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Manchester by the Sea
Patrizia Gioia
  

Spesso vado al cinema attratta da “qualcosa” intorno a un dato film: il titolo, un'immagine vista, un attore, e ci vado volutamente senza leggere nulla in merito; del resto per me andare al cinema – preferibilmente sola, per non dover subito dopo rispondere a quelle domande che servono solo a riempire un vuoto, un'incapacità di stare in silenzio facendo rotolare dentro tutto quel che abbiamo mangiato, buono o cattivo che sia – è entrare in un altro mondo, sconosciuto e dunque rischioso.

E così è stato per Manchester by the Sea, il film del 2016 scritto e diretto da Kenneth Lonergan.

Si parla spesso – a volte troppo e troppo per luoghi comuni – del dolore.

Questo film non solo tocca, ma attraversa e ci fa attraversare le vie che il dolore sceglie dentro di noi, vie sconosciute che illuminano una nostra mappa interiore fino a quel momento sconosciuta; una terra incontaminata e pericolosa si apre al nostro nuovo sguardo, un orizzonte che ci sgomenta e che ci chiede di stargli a fronte.

L'onestà che il protagonista - interpretato da un'incandescente Casey Affleck- ci mostra è la sincerità del saper dire : non ce la faccio.

E “non farcela” significa molte cose, innanzi tutto significa essere capaci di stare di fronte a noi stessi e alla nostra umana fragilità, significa non aderire ai luoghi comuni di una sacrificale religiosità, significa misurarsi con i sensi di colpa, con la rabbia, con il dolore degli altri, con una sensazione di morte continua e presente.

Le immagini di questo film ci mostrano un paesaggio conturbante, ambivalente e sempre in trasformazione ( come il nostro mondo interiore è ); un mare d'inverno, una terra gelata e innevata, ma nello stesso tempo il film mostra come l'ammorbidirsi della terra che si apre ad altra primavera intenerisca anche la nostra anima, primavera che può fiorire solo nella vicinanza di persone amorevoli che sanno sopportare ( portare il peso ) della tua incapacità.

Persone che ti stanno vicino nonostante te, il te di quel momento che ti fa estraneo a te stesso e al mondo, il te che ti esilia nella terra dove la perdita è indicibile e insostenibile( non solo perdita dell'altro, ma di ogni punto di riferimento precedente, tutto sarà da fare nuovo).

Il dolore ci consegna a una forma di cannibalismo: dovrai essere capace di assumere in te chi e quel che è morto ma che è più vivo del vivo; trasformarlo e farlo diventare parte di te, proprio come ci insegnano “quel pane e quel vino” del rito della Comunione, che se non diventano noi renderanno nullo il sacrificio che si celebra.

IO, ha scritto qualcuno, un'anarchia di atomi, ma atomi che sappiano parlarsi, in-fondersi in pace.

La bellezza degli sguardi, delle poche parole, le sole che in quel momento possiamo dire, chè quelle vane fanno più male della spada, sono protagonisti nel film, accompagnano i momenti della trasformazione come bende salvifiche, non ti obbligano a stare dove non vuoi stare, a dire quel che non vuoi dire, ad essere quello che non sei, perchè non lo sai più chi sei.

Il dolore è un orco, un aguzzino, un violentatore; il dolore acceca, non premia, uccide lasciandoti la vita.

E' l'eterna indomita forza della Vita che potrai seguire: se ce la fai.

Un vecchio proverbio dice : “ quel che non strozza, ingrassa”.

La misericordia della Vita s'ha da scovarla, il suo tempo non è il nostro, la sua ragione non è la nostra.

“Dolore come sveglia alla trascendenza”, scrive Raimon Panikkar, dove si tratta di trascendere il mentale per lasciarti cadere nelle braccia di un Mistero che c'è, ma che non sempre ha - come per i trapezisti nel circo- la rete di salvezza.

Il protagonista del nostro film è come ognuno di noi davanti al vuoto: un trapezista senza ali; un essere che si cimenta con l'equilibrio, a volte sprofondando nelle tenebre, qualche volta nella visione di una piccola luce.

Quello che ci fa male è la mancata armonia tra corpo anima e spirito, tra noi e il mondo, tra vita e morte, un'armonia continuamente perduta e continuamente da ritrovare.

"Scrivo con una minuscola bilancia, come quella dei gioiellieri.

Su un piatto depongo l'ombra e sull'altro la luce.

Un grammo di luce fa da contrappeso a diversi chili d'ombra.

Ci ho creduto certo / a cos'altro credere / se non all'incredibile ?”   (Ch. Bobin)

Patrizia Gioia

P.S. mentre stavo scrivendo ho ricevuto queste ultime righe che riporto in corsivo... sincronicità del Mistero.

 

27/04/2017 20:28:50
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