Esiste
la globalizzazione? Ovvero, è questa, la globalizzazione, un processo sociale
reale e caratterizzante, a partire dagli anni novanta, un salto di qualità
nelle forme economiche e sociali che dominano il mondo? Su questo tema, su cui
si è fatta una grande confusione terminologica sia a destra che nelle sinistre,
sia radicali che moderate, è intervenuto recentemente Mimmo Porcaro con la
consueta lucidità e discernimento fra oggetti e concetti solo apparentemente
simili.
L’ articolo, La Ue e L’ Itaila dentro la ‘fine della
globalizzazione’, di cui seguirà l’ incipit, è dedicato al concetto di
globalizzazione ed è teso a rispondere su questo, alle analisi di un recente
saggio del compagno Franco Russo,L’ Unione europea nella globalizzazione’. Alle tesi di quest’ ultimo Porcaro
risponde così:
Per dimostrare che
la globalizzazione è viva e vegeta Franco Russo deve riconoscere che i processi
di internazionalizzazione degli scambi, della finanza e della produzione sono
sempre stati e sono ancor di più oggi il luogo di un aspro conflitto in cui i
diversi stati usano tutti i mezzi, compreso il protezionismo e lo scontro
militare, pur di difendere le proprie imprese. (vedi il saggio
di Franco Russo)
Con il che, però,
Franco Russo dichiara che la globalizzazione è morta (o meglio che essa, come
il sottoscritto pensa da molto, in realtà non è mai nata). L’idea di
globalizzazione contro cui polemizzano i critici non è infatti quella che
prende atto dell’internazionalizzazione, ma quella secondo cui tale
internazionalizzazione, rafforzando l’interconnessione dei mercati e della
produzione, realizza una situazione di sostanziale autoregolazione del
mercato che rende superflua o meramente ausiliaria la funzione degli stati
nazionali. Lo stesso Russo ci da invece vari esempi di attivo intervento degli
stati nazionali nella battaglia competitiva, intervento che può spingersi fino
alla guerra: e questo, in sede di polemica spicciola, potrebbe bastare per dire
che Franco dimostra il contrario di quello che afferma. Ma qui non si tratta di
polemica spicciola, bensì di una discussione che ci accompagnerà a lungo. Bisogna
quindi approfondire.
Va dunque, la pena
di approfondire il tema della differenza fra internazionalizzazione e
globalizzazione. Con la prima si intende il processo della apertura dei mercati
mondiali voluto dalle borghesia europee, sopratutto anglosassoni, descritto
mirabilmente da Marx ed Engels nel ‘Manifesto’ pubblicato nel 1848. Con il
secondo termine si indica cio’ che piu’ sopra addita Porcaro, ovvero il
dispiegarsi del fenomeno del mercato mondiale, acqusitivo di una forza tale da
dirigere l’ intera societa’ fino al punto dal poter sciogliere gli stati
nazionali ed assorbirne le funzioni storiche assolte fino ad ora negli ultimi 4
- 5 secoli.
La
globalizzazione, inteso come processo incontrastabile e dunque, al quale ci si
puo’ solo adattare, e’ stato il ‘credo’ che ha costituito la base del pensiero
da cui e’ nato il centrosinistra italiano e europeo degli anni novanta, e la
origine della concezione neoanarchica e libertaria della sinistra di
alternativa e radicale del continente. La globalizzazione si basa sul lento
declino della funzione dello stato nazionale a favore del mercato come unico
regolatore sociale; un regolatore il quale non prevede alternative ad esso ma
solo attenuazioni sociali al suo agire e alla sua spietata logica, oppure la fuga
da tale mondo verso immaginari spazi liberati e demercificati, come se si
trattasse di ricercare isole felici su altri mondi, in vero mai esistiti,
piuttosto che costruire con fatica un altro mondo con logica funzionante
diversa. Questi sono, ancora oggi, i limiti piu’ grandi che chi scrive avverte
nella sinistra radicale, che schiacciandosi sul sociale dimostra il suo
desiderio inconscio di subalternita’, e parimenti nel centrosinistra, che ha
fatto della correzione moderata del mercato e della globalizzazione il cuore
della sua debole visione del mondo.
Se si vuole
ricostruire una sinistra oggi, se si vuole uscire dalla crisi della formula del
centrosinistra, e’ necessario porsi il tema di come la visione della
globalizzazione si sia rivelata, di fronte alla evidenza della crisi economica
generale che perdura da dieci anni, un modo ideologico e non analitico di
rappresentarsi la realta’ del mondo e le sue tendenze di fondo. Qui, ideologia,
e’ utilizzato come termine che evidenzia la falsa coscienza di costruzioni del
pensiero che confondono i desideri con la ricognizione spassionata e precisa
dei fatti e delle strutture di fondo della realta’ dispiegata di fronte ai
nostri occhi.
La tesi ideologica
per la quale sara’ l’ economia che guidera’ la politica dopo il salto ‘epocale’
dovuto al crollo del sistema sovietico, e’ legata all’ errore di assolutizzare
una tendenza, pur presente nella realta’, facendola combaciare con l’ unico
criterio che deve conformare la realta’ stessa. Tuttavia, al contrario di cio’
che si e’ tenuti a credere, vi sono tendenze e controtendenze le quali
contrastandosi e conigandosi in altri momenti fra loro, creano il quadro
unitario che siamo tendenti a indicare come realta’ effettuale e dispiegantesi
pienamente alla osservazione del nostro sguardo.
Da cio’ ne deriva
che lo stato nazionale non declina come si pensa comunemente in modo
definitivo. Il destino del mondo postnovecento non e’ lo scioglimento di ogni
stato - nazione in un grande ‘ Impero’ di natura negriana, dove sara’ chiara la
contrapposizione fra comando centrale e moltitudine. Resta in realta’ la
compresenza di nazionalita’ statuali forti e di altre asimmetricamente deboli e
indefinite. Tutto questo rivela il non declino dello stato a favore della
economia, e che fra mercato e stato e fra economia e politica resta un rapporto
strettamente dialettico. La forza dello stato sara’ ancora necessaria allo
sviluppo del capitalismo e al rapporto fra centro e periferie che regola il ‘
sistema mondo’ caratterizzante la modernita’.
L’ idea sulla
quale nacque e si baso’ il centrosinistra ‘ulivista’ era che l’ economia di
mercato, a carattere mondiale o globale che dir si voglia, era una tendenza
cosi’ dominante da porre in declino qualsiasi velleita’ di regolazione dei
fattori politico - economici su base nazionale. Immergersi nella
‘globalizzazione’, processo sociale irreversibile, significava disporsi a
mediare fra le esigenze delle imprese di fronte alla competizione sempre piu’
aggressiva dei paesi emergenti, e le istanze sociali e di protezione dei
lavoratori. Se ne deduce da un lato la impossibilita’, dopo vent’ anni di
tentativi, di ‘quadrare il cerchio’ fra libero mercato mondiale e esigenza di
conservazione dello stato sociale, dall’ altro il processo di globalizzazione
si e’ dimostrato tutt’ altro che irreversibile e lineare nella sua inesorabile
espansione del libero scambio di merci, lavoratori e capitale. Le premesse
ideologiche su cui nacque l’ Ulivo di fatto non esistono piu’ e si sono
rivelate fallaci le analisi dei processi reali su cui quelle premesse si
basavano.
La
‘globalizzazione’ e’ stato un processo geopolitico otre che economico e
ideologico. Possiamo individuarne le origini nella riapertura delle relazioni
diplomatiche fra Stati Uniti e Cina nei primi anni 70’ sotto la regia della
amministrazione Nixon. La Cina, in cambio del suo allontanamento dall’ URSS,
otteneva la possibilita’ di aprire gradualmente il suo mercato all’ Occidente
in cambio di tecnologie e innovazioni produttive utili allo sviluppo cinese. Gli
USA ottenevano la spaccatura del mondo comunista grazie ad una Cina ostile ai
russi e neutra verso il mondo occidentale, e , inoltre, traevano il vantaggio
di poter trasferire in Cina e in parte del sud est asiatico le produzioni
industriali manifatturiere piu’ obsolete, sfruttando manodopera a buon mercato.
La Cina e le ‘tigri asiatiche’ diventano la manifattura del mondo, nel mondo
occidentale si rilanciano i profitti per via finanziaria e calmierando i
salari, tutto cio’ determinando disoccupazione e piu’ aspra concorrenza
commerciale nei paesi a sviluppo avanzato. E’ su questo scambio che si e’
generato lo sviluppo del nostro mondo ricco negli ultimi 40 - 30 anni. Con la
crisi del 2007 - 2008 e con la sconfitta americana in Medio Oriente la
globalizzazione finanziaria basata sulla manifattura a basso costo orientale ha
definitivamente termine. Oggi emerge un nuovo equilibrio mondiale, o se si
vuole, un nuovo disequilibrio. Esso consiste in questo; il modello di sviluppo
americano, basato sul consumo eccessivo della classe media, ( casa di
proprieta’, lavoro fisso, piu’ di una macchina per nucleo familiare), non e’ in
grado di espandersi in tutto il mondo. Esso deve restringersi a pochi paesi del
mondo occidentale e all’ interno di essi limitarsi a dare benessere a fette via
via minori della popolazione. Ragioni ambientali e concernenti i costi dello
stato sociale e la disciplina del lavoro e la questione della pressione
salariale, costringono a comprimere le condizioni di vita di vasti strati della
popolazione pur di riattivare un meccanismo di innalzamento dei profitti. In
tale ottica, si ritiene indispensabile, per salvare il modello di sviluppo
occidentale, che il ‘vecchio terzo mondo’ resti subalterno e ben lontano dagli
stili di vita del ‘mondo ricco’.
Purtroppo, le cose
non possono proseguire cosi’ come si sono sviluppate fino ad adesso. Le crisi
di sovraproduzione e di domanda aggregata pongono in discussione il modello di
espansione finanziaria negli stessi paesi ‘centro del sistema’. La disoccupazione
di massa e’ data da un lato da una cronica mancanza di domanda e investimenti
produttivi, da un calo di produttivita’ che si accoppia ad un sempre piu’ vasto
processo di dequalificazione di massa del lavoro. Se si aggiunge a cio’ la
disoccupazione tecnologica dovuta a nuovi processi di automazione digitale che
coinvolgono sempre piu’ i livelli alti del lavoro intellettuale - dirigenziale,
si ha il quadro chiaro di come le nostre societa’ corrano ormai verso uno stato
perenne di sottoccupazione e impoverimento, i quali favoriscono l’
indebolimento e la crisi, ormai evidente, delle democrazie parlamentari.
Ma vi e’ di piu’
da segnalare. Il mondo ‘fuori dall’ Occidente anglosassone’, che fu colonia per
buona parte dell’ ottocento fino alle guerre mondiali, ora non accetta piu’ di
rientrare nei ruoli disegnati da altri. Cina, Russia, India, oltre che Brasile
e Sud Africa e altri, pretendono il loro sviluppo, la loro fetta della torta,
il loro spazio nel governo del mondo. A questa nuova realta’ occorre adeguarsi,
capirla, e pensare ad un mondo in cui le risorse siano distibuite piu’
equamente, dove il governo degli scambi commerciali e monetari sia basato sulla
cooperazione e non sullo squilibrio persistente fra debitori e creditori, cosi’
come avviene oggi nel cuore dell’ Europa. I modelli energetici e di consumi di
beni voluttuari individuali vanno ripensati, la disoccupazione di massa e’ un
male che va combattuto e per fare cio’ bisogna evitare le strette monetarie, le
tentazioni, foriere di disastri nel medio e lungo periodo, delle ‘austerita’
espansive’ tipiche del pensiero neomercantilista.
La
‘globalizzazione’ che abbiamo conosciuto non lascia dietro di se’ un mondo
rasserenato e privo di gravi tensioni, tutt’ altro! La guerra fredda, si dice
ora, e’ tornata. Forse non era mai finita, se non nella illusione boriosa degli
anni novanta di chi se ne riteneva il vincitore. Il supposto vincitore di ieri
e’ sulla difensiva oggi perche’ forse non ha compreso che in quel momento
cadeva la spinta sociale e operaia che si era originata dall’ Ottobre, ma non
si era affatto arrestato il processo di liberazione dei paesi coloniali a cui
la rivoluzione del 17’ aveva dato sostegno e rappresentato nel tempo stimolo e
in parte modello.
La storia non e’
finita e la terra non e’ un sostegno piatto ai desideri dei grandi mercanti del
denaro e delle merci. E’ tempo allora per le sinistre che hanno storia, quella
proveniente dal movimento operaio e cattolico, di chiedersi dove’ la tensione
verso un rinnovamento del modello sociale e del lavoro. Dobbiamo di nuovo
interrogare il nostro tempo, scovarne il senso nelle pieghe e nelle
contraddizioni, non adeguarci alla prima moda del pensiero, alla prima e piu’
cieca apparenza.
Alessandria
27-12.2017 Filippo Orlando.