo”.
Il trasformismo - la pratica di compromissione continua tra parti che
dovrebbero invece lealmente competere, seppure rispettandosi come opposte
squadre in campo ed evitando di picchiare sotto la cintola o di picchiare
l’arbitro - non solo è stato da noi dominante, ma da molti è stato pure
rivalutato tramite studi “formalmente” rigorosi : o per convinzione o
strumentalmente. In generale la giustificazione “nobile” del trasformismo è
sempre la stessa: meglio collaborare con i più forti dell’altra parte per
evitare il rischio che le ali estreme - antisistema, demolitrici e
antidemocratiche - prevalgano: siano esse forze “reazionarie” che mirano a restare
attaccate o a restaurare ordinamenti marci del passato (battenti bandiera
nera), oppure rivoluzionarie, eversive, antisistema (“rosse”), che poi volenti
o nolenti portano (o porterebbero) a nuove tirannidi, o quantomeno a un caos
illimitato nell’economia e nell’ordine pubblico. Oggi il ruolo di babau è
giocato, in modo un po’ anomalo, da Di Maio (Movimento 5 Stelle) e
Salvini-Meloni (Lega e Fratelli d’Italia). E in effetti qualche rischio quelli
lì lo fanno correre, ma non al punto di giustificare addirittura in partenza le
minestre riscaldate per la decima volta, le “fritture delle rifritture” di tipo
moderato, sia che queste possano assumere il volto improbabile di governi in
cui PD e Forza Italia sono nella stessa maggioranza, come accadde col governo
Letta, benedetto pure da Bersani, nel 2013, oppure di governi istituzionali,
tipo quello Monti-Fornero, di nuovo sostenuti dai voti di un PD che non era
ancora quello di Renzi. Io chiamo tali soluzioni “trasformistiche”, ma voi
potete pur trovare “nomi” più simpatici. Ma la sostanza non cambierà.
I teorici del trasformismo - o comunque si chiami l’incontro tra il
diavolo e l’acqua santa, o tra squadre che in campo sono in competizione, e
invece preferiscono concordare il da farsi insieme - sono presenti tra i grandi
politici come tra gli storici loro amici. Molti tra questi “teorici” hanno
messo in luce che per quella via - in sostanza sempre basata sul prevalere di
un Grande Centro (supportato ora da destra e ora da sinistra) capace di isolare
“le due ali estreme” - si è andati molto avanti. Ci sono storici che hanno
rivalutato il vero e proprio trasformismo parlamentare inaugurato nel 1876 dal
piacentino (di Stradella) Agostino Depretis. Ed altri che, incredibilmente
sull’onda di un famoso Discorso su
Giolitti di Togliatti (1950), che
certo fece girare nella tomba il suo amico e maestro Gramsci, hanno rivalutato
lo statista liberale di Dronero, che cercando di convergere con i socialisti
(in realtà se non ci riusciva lo faceva anche con gli antisocialisti, e nelle
elezioni del ’21 persino con i fascisti), aveva fatto molte cose buone; e
siccome il capitalismo italiano sarebbe stato fatto - per loro e per Togliatti
(e a lungo o sempre per D’Alema) - di profittatori, speculatori e loro
innumerevoli manutengoli più legati alla “rendita” che al “profitto” (ossia più
allo speculare che al fare modernamente “impresa”), sempre pronti a tessere una
“trama nera” antidemocratica,
Giolitti – diceva Togliatti - aveva operato bene (perché essere riformisti
persino moderati, aperti a sinistra, in un mondo di reazionari di vertice e di
base, o di simil-reazionari, è quasi essere rivoluzionari). Il liberale
Giovanni Giolitti aveva pur legittimato vent’anni d’azione sindacale e
socialista, dato il suffragio universale maschile nel 1913, cercato di evitare
la Grande Guerra, e desiderato un governo liberale-socialista tra il 1918 e il
1920. Quello di Giolitti sarebbe stato tutto un agire ben diverso, secondo
Togliatti, da quel De Gasperi che nel 1947 aveva buttato fuori i socialcomunisti
dal governo (persino prima che gli americani lo inducessero a farlo). Di lì
venne poi una storiografia, come quella di Nino Valeri, poi arrivata a Giorgio
Candeloro, a Brunello Vigezzi e a tanti altri anche ottimi studiosi,
storiografia favorevole a quel grande liberale piemontese, che Gaetano
Salvemini aveva invece considerato - come titolava un suo libro di
circostanziate denunce relativo alle campagne elettorali nel sud d’Italia - Il ministro della malavita (1910): libro
di denuncia che influì moltissimo su Gramsci, ma pure su Rosselli e i
liberalsocialisti (e per sempre). A Togliatti l’Italia liberale, tanto più
quando era stata aperta alle sinistre, non dispiaceva. In un
Paese così insidiato da impulsi di destra (“trama nera”), e per ciò con un
animus così moderato e persino reazionario, l’incontro tra il centro e la
sinistra - per il togliattismo, e post-togliattismo - era e forse è sempre da
mettere nel conto delle cose buone. Questo modo di pensare era comune a
Togliatti ed a Nenni, ossia alla cultura che era stata dominante tra i
comunisti come tra i socialisti italiani. Accentuando i dati di arretratezza
economica e di connessa reazione politica erano tutti aperti alla DC: prima il
“rinnegato” Saragat; poi Nenni e sempre Togliatti, e più oltre ancora
Berlinguer, e infine D’Alema e compagni. Consideravano sempre quelli che
avevano trescato con il gran partito dei moderati dei traditori, ma più perché
l’avevano fatto senza di loro che per ragioni sociali e politiche. Ove
collaborasse con loro la signora Democrazia Cristiana, che sino al giorno prima
era stata descritta come la dantesca “puttana” Taide “con le dita sporche di
merda”, diventava una brava signora. Per
contro un’altra linea valorizzava e talora esagerava i tratti di modernità, di
liberalismo o persino di antelucano riformismo dell’Italia, e per ciò sosteneva
più o meno sempre l’alternativa democratica e di sinistra, com’è stato evidente
in Lelio Basso, Vittorio Foa e più oltre, dalla metà degli anni Sessanta, in
Riccardo Lombardi.
I
comunisti italiani, in sostanza, avevano sempre messo nel conto la necessità di
collaborare - con, ma anche al di là dei socialisti, insieme ai democristiani
-: dai governi dell’antifascismo del 1944/1947 ai governi di “nuova
maggioranza” proposti da Togliatti, sino al “compromesso storico” proposto da
Berlinguer dal 1974 al 1979, e poi fallito- (Quel “compromesso” preteso
storico, di cui il monocolore democristiano impersonato dal cinico Andreotti -
sostenuto dal PCI con astensione e poi assenso dal 1976 al 1979 - avrebbe
dovuto essere il prologo, fallì. Ebbe tale mala sorte anche perché sabotato dai
socialisti di Craxi, segretario dal 1976. I socialisti dapprincipio avrebbero
voluto porsi come l’avanguardia di tutta la sinistra di governo, in
rappresentanza dello stesso PCI a Palazzo Chigi, tenendo loro la presidenza del
Consiglio, mentre ricevettero il “niet” del PCI che per tre anni aveva
sostenuto Andreotti. Certo accadeva pure per i loro “vizi morali” in politica,
appresi dalla DC, ma pure perchà non potevano accettare la visione tutta basata
sulla diarchia tra le grandi potenze della DC e del PCI, con loto come forza di
complemento, senza dissanguarsi elettoralmente com’era accaduto di continuo dai
tempi di Nenni a quelli di De Martino; ma Berlinguer, forse influenzato dai
suoi sommi maestri Gramsci e Longo, ma soprattutto dal “cattocomunismo” di
Franco Rodano,
non poteva intenderlo). Ma per evitare quel contesto, ossia la diarchia tra DC
e PCI che secondo lui liquidava lui stesso e il suo partito, Craxi dovette fare
del centrosinistra a guida socialista, cioè suo, una forza che avrebbe voluto
costringere il PCI a scegliere tra “unità socialista” e autodistruzione. Nel
tentativo di strappare consensi a sinistra e di attuare un riformismo autonomo
insieme ai democristiani, da un lato Craxi si studiò di fare dello PSI un
grande partito,con mezzi molto spregiudicati, per usare un eufemismo, e
dall’altro cercò di modernizzare lo Stato col pubblico denaro, ma
perdendo così il controllo del debito pubblico. Naturalmente questo accadde
anche per l’estrema difficoltà di respingere l’attacco alla diligenza della
spesa pubblica, sotto la spinta di tutti i gruppi nel vero centro della
sovranità (il Parlamento), per non dir
dei sindacati stessi, in lunghi anni che visti a posteriori sono stati - dopo
il bieco assassinio di Aldo Moro (1978), che Craxi con tutte le forze avrebbe
voluto impedire - di decadenza e estinzione della prima Repubblica. Il
risultato, comunque - per responsabilità della classe politica, e di governo e
del parlamento, e nazionale e periferica - fu che il debito pubblico, tra il
1982 e il 1993, decuplicò letteralmente, tanto che a un certo punto il crollo
della lira e il fallimento dello Stato si fecero così pericolosamente incombenti
che un governo “socialista” di Giuliano Amato si trovò a dover prendere i soldi
mancanti dai conti bancari stessi degli italiani, tassati con decisione
improvvisa e drammatica dalla sera alla mattina nel luglio 1992 (prelievo
forzoso, di 30.000 miliardi di lire tassando del 6 per 1000 tutti i conti),
preludio ad un’ulteriore manovra detta di “lacrime e sangue”, nello stesso
anno, di 93000 miliardi di lire (per frenare un pericolosissimo deficit
pubblico).
Intanto mutava, improvvisamente, un orientamento dell’opinione pubblica
maturato dal 1948. Infatti veniva improvvisamente meno ogni pregiudiziale
anticomunista essendo crollata l’URSS stessa (1991), sicché non c’era più da
temere che dare il calcio nel sedere desiderato da immense masse sin dal ‘68/69,
ai governanti DC-PSI, significasse fare il gioco del PCI compiendo un salto nel
buio che gli americani “ci avrebbero fatto pagare”, magari tramite colpi di
stato di destra. Il discredito accumulato dai governanti era tale che i giudici
attaccarono finalmente in grande stile il ceto politico (Tangentopoli, 1993 e
anni seguenti), e venne giù lo Stato dei partiti, e della loro trasformistica
connivenza (centro moderato e sinistra riformista): trasformismo che non solo
si toccava con mano nel matrimonio trentennale tra DC e PSI, ma che all’ombra
delle commissioni dal ‘68/’69 coinvolgeva pure PCI, e confederazioni sindacali,
in alto e dappertutto, tanto che l’80% delle leggi era votato anche
dall’opposizione dal ’68 in poi.
Allora, intorno al 1993, si tentò di fare un funerale di terza classe al
trasformismo, che ci aveva donato 1781 milioni di euro di debito pubblico sin
dal 1994 (dieci volte più che nel
1982, anche se oggi sono 2.283, e non diminuiscono affatto) e un livello di
corruzione da terzo mondo. Sono i due mostri da liquidare o aggirare se si
vuole salvare la nave Italia (e, a questo punto, anche la democrazia).
Ma la formazione di una normale alternanza tra una maggioranza che
governa e un’opposizione che contesta e aspetta il suo turno, richiedeva la
blindatura della maggioranza stessa e, possibilmente, l’elezione popolare del
governo. Infatti con la proporzionale più o meno pura il governo può essere
solo un convoglio più o meno eterogeneo, aperto o spalancato ad apporti
continui dell’opposizione. E’ infatti sufficiente – all’ombra della
proporzionale dominante - che una parte, o un partito minore di governo di
maggioranza (spesso prima del 1963 erano stati i socialdemocratici di Saragat o
i repubblicani di Ugo La Malfa, verso il PSI; cui dopo il 1963 si aggiunsero i
socialisti, o meglio parti di essi, verso i comunisti) oppure che una corrente del partito di
maggioranza (spesso la sinistra democristiana) flirti - o su singole leggi più
o meno importanti o sull’indirizzo futuro – con una parte importante
dell’opposizione, per far cadere il governo. E infatti i governi nella prima
Repubblica erano stati semestrali. E la tenuta della maggioranza dal ’68 in poi
avveniva tramite forti convergenze, concordate nelle Commissioni, sulle leggi.
Ma questo aveva infine prodotto il
disastro finanziario e il disastro morale di cui si è detto: bancarotta
dello Stato e “furfantocrazia” (nonostante i cospicui anticorpi che pure
resistettero sempre, bilanciando il disastro e fermando per così dire l’auto
sull’orlo del precipizio più volte).
Solo che dopo il 1994 sembra essersi determinata la situazione che i
veneti sintetizzano nel bel proverbio: “Peso
il tacòn del buso”: ossia la tacca che metti nei pantaloni che si sono
rotti è peggio del buco che si era determinato prima. In pratica si è riusciti
a fare abbastanza bene l’aggiustamento post-trasformistico, e tale da
riconciliare un poco popolo e Stato, solo nei Comuni, che infatti sono la sola
istituzione che abbia un consenso relativamente vasto, più o meno del 40%,
degli italiani (mentre le altre secondo tutte le rilevazioni sono detestate dal
90%), stabilendo un sistema elettorale a due turni con elezione del primo
cittadino. Si è fatto pure a livello di Regione, ma lì la cosa è stata rovinata
dalla concorrenza letale tra il letale nordismo padano e certi ministeri di
sinistra, che hanno modificato il titolo quinto della Costituzione dando alle
Regioni poteri da semistati – come ha fatto la legge detta Bassanini del marzo
1997 conferendo compiti e funzioni alle Regioni e enti locali – con dissesto
ulteriore della cosa pubblica.
In sostanza se tu vuoi un assetto basato sull’alternativa democratica
tra l’area che sta al governo e quella che sta all’opposizione, evitando il
“gioco tra compari” e lo sperpero del denaro pubblico che ne consegue in modo
continuo (col connesso e sempre più pericoloso discredito raducale, sino
all’astensione maggioritaria, della classe politica della Repubblica da parte
della gran massa dei cittadini), devi: 1)
optare per un sistema maggioritario a due turni, in modo che risulti una
maggioranza chiara; 2) prevedere per chi vince al secondo turno (o che al primo
abbia maggioranza assoluta) o di collegio o nazionale, un congruo premio di
maggioranza; 3) fare del leader che vince al secondo turno o il capo dello
stato e del governo o almeno del governo.
Da noi dapprima si tentò - e oggi abbiamo perso anche questo -
l’operazione gattopardesca (“tutto cambi perché tutto resti come prima”) - del
fare un maggioritario, però a un turno, col famoso Mattarellum (agosto 1993),
il quale prescriveva il 75% di collegi di tipo maggioritario e il 25% di tipo
proporzionale, con liste differenziate (e però altro sistema di voto per il
Senato). Così si aveva sì un’indicazione di volontà degli elettori chiara sul
governo da farsi, ma non accompagnata da meccanismi che la mettessero in
sicurezza (doppio turno). In pratica il grande mercato per fare il governo che
dal 1948 al 1994 avveniva dopo le elezioni (anche se si sapeva tutto prima),
ora avveniva dopo. E inoltre c’era un’indicazione – nulla di più e nulla dimeno
– sul genere di maggioranza che la maggioranza degli elettori “avrebbe avuto
caro”.
Ci furono molti tentativi per trasferire a livello nazionale il
meccanismo vigente nei Comuni (il “sindaco d’Italia”): il più consistente dei
quali fu la commissione bicamerale D’Alema, che nel 1998 Berlusconi in extremis
fece fallire. Ci furono pure tentativi ulteriori della destra al potere di fare
in Italia una vera repubblica presidenziale come e più che in Francia, ma
essendo impersonati da un nababbo come Berlusconi, che era ed è sì un
comunicatore geniale, ma con montagne di soldi che i suoi avversari dicevano
pure di discussa origine, iperpopulista, cui erano continuamente attribuiti
mille vizietti noti, inseguito dalle procure e alleato con una destra ex
fascista o filofascista sino a pochi anni prima, gli italiani li respinsero. La
sola grande riforma dello Stato che riuscirono a fare fu peggiorare di molto il
Mattarellum, tramite la famosa legge elettorale del dicembre 2005, proposta da
un dentista della Lega, Calderoli, ben presto detta da lui stesso “una porcata”
(donde il nome di “Porcellum”), che introduceva un parlamento per la prima
volta tutto di nominati dal primo all’ultimo dalle segreterie nazionali dei
partiti e solo sanzionato dal voto degli italiani: sistema che fu
tranquillamente usato anche dalla sinistra per tre elezioni prima di esser dichiarato
incostituzionale per diversi aspetti dalla Consulta. Infine è arrivato Matteo
Renzi, leader del PD e per mille giorni capo del Governo, il quale ha varato
una riforma costituzionale che assegnava il compito di dare la fiducia alla
sola Camera dei deputati; riassegnava allo Stato compiti dati da Bassanini e
compagni alle Regioni e fonte di molti sprechi; aboliva enti inutili come il
CNEL e si connetteva a una nuova legge elettorale (Italicum) che dava al
secondo turno, alla Camera, il 55% di deputati alla lista vincente, realizzando
così il governo di legislatura basato su una chiara maggioranza; e ciò pur non
modificando in nulla i poteri del presidente del Consiglio. Ma gli italiani
hanno bocciato tale disegno, col contributo decisivo della sinistra del PD, col
60% contro il 40%, il 4 dicembre 2016. Dopo di che c’è stata una girandola di proposte
di legge del PD, che andavano dal ritorno al Mattarellum (75% di maggioritario
e 25% di proporzionale) a un sistema al 50% proporzionale e al 50%
maggioritario (Rosatellum),a un sistema proporzionale alla tedesca col 5% di
sbarramento per entrare alla Camera, e infine a un assetto per il 61%
proporzionale e il 37% maggioitario di collegio, per Camera e Senato
(Rosatellum bis, 26 ottobre – 3 novembre 2017), approvato recentemente, tramite
voti di fiducia resi inevitabili dal fatto che si giungeva ormai a fine
legislatura. L’impressione è che il PD e Renzi non abbiano voluto dare
battaglia su una posizione prevalentemente maggioritaria (tipo Mattarellum o
primo Rosatellum), magari anche rischiando di anticipare di qualche mese le
elezioni se perdenti, scontrandosi a viso aperto in parlamento o anche alla
TV), per una sorta di moto perpetuo
tattico, o di incertezza strategica, scossi com’erano dal grave scacco
del 4 dicembre 2016, che li ha lasciati in preda a molte contraddizioni e
lacerazioni. Può darsi che la rottura da sinistra del PD da parte di Bersani e
compagni abbia risvegliato pulsioni centriste sopite dando una spinta a
tendenze alla restaurazione della prima Repubblica, con aspirazione a far
giocare al PD il ruolo di nuova forza moderata con basi di massa, tutta
“progresso senza avventure”, come aveva preteso di essere la Democrazia
Cristiana. Forse l’assurda scissione di Bersani e compagni dal PD risulterà ben
poco rilevante sul piano elettorale (il solito 5%, che torna dal 1968, di una
sinistra poi costretta a scegliere tra irrilevanza politica e collaborazionismo
coi peggiori rottami del sistema dominante), ma è oltremodo dannosa perché
sbilancia verso il centro una forza nata prevalentemente dalla costola dell’ex
PCI con l’ambizione di essere un centrosinistra senza trattino, capace di unire
sinistra socialista e sinistra democratica (o cristiana). Se accade, o accadrà
stabilmente, o sarà così – ossia se il PD si porrà come il Nuovo Centro - sarà molto
negativo. Ma la levatrice di tale degenerazione, in tal caso, sarebbe stata
e sarebbe proprio la sinistra degli insipienti, che fa sempre male a Dio e ai
nemici suoi. Non credo che la storia assolverà chi mostra, oltre a tutto per
l’ennesima volta, tale capacità di fare autogol a favore della squadra
avversaria: in pratica di un centrodestra forzatamente dominato dal duo
Salvini-Meloni.
A
questo punto vorrei provare a tornare al punto di partenza del ragionamento, su
trasformismo e alternativa democratica (tra destra e sinistra), vedendo però
subito dopo che cosa può succedere in base al Rosatellum bis a partire dalle
prossime elezioni del marzo 2018.
Uno può a giusta ragione chiedersi perché mi stia così a cuore un
assetto non trasformistico, che escluda la mescolanza esplicita o anche implicita
tra le parti opposte. Non è forse la concordia, tanto più ove si ragioni in
modo post-ideologico come ormai s’impone, un valore importante?
Io sento con particolare forza due dati in proposito: uno si basa sul
confronto macrostorico, ma empiricamente verificabile; l’altro ha a che fare
con la questione morale.
Ammettere apertis verbis il
primo dato può essere imbarazzante, ma ormai non me ne curo. Sono convinto che
i periodi in cui la differenza tra governo e opposizione era palese negli
orientamenti di fondo siano stati i migliori della storia d’Italia, sia per
realizzazioni epocali che per qualità morale delle classi dirigenti. In Italia
ne abbiamo avuti solo due (anche se la seconda repubblica, dal 1994 in poi, è
stata un grande tentativo di ripristinare quella logica bipolare alternativa:
tentativo però malamente “abortito”, e in una fase recente, dal 4 dicembre
2016, “fallito”; lo stesso fascismo aveva miscelato molte cose opposte, almeno
dall’ottobre 1922 al luglio ‘43). Il primo periodo è stato quello della destra
storica, dal 1861 al 1876: tendenza liberal-conservatrice che ha avuto tanti
difetti (a partire dal suffragio limitato di quel tempo), ma che è stata pur
sempre quella che ha realizzato un grande Stato nazionale unitario di tipo -
per quel tempo - moderno, dopo secoli di divisione e staterelli (come Rosario
Romeo ha definitivamente dimostrato, in polemica con tutta la tradizione
gramsciana e gobettiana del Risorgimento come rivoluzione borghese mancata): Stato
con i conti a posto e un’alta moralità politica. Il secondo periodo, dopo la
destra storica, è stato il centrismo, dal 1947 al 1961, che naturalmente ha
avuto aspetti nefasti per i lavoratori (più volte anche ammazzati durante
grandi scioperi), e anche visto emergere, alla sua ombra, un plumbeo clima
etico politico clericale; ma allora l’Italia è stata rapidamente ricostruita
dopo la grande tragedia della seconda guerra mondiale; i conti sono stati
rimessi del tutto a posto da Luigi Einaudi, De Gasperi ed altri, ed è emerso un
vero miracolo economico, come la miglior storiografia “cattolico democratica”
ha dimostrato.
E allora, come già nel 1861-1876, la classe politica, di governo come
d’opposizione, è stata tutta quanta, nell’insieme, “molto per bene” (in “tutti”
i partiti). Naturalmente contava molto la tensione del nuovo inizio di uno
Stato, ma anche l’assenza dell’urgenza di forti innesti di trasformismo (a dosi
limitate iniziò nel ’54, subito mefiticamente, ma ancora con un fortissimo
soggetto moderato conservatore dominante; poi, dopo il ’63, il trasformismo
dilagò, dopo il ’68 coinvolgendo tutti i soggetti politici e sociali
importanti, almeno sino ai governi di Craxi).
Naturalmente è stato un gran bene che il centrismo – moderato,
conservatore e clericale, e gravemente discriminatorio e repressivo nei
confronti del movimento operaio - sia finito, al governo, nel 1961 e
definitivamente dalla fine del 1963. Ma il problema sarebbe stato che l’assetto
omogeneo in senso centrista, conservatore e moderato fosse sostituito da un
assetto omogeneo di sinistra, riformista e riformatore (ossia dall’alternativa
democratica e di sinistra, al posto
della DC). E se non era ancora possibile dopo il luglio Sessanta, sarebbe stato
bene che lo fosse stato almeno quando emerse la grande crisi di ogni
moderatismo, dopo il ’68-69, o almeno nel ’75-76. In pratica c’era stato un crescendo
continuo verso sinistra che visto storicamente è stato impressionante, e per
chi concordava entusiasmante, durato per
ben quindici anni consecutivi, dal luglio ’60 sino al 1975/76, sicché
allora l’alternativa di sinistra, o verso il ’72 o verso il ’76 sarebbe stata
arcimatura, erede naturale di un lunghissimo crescendo di lotte e conquista
sociali politiche e civili preparatorio iniziato nel luglio 1960. Ma a ciò si
opponeva la natura del PCI, sino al 1968 legato al comunismo di Mosca in modo
assoluto; dal ’68 in modo attenuato sino al 1981, e poi in un rapporto di
separazione consensuale, sempre “tra compagni”, tanto più al tempo di
Gorbaciov, quando lo strappo dell’81 venne messo in naftalina. Ciò faceva sì
che al di là della propaganda contingente (del 1948), il PCI sin dal 1944
sapesse che il massimo cui poteva aspirare era il condominio con la DC (insieme al PSI), detto da Togliatti, dal ’56
e in specie dal ’61, “nuova maggioranza” e da Berlinguer, dal ’74, “compromesso
storico”. Ma questo “condominio” era la negazione stessa della logica
dell’alternativa democratica e di sinistra: un’alternativa di sinistra che
evidentemente avrebbe potuto realizzarsi – come molti nati negli anni Quaranta
compresero solo una trentina d’anni dopo la nascita (o più) - solo se il PCI si
fosse trasformato - con traumatica e inequivocabile rottura con Mosca,
mutamento del nome, e fine dell’unanimismo di partito - in una grande
socialdemocrazia europea senza se e senza ma.
La logica dell’alternativa tra destra e sinistra (o se si preferisce tra
destracentro e sinistracentro) richiedeva però anche un assetto istituzionale
niente affatto favorevole al trasformismo: assetto post-trasformistico
incompatibile con l’ordinamento proporzionale. Infatti l’ordinamento esclusivamente
o prevalentemente di tipo proporzionale può reggersi solo sull’esplicita o
implicita collaborazione e connivenza tra gli opposti. Si era già visto in
Francia prima della nuova repubblica di de Gaulle (1958). Per anni era parso
che non fosse così in Germania, ma solo perché la sinistra socialcomunista, con
due Germanie, a Occidente pareva l’antinazione, e perché sino al 1979 non
c’erano stati i verdi. E’ bastato che si complicasse un poco la geografia
politica perché si vedesse, nonostante lo sbarramento del 5% per entrare in
parlamento e il meccanismo della sfiducia costruttiva, che persino quel Paese -
con quella millenaria vocazione all’ordine, rafforzata dal luteranesimo
politico - doveva rassegnarsi a quel che qui ho detto trasformismo, ossia alla “grande
coalizione”, che se da soluzione eccezionale si fa normale sputtana l’area
progressista privandola di ogni carica di alternativa democratica e di
sinistra, e a lungo andare sputtana pure frazioni più o meno cospicue del
centro, che perde credibilità a destra, provocando forti rigurgiti di nuova
destra, tra cui quelli xenofobi o contro “i diversi” sono sempre stati
un’emergenza classica, che oggi le vere e proprie migrazioni dalle terre della
guerra e della fame, nell’era dell’informazione e dei viaggi, e insomma della
globalizzazione, dilatano come non mai.
Ora, in Italia stiamo tornando alla proporzionale, e dunque al
trasformismo, alla nostra prima Repubblica: col dato positivo del terzo di
collegi di tipo maggioritario, che dà una spinta alle alleanze, ma con due
terzi del solito antico proporzionalismo, volano di alleanze “innaturali”,
fatali per la vera sinistra come per la vera destra (anche di tipo
post-comunista come post-fascista); o, se tali connubi non si verificano,
volàno di folle ingovernabilità: e con l’aggravante estrema di un mondo ormai
privo dei grandi partiti, che sono l’anima del proporzionale, e che nessuno
potrà tirar fuori dalla tomba; e neppure c’è un grande partito d’opposizione
sempre escludibile dal governo, com’era stato il PCI, che suo malgrado era
stato un paradossale fattore di stabilità del regime democristiano. Perciò io
prevedo una fase di grande ingovernabilità. Dal 2011 non abbiamo più avuto un
governo più o meno corrispondente alla volontà popolare. Alla fine la gente non
ci stara più e, come direbbe Grillo, ci manderà tutti “a fare in culo”, in
forme per ora oscure, ma ben difficilmente democratico liberali.
Ora noi, infatti, abbiamo tre poli. Se vince quello del Movimento 5
Stelle, rifiutando da sempre alleanze (perché se no cade il mito della sua
pretesa diversità), non potrà governare affatto. Se vince il centrodestra non
potrà governare affatto. Remotamente si potrebbe anche pensare che il M5S
“dopo” le elezioni compia una svolta di 180 gradi superando “di botto” il
rifiuto delle alleanze, accordandosi con la Lega di Salvini (come questo di
tanto in tanto propone) e con Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. In tal caso
nascerebbe subito una vera coalizione di “tutti i populisti”, che porterebbe
rapidamente – persino se Di Maio non lo volesse – l’Italia fuori dall’Unione
Europea, e all’interno muterebbe il’Italia n forme per ora non prevedibili, ma
certo molto lontano dalla classica democrazia liberale di cui ho detto e dalle
forme dello Stato ora scritte in Costituzione (per quanto i “capi” per ora
manco lo capiscano).
Questa per ora è fantapolitica (ma è anche “fanta-logica). Tuttavia
stando coi piedi più poggiati per terra, credo si possa dire che in ogni caso
la Lega e Fratelli d’Italia non seguiranno mai Forza Italia in un patto col PD
che - ammesso e non concesso che Renzi e Berlusconi vogliano farlo - non avrà
mai i numeri necessari.
Quanto alla sinistra, è così divisa che, pur non avendo affatto
governato male dal 2013 a oggi tramite Renzi e Gentiloni (ma anzi piuttosto
bene, a confronto con i predecessori), spaccata com’è potrà fare ben poca
strada. Anche se conservo una piccola speranza di essere smentito da una realtà
eventualmente meno pazza di quel che sembra.
Giustamente Paolo Mieli, in una recente trasmissione televisiva, con
l’allure dello storico - che certo riecheggiava la dialettica tra caos e
ordine, e l’idea di “distruzione creativa”, applicate da Karl Polanyi e da J.
Schumpeter
- prevedeva due anni di “caos” salutare, in certo modo rifondativo, a seguito
delle prossime elezioni del marzo 2018: dopo il quale tutto muterà. Ma per ora
si può solo pensare che possa accadere imponendo la governabilità - che è
“l’indilazionabile”, cui non si potrà scappare a lungo - in modo semiautoritario.
Vorrei sbagliarmi, ma mi sembra di percepire la “democratura”, ossia la sintesi tra democrazia e dittatura, il
“fascismo senza fascismo”, in cammino. Per ora la si è vista in paesi che sono
decisivi, ma o di antico dispotismo o di moderno militarismo, come la Russia di
Putin o la Turchia di Erdogan o la Polonia. Ma se accadesse in Italia sarebbe
altra cosa.
Nonostante tante interpretazioni che hanno accentuato il retaggio di un
passato reazionario,
infatti il nostro Paese - come Engels sapeva già benissimo nel 1894, per
non dire di Bordiga, o di
grandi storici diversamente orientati come Gioacchino Volpe,
Rosario Romeo ed altri – è un Paese “en marche”, dal Medioevo e Rinascimento in
poi: un Paese che ad esempio non a caso ha dato il primo e più concettualmente
elaborato marxismo, comunismo e fascismo dell’Europa capitalistica avanzata. Solo
che siamo all’avanguardia nel bene e nel male. Non vorrei che come nel ’22
dessimo il “la” ad altri, sempre modernamente ma di nuovo troppo
pericolosamente o negativamente, generando qui la “democratura” a misura di
grandi paesi capitalistici avanzati. Per la sintesi tra giustizia e libertà
sarebbe un disastro, come sempre lo è quando questi due valori supremi si
separano. Ma l’istanza del Paese di uscire da una palude intollerabile, specie
per giovani e esclusi, può farci scherzi terribili, anche se ancora non lo si
può vedere a occhio nudo; e tuttavia i sintomi sono numerosi, e il vaccino
“anti-influenzale” s’imporrebbe contro la democratura che “c’è in giro”. Se a
sinistra da un lato imparassimo a essere “plurimi in uno” - il che è il primo
comandamento di ogni socialdemocrazia europea “vera” - e dall’altro a tenere
insieme l’istanza della forte governabilità democratica (doppio turno, premi di
maggioranza, forme atte a garantire governi di legislatura, giustizia rapida
nei tribunali, eccetera) con quella delle lotte per il lavoro e l’ambiente
(reddito d’inclusione, cooperativismo, risanamento di acqua e aria, eccetera),
potremmo benissimo far fronte agli anni drammatici che ci attendono in termini
politico istituzionali, proprio ora che come italiani abbiamo agganciato la
ripresa economica (tra le altre cose).
In caso diverso rischiamo di finire molto male: o in una semidittatura o
addirittura nello sfascio della nazione sorta tra 1861 e 1870. Ma - lo
ribadisco con tutto il cuore - spero di sbagliarmi, e dico io pure: “crepi
l’astrologo”. Anche se “qui” sono io.
(franco.livorsi@alice.it)