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Libri
La Biblioteca di Alessandria, una e due
Pietro Mercogliano
Quando Schopenhauer rifuse nella sua Filosofia alcune idee del lontano Oriente, portò alla conoscenza dei piú il termine “Maya”. Si tratta di un sostantivo sanscrito (“māyā”), che ha il significato originario di ‘creazione’ ma che ha poi assunto quello di ‘illusione’: credo che la cosa si possa spiegare con un fenomeno semantico simile a quello del nostro “arte” (è un ‘artefatto’ sia una creazione dell’Uomo sia una sua mistificazione di qualcosa). A Schopenhauer – comunque – non interessavano le vicende semantiche della parola, ma interessava l’espressione (apparentemente coniata da lui stesso) “Velo di Maya”: che per lui è – semplificando – il necessario e innato velo della rappresentazione, che naturalmente separa la verità che noi percepiamo dall’essenza delle cose.
Nell’ultimo romanzo di Umberto Eco (“Numero Zero”, imperniato sulla mistificazione della mistificazione e sull’oscillazione continua del concetto di Realtà e del concetto di Storia), Maia si chiama la strana fanciulla semi-autistica amata dal narratore-protagonista; non so come Eco abbia scelto il nome per questo personaggio (probabile che Schopenhauer non c’entri affatto), né ho voluto informarmene: perché mi piace continuare a credere (come sentivo con certezza nel corso della lettura) che ci abbia lasciato – come il sogno di un sogno – l’idea di questo innamoramento per il saṃsāra e di questa passione del prigione platonico per la sua Caverna. Si tratta di un attaccamento curioso, ma credo sia naturale: quello che lega un lettore all’esperienza di lettura fatta, e che lo spinge a credere che la lettura stessa non sia terminata nel libro ma ancora continui nel mondo; Umberto Eco ancora mi dice di tanto in tanto quanto Maia/Maya sia bella.
Il primo libro di Eco uscito dopo la morte dell’Autore s’intitola “Pape Satàn Aleppe”: il titolo è il celebre richiamo di Pluto che apre il Canto VII dell’“Inferno”. Chi sia Pluto è questione complessa di per sé (anche se poi il personaggio non esplodesse, come fa, in grovigli inestricabili di foni); non è di buon gusto parlare di cose sulle quali veglino misteri millenarî, e dunque mi terrò all’essenziale: Pluto si chiamava il dio della ricchezza ma Plutone quello dell’Oltretomba, e tale sovrapposizione si può – credo – spiegare con il fatto che al tempo del formarsi dei miti la ricchezza par excellence era costituita dalla terra e dall’agricoltura (con tutti i suoi significati ctonî e ciclici). Il punto è che probabilmente Dante Alighieri si riferiva a Pluto, ma c’è chi ipotizza che potesse confondersi con Plutone; quando adolescente mi sono accostato al testo del Sommo Poeta, non potendo neanche supporre che colui (come invece, dobbiamo ammettercelo ora che siamo cresciuti, ogni tanto gli capita di fare) si confondesse, ho creduto che la sovrapposizione fosse intenzionale: e che l’identificazione del dio delle ricchezze col dio della morte volesse significare che le prime portano l’anima alla seconda, e che questa condanna che l’avido impone a sé stesso causasse l’arruffato straparlare dello strano personaggio.
Che Eco abbia intitolato le sue “Cronache di una società liquida” (riflessioni sul Contemporaneo tutto quanto, ultimo libro di un grande filosofo) a questo strano essere arruffato accumulatore morto mi è parso un lampo d’un genio sublime. Anche questa è un’esperienza di lettura (e non ho detto che del titolo!) per la quale sarò sempre grato a Umberto Eco.
Il luogo mitico e storico nel quale tutte le esperienze di lettura bruciano insieme e vivono per sempre è l’antica Biblioteca di Alessandria (quella di Zenodoto di Efeso, dei tre Tolomei Sotere Filadelfo Evergete, nel giro di seicento anni diverse volte distrutta e ricostruita quasi nello stesso punto – e ora, per chi fosse interessato, in 21526 Alexandria Governatorate in Egitto –), eternamente immobile come luogo della coscienza.
C’è in Piemonte (non ci si crederà) un’altra Alessandria, e medievale per piú: ciò che a Eco sarebbe piaciuto; quest’Alessandria ha una biblioteca; sarebbe divertente se a Umberto Eco (cantore del Libro come prodotto supremo dell’Arte in tutti i sensi, e del quale oggi ricorre il mezz’anno dalla morte) s’intitolasse la biblioteca di Alessandria: una delle due, ma vedo piú facile quella italiana (e piú bello anche, perché sarebbe come dedicargli l’altra ma in simbolo). Certo, la biblioteca è già intitolata all’ottima memoria di Francesca Calvo: alla quale però forse si potrebbe dedicare qualcos’altro; o si potrebbe intitolare a Eco il rinnovato teatro, o il nuovo ponte; o il Liceo Classico della città (che è intitolato a Plana, che però era uno scienziato e potrebbe quindi prendere lo Scientifico a Galilei che tanto è pieno d’intitolazioni in giro per il Mondo).
E potremmo andare avanti cosí a fantasticare, disegnando una mappa demenziale ma affettuosa di Alessandria: che in vista di questo primo mezzo-anniversario cambia tutti i suoi cartelli e le sue targhe e s’intitola tutta al suo illustre cittadino.


 
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