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Il futuro del centro-sinistra
Crepi l’astrologo e viva la democrazia
Franco Livorsi


“Crepi l’astrologo” lo dico io. Se lui, l’astrologo, dice che una grande crisi della democrazia è “in cammino”, vada in malora. Meglio che accada a lui che a “lei”. Speriamo che l’astrologo stia interpretando male i segni del tempo. Come diceva Trockij “E’ vero che la storia è maestra di vita, ma è una maestra senza allievi”. Speriamo dunque che il “profeta di sciagure”, che qui sarei io, abbia torto marcio. Auspichiamo che non sia come Cassandra. Ricordate? - Lei era una delle tante figlie di Priamo, il vecchio re di Troia, padre di cinquanta figli, tutti belli sani e forti: come quel Paride, un po’ troppo “femminaro” - come direbbe il Montalbano di Camilleri dell’amico Mimì - per essere un grande guerriero: il Paride che a Sparta si portò via, con l’assenso di lei, la moglie del sovrano Menelao, Elena, conducendola a Troia; o come quell’Ettore, difensore principale di Troia dagli attacchi degli Achei (avvenuti verso il 1200 a.C.), Achei ufficialmente scesi in guerra per vendicare il ratto, per altro consensuale, della moglie di Menelao (“non sia mai”), come canterà poi Omero nell’Iliade, nell’VIII secolo a.C.[1]. Ma torniamo a Cassandra. A quel tempo c’era un grande dio del sole, ma anche della profezia, Apollo. Era lo stesso che aveva già dato non pochi guai al povero Edipo, cantato poi da Sofocle nel V secolo a.C. nella più bella tragedia di tutti i tempi[2]. Il dio aveva detto oscuramente a Edipo tramite la profetessa, la Pizia, a Delfi - in un sito oggi diroccato in cui io pure sono stato, vedendo con timore e tremore il punto da cui lei parlava, dieci anni fa - parole oscure che poi, male interpretate - e perché il destino avrebbe comunque dovuto compiersi - contribuirono alla rovina dello sventurato eroe. A un certo punto questo dio Apollo si era invaghito di Cassandra. Lui, come il suo babbo Zeus, aveva una forte tendenza a insidiare le più belle ragazze del mondo, fossero esse consenzienti o anche dissenzienti (almeno nel suo caso), com’è stupendamente rappresentato nella statua su Apollo e Dafne (1622/1625) del nostro Bernini: complesso statuario che, se non lo conoscete “faccia a faccia”, fareste bene a andarvi a vedere a Roma alla Galleria Borghese, perché neanche il Mosè (1515) di Michelangelo, per me, è così bello. Il dio voleva Cassandra, ma lei non voleva dargli quel che si sa. Forse lei aveva altri gusti, anche se la cosa, per le ragazze, allora non era neanche contemplata (per i ragazzi lo era anche troppo). Allora Apollo, che già l’aveva “toccata” con le sue virtù (profetiche) - siccome il diniego di lei gli aveva fatto girare le auree palle - l’aveva condannata a saper prevedere - volente e persino nolente - il futuro, ma a non essere creduta da nessuno. E così la ritrae - mentre lei profetizzava non solo la caduta di Troia, ma il grande atto del raccontarla da parte del vecchio Omero cieco, che avrebbe dato gloria anche ai vinti, e in specie a Ettore, difensore della patria oppressa, - il nostro Foscolo, in alcuni tra i passaggi più toccanti di Dei Sepolcri (1807)[3]. Il tutto lo dico per sottolineare che io so bene che chi antivede o crede di antivedere qualcosa che è ancora in pentola, spesso non è creduto, anche quando abbia buoni argomenti. Ma io li enuncio ugualmente. Il mio paradosso - ma a quanto pare lo era stato pure per Cassandra - è che vorrei che la mia profezia risultasse falsa. Ma enunciarla può servire a dare un allarme. Se poi sarà stato un allarme eccessivo, pazienza. Meglio un allarme in più che uno in meno.

   Punto di partenza. Moltissima gente ha sempre detto che alle elezioni vorrebbe vedere solo due parti in competizione. Essa sceglierebbe periodicamente; e la parte non scelta dovrebbe fare l’opposizione aspettando di essere scelta a sua volta da “lei”, venuto meno il gradimento della maggioranza per la parte avversaria. Ma nella storia italiana quest’assetto - tra due partiti o almeno due parti ben differenziate e competitive, che è poi la democrazia dell’alternativa - è stato ed è molto raro: 1) perché spesso ci sono grandi emergenze che consigliano di collaborare pur essendo le parti opposte; 2) perché c’è nel nostro DNA italico molto individualismo, e ciascuno vuol farsi un gruppo a sé, sicché i due diventano poi una decina; 3) perché - dato l’individualismo, spesso amorale, che c’è “da noi” - molti si fanno allettare dal potere che c’è, ossia da chi comanda: per far più presto ad avere il loro “particulare”; perché conviene; e così fan tutti; e poi perché il potere che c’è, per evitare che una parte decisiva di oppositori possa crescere preferisce coinvolgere gli avversari se appena “ci stiano”.

   Perciò - benché il senso comune dica da sempre che ci vorrebbero due parti tra cui scegliere, e che quella non scelta dovrebbe aspettare il suo turno - i contendenti importanti preferiscono la mescolanza delle parti in lotta, ossia la libera collaborazione, o connivenza, o complicità, sopra o almeno sotto banco, che si chiama “trasformismo”.

   Il trasformismo - la pratica di compromissione continua tra parti che dovrebbero invece lealmente competere, seppure rispettandosi come opposte squadre in campo ed evitando di picchiare sotto la cintola o di picchiare l’arbitro - non solo è stato da noi dominante, ma da molti è stato pure rivalutato tramite studi “formalmente” rigorosi : o per convinzione o strumentalmente. In generale la giustificazione “nobile” del trasformismo è sempre la stessa: meglio collaborare con i più forti dell’altra parte per evitare il rischio che le ali estreme - antisistema, demolitrici e antidemocratiche - prevalgano: siano esse forze “reazionarie” che mirano a restare attaccate o a restaurare ordinamenti marci del passato (battenti bandiera nera), oppure rivoluzionarie, eversive, antisistema (“rosse”), che poi volenti o nolenti portano (o porterebbero) a nuove tirannidi, o quantomeno a un caos illimitato nell’economia e nell’ordine pubblico. Oggi il ruolo di babau è giocato, in modo un po’ anomalo, da Di Maio (Movimento 5 Stelle) e Salvini-Meloni (Lega e Fratelli d’Italia). E in effetti qualche rischio quelli lì lo fanno correre, ma non al punto di giustificare addirittura in partenza le minestre riscaldate per la decima volta, le “fritture delle rifritture” di tipo moderato, sia che queste possano assumere il volto improbabile di governi in cui PD e Forza Italia sono nella stessa maggioranza, come accadde col governo Letta, benedetto pure da Bersani, nel 2013, oppure di governi istituzionali, tipo quello Monti-Fornero, di nuovo sostenuti dai voti di un PD che non era ancora quello di Renzi. Io chiamo tali soluzioni “trasformistiche”, ma voi potete pur trovare “nomi” più simpatici. Ma la sostanza non cambierà.

    I teorici del trasformismo - o comunque si chiami l’incontro tra il diavolo e l’acqua santa, o tra squadre che in campo sono in competizione, e invece preferiscono concordare il da farsi insieme - sono presenti tra i grandi politici come tra gli storici loro amici. Molti tra questi “teorici” hanno messo in luce che per quella via - in sostanza sempre basata sul prevalere di un Grande Centro (supportato ora da destra e ora da sinistra) capace di isolare “le due ali estreme” - si è andati molto avanti. Ci sono storici che hanno rivalutato il vero e proprio trasformismo parlamentare inaugurato nel 1876 dal piacentino (di Stradella) Agostino Depretis. Ed altri che, incredibilmente sull’onda di un famoso Discorso su Giolitti di Togliatti (1950)[4], che certo fece girare nella tomba il suo amico e maestro Gramsci, hanno rivalutato lo statista liberale di Dronero, che cercando di convergere con i socialisti (in realtà se non ci riusciva lo faceva anche con gli antisocialisti, e nelle elezioni del ’21 persino con i fascisti), aveva fatto molte cose buone; e siccome il capitalismo italiano sarebbe stato fatto - per loro e per Togliatti (e a lungo o sempre per D’Alema) - di profittatori, speculatori e loro innumerevoli manutengoli più legati alla “rendita” che al “profitto” (ossia più allo speculare che al fare modernamente “impresa”), sempre pronti a tessere una “trama nera” antidemocratica, Giolitti – diceva Togliatti - aveva operato bene (perché essere riformisti persino moderati, aperti a sinistra, in un mondo di reazionari di vertice e di base, o di simil-reazionari, è quasi essere rivoluzionari). Il liberale Giovanni Giolitti aveva pur legittimato vent’anni d’azione sindacale e socialista, dato il suffragio universale maschile nel 1913, cercato di evitare la Grande Guerra, e desiderato un governo liberale-socialista tra il 1918 e il 1920. Quello di Giolitti sarebbe stato tutto un agire ben diverso, secondo Togliatti, da quel De Gasperi che nel 1947 aveva buttato fuori i socialcomunisti dal governo (persino prima che gli americani lo inducessero a farlo). Di lì venne poi una storiografia, come quella di Nino Valeri, poi arrivata a Giorgio Candeloro, a Brunello Vigezzi e a tanti altri anche ottimi studiosi, storiografia favorevole a quel grande liberale piemontese, che Gaetano Salvemini aveva invece considerato - come titolava un suo libro di circostanziate denunce relativo alle campagne elettorali nel sud d’Italia - Il ministro della malavita (1910)[5]: libro di denuncia che influì moltissimo su Gramsci, ma pure su Rosselli e i liberalsocialisti (e per sempre). A Togliatti l’Italia liberale, tanto più quando era stata aperta alle sinistre, non dispiaceva[6]. In un Paese così insidiato da impulsi di destra (“trama nera”), e per ciò con un animus così moderato e persino reazionario, l’incontro tra il centro e la sinistra - per il togliattismo, e post-togliattismo - era e forse è sempre da mettere nel conto delle cose buone. Questo modo di pensare era comune a Togliatti ed a Nenni, ossia alla cultura che era stata dominante tra i comunisti come tra i socialisti italiani. Accentuando i dati di arretratezza economica e di connessa reazione politica erano tutti aperti alla DC: prima il “rinnegato” Saragat; poi Nenni e sempre Togliatti, e più oltre ancora Berlinguer, e infine D’Alema e compagni. Consideravano sempre quelli che avevano trescato con il gran partito dei moderati dei traditori, ma più perché l’avevano fatto senza di loro che per ragioni sociali e politiche. Ove collaborasse con loro la signora Democrazia Cristiana, che sino al giorno prima era stata descritta come la dantesca “puttana” Taide “con le dita sporche di merda”, diventava una brava signora[7]. Per contro un’altra linea valorizzava e talora esagerava i tratti di modernità, di liberalismo o persino di antelucano riformismo dell’Italia, e per ciò sosteneva più o meno sempre l’alternativa democratica e di sinistra, com’è stato evidente in Lelio Basso, Vittorio Foa e più oltre, dalla metà degli anni Sessanta, in Riccardo Lombardi.

   I comunisti italiani, in sostanza, avevano sempre messo nel conto la necessità di collaborare - con, ma anche al di là dei socialisti, insieme ai democristiani -: dai governi dell’antifascismo del 1944/1947 ai governi di “nuova maggioranza” proposti da Togliatti, sino al “compromesso storico” proposto da Berlinguer dal 1974 al 1979, e poi fallito- (Quel “compromesso” preteso storico, di cui il monocolore democristiano impersonato dal cinico Andreotti - sostenuto dal PCI con astensione e poi assenso dal 1976 al 1979 - avrebbe dovuto essere il prologo, fallì. Ebbe tale mala sorte anche perché sabotato dai socialisti di Craxi, segretario dal 1976. I socialisti dapprincipio avrebbero voluto porsi come l’avanguardia di tutta la sinistra di governo, in rappresentanza dello stesso PCI a Palazzo Chigi, tenendo loro la presidenza del Consiglio, mentre ricevettero il “niet” del PCI che per tre anni aveva sostenuto Andreotti. Certo accadeva pure per i loro “vizi morali” in politica, appresi dalla DC, ma pure perchà non potevano accettare la visione tutta basata sulla diarchia tra le grandi potenze della DC e del PCI, con loto come forza di complemento, senza dissanguarsi elettoralmente com’era accaduto di continuo dai tempi di Nenni a quelli di De Martino; ma Berlinguer, forse influenzato dai suoi sommi maestri Gramsci e Longo, ma soprattutto dal “cattocomunismo” di Franco Rodano[8], non poteva intenderlo). Ma per evitare quel contesto, ossia la diarchia tra DC e PCI che secondo lui liquidava lui stesso e il suo partito, Craxi dovette fare del centrosinistra a guida socialista, cioè suo, una forza che avrebbe voluto costringere il PCI a scegliere tra “unità socialista” e autodistruzione. Nel tentativo di strappare consensi a sinistra e di attuare un riformismo autonomo insieme ai democristiani, da un lato Craxi si studiò di fare dello PSI un grande partito,con mezzi molto spregiudicati, per usare un eufemismo, e dall’altro cercò di modernizzare lo Stato col pubblico denaro[9], ma perdendo così il controllo del debito pubblico. Naturalmente questo accadde anche per l’estrema difficoltà di respingere l’attacco alla diligenza della spesa pubblica, sotto la spinta di tutti i gruppi nel vero centro della sovranità  (il Parlamento), per non dir dei sindacati stessi, in lunghi anni che visti a posteriori sono stati - dopo il bieco assassinio di Aldo Moro (1978), che Craxi con tutte le forze avrebbe voluto impedire - di decadenza e estinzione della prima Repubblica. Il risultato, comunque - per responsabilità della classe politica, e di governo e del parlamento, e nazionale e periferica - fu che il debito pubblico, tra il 1982 e il 1993, decuplicò letteralmente, tanto che a un certo punto il crollo della lira e il fallimento dello Stato si fecero così pericolosamente incombenti che un governo “socialista” di Giuliano Amato si trovò a dover prendere i soldi mancanti dai conti bancari stessi degli italiani, tassati con decisione improvvisa e drammatica dalla sera alla mattina nel luglio 1992 (prelievo forzoso, di 30.000 miliardi di lire tassando del 6 per 1000 tutti i conti), preludio ad un’ulteriore manovra detta di “lacrime e sangue”, nello stesso anno, di 93000 miliardi di lire (per frenare un pericolosissimo deficit pubblico).

    Intanto mutava, improvvisamente, un orientamento dell’opinione pubblica maturato dal 1948. Infatti veniva improvvisamente meno ogni pregiudiziale anticomunista essendo crollata l’URSS stessa (1991), sicché non c’era più da temere che dare il calcio nel sedere desiderato da immense masse sin dal ‘68/69, ai governanti DC-PSI, significasse fare il gioco del PCI compiendo un salto nel buio che gli americani “ci avrebbero fatto pagare”, magari tramite colpi di stato di destra. Il discredito accumulato dai governanti era tale che i giudici attaccarono finalmente in grande stile il ceto politico (Tangentopoli, 1993 e anni seguenti), e venne giù lo Stato dei partiti, e della loro trasformistica connivenza (centro moderato e sinistra riformista): trasformismo che non solo si toccava con mano nel matrimonio trentennale tra DC e PSI, ma che all’ombra delle commissioni dal ‘68/’69 coinvolgeva pure PCI, e confederazioni sindacali, in alto e dappertutto, tanto che l’80% delle leggi era votato anche dall’opposizione dal ’68 in poi.

    Allora, intorno al 1993, si tentò di fare un funerale di terza classe al trasformismo, che ci aveva donato 1781 milioni di euro di debito pubblico sin dal 1994 (dieci volte più che nel 1982, anche se oggi sono 2.283, e non diminuiscono affatto) e un livello di corruzione da terzo mondo. Sono i due mostri da liquidare o aggirare se si vuole salvare la nave Italia (e, a questo punto, anche la democrazia).

   Ma la formazione di una normale alternanza tra una maggioranza che governa e un’opposizione che contesta e aspetta il suo turno, richiedeva la blindatura della maggioranza stessa e, possibilmente, l’elezione popolare del governo. Infatti con la proporzionale più o meno pura il governo può essere solo un convoglio più o meno eterogeneo, aperto o spalancato ad apporti continui dell’opposizione. E’ infatti sufficiente – all’ombra della proporzionale dominante - che una parte, o un partito minore di governo di maggioranza (spesso prima del 1963 erano stati i socialdemocratici di Saragat o i repubblicani di Ugo La Malfa, verso il PSI; cui dopo il 1963 si aggiunsero i socialisti, o meglio parti di essi, verso i comunisti)  oppure che una corrente del partito di maggioranza (spesso la sinistra democristiana) flirti - o su singole leggi più o meno importanti o sull’indirizzo futuro – con una parte importante dell’opposizione, per far cadere il governo. E infatti i governi nella prima Repubblica erano stati semestrali. E la tenuta della maggioranza dal ’68 in poi avveniva tramite forti convergenze, concordate nelle Commissioni, sulle leggi. Ma questo aveva infine prodotto il disastro finanziario e il disastro morale di cui si è detto: bancarotta dello Stato e “furfantocrazia” (nonostante i cospicui anticorpi che pure resistettero sempre, bilanciando il disastro e fermando per così dire l’auto sull’orlo del precipizio più volte).

   Solo che dopo il 1994 sembra essersi determinata la situazione che i veneti sintetizzano nel bel proverbio: “Peso il tacòn del buso”: ossia la tacca che metti nei pantaloni che si sono rotti è peggio del buco che si era determinato prima. In pratica si è riusciti a fare abbastanza bene l’aggiustamento post-trasformistico, e tale da riconciliare un poco popolo e Stato, solo nei Comuni, che infatti sono la sola istituzione che abbia un consenso relativamente vasto, più o meno del 40%, degli italiani (mentre le altre secondo tutte le rilevazioni sono detestate dal 90%), stabilendo un sistema elettorale a due turni con elezione del primo cittadino. Si è fatto pure a livello di Regione, ma lì la cosa è stata rovinata dalla concorrenza letale tra il letale nordismo padano e certi ministeri di sinistra, che hanno modificato il titolo quinto della Costituzione dando alle Regioni poteri da semistati – come ha fatto la legge detta Bassanini del marzo 1997 conferendo compiti e funzioni alle Regioni e enti locali – con dissesto ulteriore della cosa pubblica.

   In sostanza se tu vuoi un assetto basato sull’alternativa democratica tra l’area che sta al governo e quella che sta all’opposizione, evitando il “gioco tra compari” e lo sperpero del denaro pubblico che ne consegue in modo continuo (col connesso e sempre più pericoloso discredito raducale, sino all’astensione maggioritaria, della classe politica della Repubblica da parte della gran massa dei cittadini), devi: 1)  optare per un sistema maggioritario a due turni, in modo che risulti una maggioranza chiara; 2) prevedere per chi vince al secondo turno (o che al primo abbia maggioranza assoluta) o di collegio o nazionale, un congruo premio di maggioranza; 3) fare del leader che vince al secondo turno o il capo dello stato e del governo o almeno del governo.

   Da noi dapprima si tentò - e oggi abbiamo perso anche questo - l’operazione gattopardesca (“tutto cambi perché tutto resti come prima”[10]) - del fare un maggioritario, però a un turno, col famoso Mattarellum (agosto 1993), il quale prescriveva il 75% di collegi di tipo maggioritario e il 25% di tipo proporzionale, con liste differenziate (e però altro sistema di voto per il Senato). Così si aveva sì un’indicazione di volontà degli elettori chiara sul governo da farsi, ma non accompagnata da meccanismi che la mettessero in sicurezza (doppio turno). In pratica il grande mercato per fare il governo che dal 1948 al 1994 avveniva dopo le elezioni (anche se si sapeva tutto prima), ora avveniva dopo. E inoltre c’era un’indicazione – nulla di più e nulla dimeno – sul genere di maggioranza che la maggioranza degli elettori “avrebbe avuto caro”.

   Ci furono molti tentativi per trasferire a livello nazionale il meccanismo vigente nei Comuni (il “sindaco d’Italia”): il più consistente dei quali fu la commissione bicamerale D’Alema, che nel 1998 Berlusconi in extremis fece fallire. Ci furono pure tentativi ulteriori della destra al potere di fare in Italia una vera repubblica presidenziale come e più che in Francia, ma essendo impersonati da un nababbo come Berlusconi, che era ed è sì un comunicatore geniale, ma con montagne di soldi che i suoi avversari dicevano pure di discussa origine, iperpopulista, cui erano continuamente attribuiti mille vizietti noti, inseguito dalle procure e alleato con una destra ex fascista o filofascista sino a pochi anni prima, gli italiani li respinsero. La sola grande riforma dello Stato che riuscirono a fare fu peggiorare di molto il Mattarellum, tramite la famosa legge elettorale del dicembre 2005, proposta da un dentista della Lega, Calderoli, ben presto detta da lui stesso “una porcata” (donde il nome di “Porcellum”), che introduceva un parlamento per la prima volta tutto di nominati dal primo all’ultimo dalle segreterie nazionali dei partiti e solo sanzionato dal voto degli italiani: sistema che fu tranquillamente usato anche dalla sinistra per tre  elezioni prima di esser dichiarato incostituzionale per diversi aspetti dalla Consulta. Infine è arrivato Matteo Renzi, leader del PD e per mille giorni capo del Governo, il quale ha varato una riforma costituzionale che assegnava il compito di dare la fiducia alla sola Camera dei deputati; riassegnava allo Stato compiti dati da Bassanini e compagni alle Regioni e fonte di molti sprechi; aboliva enti inutili come il CNEL e si connetteva a una nuova legge elettorale (Italicum) che dava al secondo turno, alla Camera, il 55% di deputati alla lista vincente, realizzando così il governo di legislatura basato su una chiara maggioranza; e ciò pur non modificando in nulla i poteri del presidente del Consiglio. Ma gli italiani hanno bocciato tale disegno, col contributo decisivo della sinistra del PD, col 60% contro il 40%, il 4 dicembre 2016. Dopo di che c’è stata una girandola di proposte di legge del PD, che andavano dal ritorno al Mattarellum (75% di maggioritario e 25% di proporzionale) a un sistema al 50% proporzionale e al 50% maggioritario (Rosatellum),a un sistema proporzionale alla tedesca col 5% di sbarramento per entrare alla Camera, e infine a un assetto per il 61% proporzionale e il 37% maggioitario di collegio, per Camera e Senato (Rosatellum bis, 26 ottobre – 3 novembre 2017), approvato recentemente, tramite voti di fiducia resi inevitabili dal fatto che si giungeva ormai a fine legislatura. L’impressione è che il PD e Renzi non abbiano voluto dare battaglia su una posizione prevalentemente maggioritaria (tipo Mattarellum o primo Rosatellum), magari anche rischiando di anticipare di qualche mese le elezioni se perdenti, scontrandosi a viso aperto in parlamento o anche alla TV), per una sorta di moto perpetuo  tattico, o di incertezza strategica, scossi com’erano dal grave scacco del 4 dicembre 2016, che li ha lasciati in preda a molte contraddizioni e lacerazioni. Può darsi che la rottura da sinistra del PD da parte di Bersani e compagni abbia risvegliato pulsioni centriste sopite dando una spinta a tendenze alla restaurazione della prima Repubblica, con aspirazione a far giocare al PD il ruolo di nuova forza moderata con basi di massa, tutta “progresso senza avventure”, come aveva preteso di essere la Democrazia Cristiana. Forse l’assurda scissione di Bersani e compagni dal PD risulterà ben poco rilevante sul piano elettorale (il solito 5%, che torna dal 1968, di una sinistra poi costretta a scegliere tra irrilevanza politica e collaborazionismo coi peggiori rottami del sistema dominante), ma è oltremodo dannosa perché sbilancia verso il centro una forza nata prevalentemente dalla costola dell’ex PCI con l’ambizione di essere un centrosinistra senza trattino, capace di unire sinistra socialista e sinistra democratica (o cristiana). Se accade, o accadrà stabilmente, o sarà così – ossia se il PD si porrà come il Nuovo Centro -  sarà molto negativo. Ma la levatrice di tale degenerazione, in tal caso, sarebbe stata e sarebbe proprio la sinistra degli insipienti, che fa sempre male a Dio e ai nemici suoi. Non credo che la storia assolverà chi mostra, oltre a tutto per l’ennesima volta, tale capacità di fare autogol a favore della squadra avversaria: in pratica di un centrodestra forzatamente dominato dal duo Salvini-Meloni. 

   A questo punto vorrei provare a tornare al punto di partenza del ragionamento, su trasformismo e alternativa democratica (tra destra e sinistra), vedendo però subito dopo che cosa può succedere in base al Rosatellum bis a partire dalle prossime elezioni del marzo 2018.

   Uno può a giusta ragione chiedersi perché mi stia così a cuore un assetto non trasformistico, che escluda la mescolanza esplicita o anche implicita tra le parti opposte. Non è forse la concordia, tanto più ove si ragioni in modo post-ideologico come ormai s’impone, un valore importante?

   Io sento con particolare forza due dati in proposito: uno si basa sul confronto macrostorico, ma empiricamente verificabile; l’altro ha a che fare con la questione morale.

   Ammettere apertis verbis il primo dato può essere imbarazzante, ma ormai non me ne curo. Sono convinto che i periodi in cui la differenza tra governo e opposizione era palese negli orientamenti di fondo siano stati i migliori della storia d’Italia, sia per realizzazioni epocali che per qualità morale delle classi dirigenti. In Italia ne abbiamo avuti solo due (anche se la seconda repubblica, dal 1994 in poi, è stata un grande tentativo di ripristinare quella logica bipolare alternativa: tentativo però malamente “abortito”, e in una fase recente, dal 4 dicembre 2016, “fallito”; lo stesso fascismo aveva miscelato molte cose opposte, almeno dall’ottobre 1922 al luglio ‘43). Il primo periodo è stato quello della destra storica, dal 1861 al 1876: tendenza liberal-conservatrice che ha avuto tanti difetti (a partire dal suffragio limitato di quel tempo), ma che è stata pur sempre quella che ha realizzato un grande Stato nazionale unitario di tipo - per quel tempo - moderno, dopo secoli di divisione e staterelli (come Rosario Romeo ha definitivamente dimostrato, in polemica con tutta la tradizione gramsciana e gobettiana del Risorgimento come rivoluzione borghese mancata[11]): Stato con i conti a posto e un’alta moralità politica. Il secondo periodo, dopo la destra storica, è stato il centrismo, dal 1947 al 1961, che naturalmente ha avuto aspetti nefasti per i lavoratori (più volte anche ammazzati durante grandi scioperi), e anche visto emergere, alla sua ombra, un plumbeo clima etico politico clericale; ma allora l’Italia è stata rapidamente ricostruita dopo la grande tragedia della seconda guerra mondiale; i conti sono stati rimessi del tutto a posto da Luigi Einaudi, De Gasperi ed altri, ed è emerso un vero miracolo economico, come la miglior storiografia “cattolico democratica” ha dimostrato[12]. E allora, come già nel 1861-1876, la classe politica, di governo come d’opposizione, è stata tutta quanta, nell’insieme, “molto per bene” (in “tutti” i partiti). Naturalmente contava molto la tensione del nuovo inizio di uno Stato, ma anche l’assenza dell’urgenza di forti innesti di trasformismo (a dosi limitate iniziò nel ’54, subito mefiticamente, ma ancora con un fortissimo soggetto moderato conservatore dominante; poi, dopo il ’63, il trasformismo dilagò, dopo il ’68 coinvolgendo tutti i soggetti politici e sociali importanti, almeno sino ai governi di Craxi). 

   Naturalmente è stato un gran bene che il centrismo – moderato, conservatore e clericale, e gravemente discriminatorio e repressivo nei confronti del movimento operaio - sia finito, al governo, nel 1961 e definitivamente dalla fine del 1963. Ma il problema sarebbe stato che l’assetto omogeneo in senso centrista, conservatore e moderato fosse sostituito da un assetto omogeneo di sinistra, riformista e riformatore (ossia dall’alternativa democratica e di sinistra, al posto della DC). E se non era ancora possibile dopo il luglio Sessanta, sarebbe stato bene che lo fosse stato almeno quando emerse la grande crisi di ogni moderatismo, dopo il ’68-69, o almeno nel ’75-76. In pratica c’era stato un crescendo continuo verso sinistra che visto storicamente è stato impressionante, e per chi concordava entusiasmante, durato per ben quindici anni consecutivi, dal luglio ’60 sino al 1975/76, sicché allora l’alternativa di sinistra, o verso il ’72 o verso il ’76 sarebbe stata arcimatura, erede naturale di un lunghissimo crescendo di lotte e conquista sociali politiche e civili preparatorio iniziato nel luglio 1960. Ma a ciò si opponeva la natura del PCI, sino al 1968 legato al comunismo di Mosca in modo assoluto; dal ’68 in modo attenuato sino al 1981, e poi in un rapporto di separazione consensuale, sempre “tra compagni”, tanto più al tempo di Gorbaciov, quando lo strappo dell’81 venne messo in naftalina. Ciò faceva sì che al di là della propaganda contingente (del 1948), il PCI sin dal 1944 sapesse che il massimo cui poteva aspirare era il condominio con la DC (insieme al PSI), detto da Togliatti, dal ’56 e in specie dal ’61, “nuova maggioranza” e da Berlinguer, dal ’74, “compromesso storico”. Ma questo “condominio” era la negazione stessa della logica dell’alternativa democratica e di sinistra: un’alternativa di sinistra che evidentemente avrebbe potuto realizzarsi – come molti nati negli anni Quaranta compresero solo una trentina d’anni dopo la nascita (o più) - solo se il PCI si fosse trasformato - con traumatica e inequivocabile rottura con Mosca, mutamento del nome, e fine dell’unanimismo di partito - in una grande socialdemocrazia europea senza se e senza ma.

   La logica dell’alternativa tra destra e sinistra (o se si preferisce tra destracentro e sinistracentro) richiedeva però anche un assetto istituzionale niente affatto favorevole al trasformismo: assetto post-trasformistico incompatibile con l’ordinamento proporzionale. Infatti l’ordinamento esclusivamente o prevalentemente di tipo proporzionale può reggersi solo sull’esplicita o implicita collaborazione e connivenza tra gli opposti. Si era già visto in Francia prima della nuova repubblica di de Gaulle (1958). Per anni era parso che non fosse così in Germania, ma solo perché la sinistra socialcomunista, con due Germanie, a Occidente pareva l’antinazione, e perché sino al 1979 non c’erano stati i verdi. E’ bastato che si complicasse un poco la geografia politica perché si vedesse, nonostante lo sbarramento del 5% per entrare in parlamento e il meccanismo della sfiducia costruttiva, che persino quel Paese - con quella millenaria vocazione all’ordine, rafforzata dal luteranesimo politico - doveva rassegnarsi a quel che qui ho detto trasformismo, ossia alla “grande coalizione”, che se da soluzione eccezionale si fa normale sputtana l’area progressista privandola di ogni carica di alternativa democratica e di sinistra, e a lungo andare sputtana pure frazioni più o meno cospicue del centro, che perde credibilità a destra, provocando forti rigurgiti di nuova destra, tra cui quelli xenofobi o contro “i diversi” sono sempre stati un’emergenza classica, che oggi le vere e proprie migrazioni dalle terre della guerra e della fame, nell’era dell’informazione e dei viaggi, e insomma della globalizzazione, dilatano come non mai.

   Ora, in Italia stiamo tornando alla proporzionale, e dunque al trasformismo, alla nostra prima Repubblica: col dato positivo del terzo di collegi di tipo maggioritario, che dà una spinta alle alleanze, ma con due terzi del solito antico proporzionalismo, volano di alleanze “innaturali”, fatali per la vera sinistra come per la vera destra (anche di tipo post-comunista come post-fascista); o, se tali connubi non si verificano, volàno di folle ingovernabilità: e con l’aggravante estrema di un mondo ormai privo dei grandi partiti, che sono l’anima del proporzionale, e che nessuno potrà tirar fuori dalla tomba; e neppure c’è un grande partito d’opposizione sempre escludibile dal governo, com’era stato il PCI, che suo malgrado era stato un paradossale fattore di stabilità del regime democristiano. Perciò io prevedo una fase di grande ingovernabilità. Dal 2011 non abbiamo più avuto un governo più o meno corrispondente alla volontà popolare. Alla fine la gente non ci stara più e, come direbbe Grillo, ci manderà tutti “a fare in culo”, in forme per ora oscure, ma ben difficilmente democratico liberali.

  Ora noi, infatti, abbiamo tre poli. Se vince quello del Movimento 5 Stelle, rifiutando da sempre alleanze (perché se no cade il mito della sua pretesa diversità), non potrà governare affatto. Se vince il centrodestra non potrà governare affatto. Remotamente si potrebbe anche pensare che il M5S “dopo” le elezioni compia una svolta di 180 gradi superando “di botto” il rifiuto delle alleanze, accordandosi con la Lega di Salvini (come questo di tanto in tanto propone) e con Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. In tal caso nascerebbe subito una vera coalizione di “tutti i populisti”, che porterebbe rapidamente – persino se Di Maio non lo volesse – l’Italia fuori dall’Unione Europea, e all’interno muterebbe il’Italia n forme per ora non prevedibili, ma certo molto lontano dalla classica democrazia liberale di cui ho detto e dalle forme dello Stato ora scritte in Costituzione (per quanto i “capi” per ora manco lo capiscano).

    Questa per ora è fantapolitica (ma è anche “fanta-logica). Tuttavia stando coi piedi più poggiati per terra, credo si possa dire che in ogni caso la Lega e Fratelli d’Italia non seguiranno mai Forza Italia in un patto col PD che - ammesso e non concesso che Renzi e Berlusconi vogliano farlo - non avrà mai i numeri necessari.

    Quanto alla sinistra, è così divisa che, pur non avendo affatto governato male dal 2013 a oggi tramite Renzi e Gentiloni (ma anzi piuttosto bene, a confronto con i predecessori), spaccata com’è potrà fare ben poca strada. Anche se conservo una piccola speranza di essere smentito da una realtà eventualmente meno pazza di quel che sembra.

   Giustamente Paolo Mieli, in una recente trasmissione televisiva, con l’allure dello storico - che certo riecheggiava la dialettica tra caos e ordine, e l’idea di “distruzione creativa”, applicate da Karl Polanyi e da J. Schumpeter [13] - prevedeva due anni di “caos” salutare, in certo modo rifondativo, a seguito delle prossime elezioni del marzo 2018: dopo il quale tutto muterà. Ma per ora si può solo pensare che possa accadere imponendo la governabilità - che è “l’indilazionabile”, cui non si potrà scappare a lungo - in modo semiautoritario. Vorrei sbagliarmi, ma mi sembra di percepire la “democratura”, ossia la sintesi tra democrazia e dittatura, il “fascismo senza fascismo”, in cammino. Per ora la si è vista in paesi che sono decisivi, ma o di antico dispotismo o di moderno militarismo, come la Russia di Putin o la Turchia di Erdogan o la Polonia. Ma se accadesse in Italia sarebbe altra cosa.

   Nonostante tante interpretazioni che hanno accentuato il retaggio di un passato reazionario[14], infatti il nostro Paese - come Engels sapeva già benissimo nel 1894[15], per non dire di Bordiga[16], o di grandi storici diversamente orientati come Gioacchino Volpe[17], Rosario Romeo ed altri – è un Paese “en marche”, dal Medioevo e Rinascimento in poi: un Paese che ad esempio non a caso ha dato il primo e più concettualmente elaborato marxismo, comunismo e fascismo dell’Europa capitalistica avanzata[18]. Solo che siamo all’avanguardia nel bene e nel male. Non vorrei che come nel ’22 dessimo il “la” ad altri, sempre modernamente ma di nuovo troppo pericolosamente o negativamente, generando qui la “democratura” a misura di grandi paesi capitalistici avanzati. Per la sintesi tra giustizia e libertà sarebbe un disastro, come sempre lo è quando questi due valori supremi si separano. Ma l’istanza del Paese di uscire da una palude intollerabile, specie per giovani e esclusi, può farci scherzi terribili, anche se ancora non lo si può vedere a occhio nudo; e tuttavia i sintomi sono numerosi, e il vaccino “anti-influenzale” s’imporrebbe contro la democratura che “c’è in giro”. Se a sinistra da un lato imparassimo a essere “plurimi in uno” - il che è il primo comandamento di ogni socialdemocrazia europea “vera” - e dall’altro a tenere insieme l’istanza della forte governabilità democratica (doppio turno, premi di maggioranza, forme atte a garantire governi di legislatura, giustizia rapida nei tribunali, eccetera) con quella delle lotte per il lavoro e l’ambiente (reddito d’inclusione, cooperativismo, risanamento di acqua e aria, eccetera), potremmo benissimo far fronte agli anni drammatici che ci attendono in termini politico istituzionali, proprio ora che come italiani abbiamo agganciato la ripresa economica (tra le altre cose).

   In caso diverso rischiamo di finire molto male: o in una semidittatura o addirittura nello sfascio della nazione sorta tra 1861 e 1870. Ma - lo ribadisco con tutto il cuore - spero di sbagliarmi, e dico io pure: “crepi l’astrologo”. Anche se “qui” sono io.

      (franco.livorsi@alice.it)



[1] OMERO, Iliade, a cura di M. G. Ciani, Commento di E. Avezzù, con testo greco a fronte, Marsili, Venezia, 1990.

[2] ESCHILO, SOFOCLE, EURIPIDE, Tragici greci, a cura di E. Cantarella, Mondadori, Milano, 1977, ma Oscar Classici Mondadori, 1992. La tragedia di Sofocle Edipo re fu rappresentata per la prima volta ad Atene tra il 430 e il 425 a.C.

[3] Si veda il testo in: U. FOSCOLO, Poesie, a cura di G. Natali, Cappelli, Bologna, 1960, pp. 66-95.

[4] P. TOGLIATTI, Discorso su Giolitti, Rinascita, Roma, 1950.

[5] N. VALERI, Da Giolitti a Mussolini, Parenti, Firenze, 1956; Giovanni Giolitti”, UTET, Torino, 1971; G. CANDELORO, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana, Feltrinelli, Milano, 1974; B. VIGEZZI, Giolitti e Turati. Un incontro mancato, Ricciardi, Napoli, 1976; G. SALVEMINI, Il ministro della malavita, “La Voce”, Firenze, 1910. Pur avendo un poco ridimensionato tale valutazione, prefando nel 1942 un libro di un suo collega americano su Giolitti, W. Salomon, Salvemini mantenne la sostanza della sua valutazione, com’è stato dimostrato da molti, tra cui Sylos Labini.

[6] Si veda la più equanime e documentata biografia del leader: A. AGOSTI, Togliatti. Un uomo di frontiera, UTET, Torino, 2000. Ma per una profonda comprensione delle idee di Togliatti, colte persino nel loro dinamismo interno oltre che nel divenire storico, è sempre fondamentale: E. RAGIONIERI, Palmiro Togliatti. Per una biografia politica e intellettuale, Editori Riuniti, Roma, 1976.

[7] DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia. Inferno, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, 1988: canto XVIII, vv. 127/131. L’opera fu composta tra 1300 e 1321.

[8] F. RODANO, Sulla politica dei comunisti, Boringhieri, Torino, 1975; Questione democristiana e compromesso storico, Editori Riuniti, Roma, 1977. Il primo libro, che corre in parallelo con la genesi della strategia politica di Berlinguer, è stato forse il maggior apporto teorico a quell’indirizzo.

[9] Il ritratto più ampio e interessante, seppure molto legato al leader in questione, è: M. PINI, Craxi. Una vita, un’era politica, Mondadori, Milano, 2006. Per una valutazione storica equanime si veda: S. COLARIZI et al., La cruna dell’ago. Craxi, il Partito Socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 2006.

  Un bel ritratto, anche lì di identificazione, del leader comunista specularmente opposto a Craxi è: C. VALENTINI, Enrico Berlinguer, Feltrinelli. Milano, 2014. Ma si confronti con: S. PONS, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino, 2006.

[10] G. TOMASI di LAMPEDUSA, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 1958. Lo dice il nipote amato del principe di Salina, Tancredi, motivando la scelta di sostenere i garibaldini nel 1860.

[11] R. ROMEO, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari, 1959 . Ma si veda soprattutto: Cavour e il suo tempo”, ivi, 1969-1984, 4 voll.

[12]  P. CRAVERI, De Gasperi, Il Mulino, Bologna, 2006; P. SCOPPOLA, “La Repubblica dei partiti”, ivi, 1991 e infine 1997.

[13] K. POLANYI, La grande trasformazione (1944), Einaudi, Torino, 2010; J. SCHUMPETER, Capitalismo socialismo e democrazia (1942), Etas Kompass, Milano, 2001.

[14] P. GOBETTI, Risorgimento senza eroi, Baretti, Torino, 1925. Ma si veda soprattutto: La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Cappelli, Bologna, 1924, in cui il fascismo è visto come “autobiografia della nazione”, frutto di un autoritarismo premoderno indice di una rivoluzione liberale e capitalistica non avvenuta: con svalutazione della stessa rivoluzione risorgimentale. Tale posizione aveva ed avrebbe avuto molti echi anche in Gramsci, ancora nei Quaderni del carcere, edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratanam Einaudi, Torino, 1975, quattro volumi, specie sul Risorgimento come rivoluzione liberale mancata. Siamo all’opposti delle idee di Gioacchino Volpe e di Rosario Romeo, ma sin dal ’22 - dal saggio Il rapporto delle forze sociali e politiche in Italia, comparso allora su “Rassegna comunista” - anche di Amadeo Bordiga, allora leader del Partito Comunista d’Italia.

[15] Mi riferisco proprio alla Prefazione di F- Engels al terzo volume del Capitale di Marx, uscito postumo nel 1894 (Editori Riuniti, Roma, 1965), in cui vedeva l’Italia come paese di antico capitalismo e storia, che con approccio che ciascuno oggi respingerebbe contrapponeva ai “popoli senza storia”. Insomma, ci attribuiva un ruolo chiave nella storia mondiale.

[16] A. BORDIGA, Il rancido problema del Sud italiano (1950), Graphos, Genova, 1963.

[17] G. VOLPE, L’Italia in cammino. L’ultimo cinquantennio, Treves, Milano, 1927 (e a cura di G. Belardelli, Laterza, Roma-Bari, 1991).

[18] Certo il marxismo - nato in Germania, dove socialismo, comunismo e marxismo hanno fatto scuola al mondo politicamente sibo al 1914 e filosoficamente sino agli anni Trenta – in Germania ha avuto a lungo un suo primato, specie in filosofia, anche nel Novecento, tramite autori o tedeschi o che scrivevano in tedesco, come Rosa Luxemburg o Karl Korsch o Lukàcs. E Lenin è importante anche nella storia del marxismo, oltre che in quella del comunismo mondiale com’è o dovrebbe essere evidente, ma con particolarità russe già chiare al marxismo occidentale, specie gramsciano, sin dagli anni Venti. Ma ciò posto non può essere sottovalutata la grande rilevanza anche teorica di autori come Antonio Labriola e Rodolfo Mondolfo, e a un tempo teorica e politica di autori come Amadeo Bordiga e, sino ad oggi, di Antonio Gramsci, nonché il primato del comunismo italiano in Occidente. Anche il marxismo operaistico, da Raniero Panzieri e Mario Tronti a Antonio Negri, è stato un indirizzo creativo, per quanto criticamente possa essere valutato. Sull’altro vrsante, il primato cronologico e forse politico “in fascismo” non è certo onorevole, e tuttavia qualunque studioso sa, oggi, che dall’approfondimento di Giovanni Gentile o persino di Alfredo Rocco o di Ugo Spirito, senza dimenticare mai che erano antidemocratici ci sarà sempre da imparare.

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