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Anima e terra: aforismi e annotazioni
La rivoluzione culturale junghiana: II) il cristianesimo nella psiche
Franco Livorsi

Va notato che la contiguità dello junghismo con il panteismo, con il vitalismo, con la sacralità colta alla radice della stessa dimensione istintiva umana, potrebbe anche comportare il superamento del cristianesimo. Senza trascendenza di Dio (teismo), senza un forte senso della contingenza del mondo (materia ritenuta sempre bisognosa d’altro per spiegare il suo farsi), e anche per ciò senza riconoscimento della disposizione, “per natura”, al male da parte di tutti i singoli individui (peccato originale), che resterebbe mai, infatti, dell’antica fede?

  

4) La nuova religiosità psicologica e la sapienza dell`Oriente sulla vita interiore 

   Ora il superamento del cristianesimo - qualora non si voglia abbracciare con forza, e senza più voltarsi indietro, il materialismo, o assoluto relativismo, o ateismo - più o meno disperati - dell`estrema modernità (o della post-modernità) - potrebbe essere pure tentato andando a scuola presso civiltà e culture alternative a quella più caratteristica dell’Occidente, come quelle dell`Oriente. Non parlo naturalmente dell’Islam, che pure ammiro, il quale condivide i tratti profondi che accomunano ogni monoteismo, anche se pensati in altro modo. Mi riferisco invece a quel che ferve dall’India al Tibet, ma anche alla Cina precomunista più profonda: ossia all’induismo (indiano) come al buddhismo (indiano e tibetano) e taoismo (cinese). Ivi, infatti, il problema del Sacro, o dell`Eterno, o dello Spirito è - pressoché sempre - una questione di esperienza soggettiva, psicologica. Il leggere in tale chiave lo junghismo è pure possibile e corretto, ma solo entro certi limiti (come si vedrà).

   In effetti Jung - questa è un`altra delle tesi centrali che vorrei sostenere - può pure essere visto come la via, o una grande via, attraverso la quale l`Oriente può entrare a vele spiegate in Occidente, per "salvarlo" di nuovo (in fondo come l’Oriente aveva già fatto alla fine dell`impero romano, attraverso un nuovo dio redentore fiorito in età alessandrina, in un humus segnato - più o meno dall`inizio - da impulsi provenienti - oltre che dalla Giudea - dall`Egitto "ellenizzato", dalla Mesopotamia e Siria del manicheismo, dai culti di Mithra iraniani e poi romani, dal neoplatonismo, e così via).

    Il punto centrale di ogni rinascita, nell` Oriente d`oggi (induista, buddhista e taoista), è l`"unione" (yoga) col divino, e la trasformazione della propria psiche vi è sempre intesa come la via per accedervi; ma vi è pure intesa come l`effetto dell`"accesso", in un fecondo "circolo vizioso", che diventa "virtuoso”. Posso insomma accedere al divino se riesco a rinascere a me stesso a livello psichico, ma posso pure rinascere a me stesso a livello psichico solo se vi accedo. Sembra un ragionamento che si morde la coda, in cui il soggetto dipende dal suo predicato e poi il predicato dal soggetto. Ma nella psiche “funziona”, per cui in tal caso il “circolo vizioso” (la doppia relazione tra soggetto e predicato) si fa appunto “virtuoso”, fonte di “bene” per chi lo compia.

    La percezione del Creatore nell`esperienza psicologica, o nel creato (che da due diventano uno, nell`interiorità come nella "realtà"), per la verità non è una novità assoluta nel cristianesimo. Lo sanno tanti grandi mistici, da Gesù quale traspare in taluni grandi passi dei Vangeli (ad esempio il cenno ai “gigli dei campi” o agli “uccelli del cielo” vestiti meglio del re Salomone “con tutto il suo splendore”, eccetera) a San Francesco (Cantico delle creature, del 1225), a Giovanni della Croce, a Teresa d`Avila sino alla "husserliana" Edith Stein, nostra contemporanea[1]. Oggi, in senso stretto, tale impostazione è stata riproposta da un notevole sacerdote pensatore di padre spagnolo e madre indiana, Raimon Panikkar, che parla di una realtà, nel senso di “essere”, o prima radice della vita, “cosmoteandrica”, ossia di un cosmo divino-umano in sé e per sé, riproponendo una sapienza molto antica, in cui certo la differenza tra teismo (l’essere è Dio), panteismo (dio è “il” tutto) e panenteismo (il tutto, in greco pàn, è l’Uno, èn, che è Dio, theòs), si riduce al minimo. Si tratta di una prospettiva d’immensa portata, che però è anche molto antica. Per me accettabilissima, anche se apparirebbe certo “eretica” alla chiesa d’oggi, se volesse decidere di non ignorarla, e anche se non è necessariamente cristiana (ma giustamente perché mira, se non erro, all’unificazione religiosa del genere umano, attuata in una forma che finalmente non ripugni alla ragione)[2].

    Ma la trascendenza di Dio (primo postulato del teismo tradizionale, cristiano come ebraico o musulmano), il dualismo metafisico materia-spirito e male-bene, magari correlati, ma mai considerabili come un tutt`uno nell`essere vivente temporale-eterno (secondo postulato dei teismi) e quindi l`unicità di Cristo "unigenito del Padre eterno"(terzo postulato del teismo cristiano), sono punti pressoché ineliminabili in tutto il cristianesimo, o almeno in gran parte di esso, cattolico e protestante che esso sia.

    Invece in Oriente la psicologizzazione dell`esperienza religiosa è quasi il dato più elementare della "fede". Il “resto”, per l’Oriente, è mito, metafora, sogno rivelativo; e lo sanno tutti, almeno quando non siano totalmente analfabeti (e spesso lo sanno persino gli analfabeti). Del resto la Bhagavàd Gità (il Canto del Beato), la rivelazione di Visnù in forma di Krishnà (l’uomo-dio che s’incarna ciclicamente per redimere il mondo in procinto di perire nell’epoca del Kalì-Yuga, ossia della grande distruttività), il testo più importante dell`induismo, è uno dei libri di un grande poema epico eroico, il Mahabharata[3] . "Tu lo sei", dice l`induismo, nelle Upanishad, a ogni praticante, chiamato a vivere l`identità con Dio in quanto “anima del mondo” (Àtman), superando l`apparenza, foriera di narcisismo o da esso prodotta, in cui viene come avvolta la natura dell`essere eterno, che in ciascuno di noi è come imbozzolato nella contingenza, o in uno scambiare la realtà con l’immagine allo specchio (per lo più specchio deformante), ossia con la “Maja”. "Vieni a vedere", dice Buddha al discepolo incredulo nel grande discorso Sull`ascesi, spiegando a questa sorta di evangelico Tommaso buddhista, ma con dovizia di argomenti, che se seguirà una certa via meditativa (ossia psicologica) la realtà dello spirito al di là della "impermanenza", ossia della caducità di ogni esistente e di ogni desiderio, la potrà toccare con mano, al di là di ogni ragionevole dubbio[4]. Ma se non trasformerà se stesso, ossia la sua visuale, non la vedrà (non “Lo” vedrà). Ecco il senso della risposta "scandalosa" di Jung vecchio a un intervistatore della BBC che gli aveva chiesto se credesse in Dio:  

 “Adesso? (Pausa). Difficile rispondere. Adesso lo so. Non ho bisogno di credere. Lo so”[5]

     In conclusione lo junghismo è anche qualcosa di omologo allo yoga. Potrebbe pure essere, o diventare, lo Yoga dell`Occidente. La via che lo junghismo dice di “individuazione”, ossia del diventare quello che più intimamente e personalmente si è, del realizzare il nostro Sé più interiore (che è poi la nostra “personalissima” imago dei, immagine del divino, archetipo degli archetipi, impronta del deus interior nostro proprio, sia che poi “Lui” esista o meno), è un`esperienza iniziatica, autotrasformativa, appunto yogica.

    Questo spiega poi il forte legame con lo junghismo di molti convertiti all`Oriente, specie buddhisti occidentali. Il caso del grande studioso delle religioni, e psicologo junghiano dell`Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA), Corrado Pensa, è addirittura esemplare, come si vede nel suo per me stupendo libro La tranquilla passione. Saggi sulla meditazione buddhista di consapevolezza (1994). Egli cerca tra l`altro di dimostrare che la concezione del mondo più idonea ad accogliere la psicologia analitica non è una forma di naturalismo rinascimentale, tendente al panteismo, come l`alchimia, che tanto appassionava il vecchio Jung, ma piuttosto il buddhismo, visto come la religiosità dell`esperienza psicologica autotrasformativa per eccellenza (ruotante attorno alla meditazione di consapevolezza)[6]. Va però onestamente detto che nel buddhismo la mente è pure intesa, con straordinarie assonanze senza contatto col Fedro del vecchio Platone, come un cavallo selvaggio da domare: il che forse non si concilia con l’approccio di ritorno cosciente all’istinto (o inconscio) proprio di ogni psicoanalisi, com’è stato spesso ricordato da James Hillman. Ma ciò potrebbe non valere per tutte le scuole buddhiste, quali ad esempio quelle Zen, in cui il recupero psicologico della mente “precategoriale”, ossia della spontaneità vitale, è decisivo[7].

    Mentre alcuni anni fa una tale prospettiva sarebbe parsa a me - oltre che a Jung, come si vedrà - artificiosa, e improbabile almeno alla scala storica, è possibile che nel mondo in cui entriamo, reso davvero piccolo e uno come un "villaggio globale" dalla rivoluzione informatica, e che destina certo un grande avvenire ai popoli dell’India e della Cina, ciò sia anche immaginabile, e non solo come opzione di pochi individui alla ricerca dell`illuminazione com`è oggi. Forse si potrebbe ipotizzare, alla scala mondiale, che come la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C. da parte dei Romani e la conseguente maggiore diaspora o “dispersione” degli ebrei nell’impero favorì involontariamente la trasformazione della setta ebraica protocristiana in rivoluzione spirituale universale (per quel tempo), così la fine forzata del libero Tibet ad opera dei cinesi, che dura da quasi mezzo secolo, e l’esilio del Dalai Lama e di tanti monaci dal Tibet, dissolto come entità politico-religiosa autonoma da invasori atei e comunisti cinesi, sia stata un fattore di formidabile mondializzazione e trasformazione del più fiorente buddhismo epocale.

   Ma è veramente possibile, necessario e "naturale" ricercare l`Oriente culturale dello junghismo nel buddhismo? E il cristianesimo non può essere rivitalizzato, anche indipendentemente dal buddhismo (come certo avrebbe preferito Jung)?

     Sulla conversione all`Oriente, e alla sua psicologia mistica, Jung - si sa - aveva un atteggiamento complesso, non privo di diverse resistenze, connesse non solo al suo radicamento nel calvinismo svizzero, di tanti suoi antenati pastori protestanti e teologi, tanto amato quanto criticato, ma anche al timore, da pichiatra oltre che da psicologo analitico, che determinate esperienze psicologiche estatiche, praticate senza il tirocinio di una vita compiuto sin dalla fanciullezza (com’è proprio dell`Oriente), potessero persino scatenare psicosi latenti. Su ciò è da vedere un ampio studio di John J. Clarke, Jung e l`Oriente. Alla ricerca dell`uomo interiore, del 1994.

     Mi pare che da questo libro esca confermata una mia opinione, che mi ero fatta leggendo Jung, e che ho già avuto modo di esprimere. Jung non riteneva fondato, ma artificiale, il farsi buddhisti o induisti, eccetera. Per lui il discorso delle basi culturali proprie contava molto (credeva persino nel genius loci, ossia in un genere di anima che sta nei luoghi geografico culturali e si trasmette a chi ci viva, come ad esempio accadrebbe al bianco che si trasferisca nell’Africa nera o ci stia un po’ a lungo e come sarebbe accaduto ai coloni bianchi americani, parte “indianizzati e parte addirittura “negrizzati”)[8]; puntava, perciò, al rivitalizzare la spiritualità propria del nostro retroterra culturale, cristiana. (Anche Hillman ragiona così, solo che per lui il nostro retroterra psicologico profondo è pagano mediterraneo, e soprattutto ellenico, mentre il cristianesimo, nella nostra anima di mediterranei, e oltre, sarebbe una sorta di sovrastruttura mentale, aggiuntasi surrettiziamente[9]). 

5) Nell’epoca della secolarizzazione il cristianesimo è ancora riformabile? 

   Per Jung un tale approccio comportava molte cose, a partire però - come si è già detto - dalla scoperta del carattere mitico, piuttosto che storico in senso forte, della rivelazione cristiana. Bisogna però stare attenti a non confondere questa posizione con quella di Bultmann sulla "demitizzazione", in cui la scoperta del carattere di mito di innumerevoli pagine del Vangelo ha lo scopo di individuare un nucleo non mitico cui attaccarsi. (Al proposito rinvio all`opera di R. Bultmann Nuovo Testamento. Il manifesto della demitizzazione, del 1954)[10]. Jung per contro vuol dire che c`é certo, nella religione, in ogni religione, una fede irrinunciabile nella realtà dell`anima, prima della vita e dopo la morte (e lo dice esplicitamente, anche in Presente e futuro[11]), ma che la verità religiosa, per tutto il resto, e anche in generale (perché è tale anche la fede or ora richiamata), è mitica. Il dire che è “mitica” non sta a significare che essa sia favolistica in senso tradizionale, ma piuttosto che afferma in forma propria, ossia nella lingua-cultura caratteristica dell`esperienza del Sacro (e dei "grandi sogni", che ne costituiscono la matrice), verità universali, fondamentali per la nostra vita, le quali pur mutando sono sempre le stesse, almeno da un punto di vista autotrasformativo, e nelle testimonianze sull`esperienza dell`eterno e dell`infinito (dai culti misterici di Demetra e Dioniso a quelli di Cristo, ed oltre).

   Il discorso di Jung abbisogna però, per diventare il fondamento di una concezione del mondo rinnovata, di un`integrazione sia di tipo storico culturale, sia di tipo psicologico filosofico. Il primo aspetto - istanza di rinnovamento storico culturale - postula l`esistenza di una sorta di preistoria esperienziale e culturale del proprio discorso psicoterapeutico. (Era un`istanza sentita anche da Freud, in quel caso per universalizzare il suo complesso di Edipo, per lui base di ogni psiconevrosi, e perciò di ogni psicoanalisi: come si vede benissimo nella sua grande opera del 1913 Totem e tabù, in cui l’odio-amore “edipico” del padre, diventa l’assassinio, chissà quante volte ripetuto, del padre primordiale, capo-orda, nel paleolitico, seguito dalla sua trasformazione in totem della successiva tribù, forma aggregativa successiva all’orda e con la quale inizierebbe la civiltà umana)[12]. Ma l’istanza del cogliere una radice storico arcaica della propria visione della psiche è presente, in altra forma, anche nello junghismo. Non sarebbe infatti pensabile che un discorso di una così netta radicalità - autotrasformativo a partire dalla radice della psiche del singolo, ma sino a rivoluzionare il mondo - sia nato come per incanto, solo ad un certo punto della storia. Come il discorso religioso tradizionale postula precedenti libri sacri, ed anzi un inizio il più remoto possibile, idealmente coincidente con la creazione e poi con il primo uomo e con la prima donna, così una psicoterapia intesa come via ad una civiltà della psiche richiede i suoi antecedenti più o meno antichi. Questi non sono costituiti, per Jung, solo dalla dimensione sciamanica, che pure è la maggior anticipazione di un`esperienza diretta del mondo dell`anima che sia stata adatta, al tempo stesso, a curare il prossimo, come ha dimostrato Mircea Eliade in una sua assolutamente straordinaria vastissima opera in proposito[13]; vi si connettono pure, piuttosto, le visioni che non abbiano mai rinunciato a ricercare lo spirito nella materia e la materia nello spirito - in certo modo psicosomatiche per essenza - come quelle degli alchimisti. Questi alchimisti, operanti dal più al meno dal 1300 alla metà del 1700 (col cui indirizzo vezzeggiava ancora Newton), avrebbero visualizzato il Sé, psichico-religioso, come aurum philosophorum (oro dei filosofi), frutto della trasformazione radicale del sulphur vulgi (zolfo del volgo): ossia frutto della rinascita del sapiente attraverso un`esperienza visionaria dello spirito, in forma di oro invece che di materia vile immessa negli alambicchi[14]. In pratica avrebbero creduto di poter “isolare”, “vedere”, l’essenza “divina” celata nell’esistenza materiale, venendone per tal via trasformati.

   Ma, soprattutto, la visione di cui si è detto presuppone - proprio in quanto si tratta di superare il dualismo sia metafisico che morale - una concezione che dia conto del male, o del negativo, nella visione stessa dell`unus mundus, o nella natura-una, o “in Dio” in quanto è “Natura”: dimensioni che nella Psiche si specchiano, o meglio risplendono. Ora Jung, al pari di Freud, giunge, per tale istanza, a incorporare il negativo, il niente, la distruttività, quel che Freud dal 1920 in poi chiamava pulsione di morte (thànatos) compresente in quella d’amore (eros)[15], alla radice stessa della psiche. E poiché la psiche è per lui al tempo stesso cifra rivelativa di Dio (o del divino) e del mondo come uno-tutto in essa, in noi, “il male”, diciamo pure il “malus” perché nella psiche tutto si personifica come si vede nei sogni (alias il diavolo, la personificazione mitica del male, il malus, il malvagio), a suo dire deve essere visto in origine in Dio stesso (nell’essere in quanto essere, o psiche in quanto psiche che lo svela e vive), come qua e là si vedrebbe anche nella Bibbia, ad esempio nel libro di Giobbe, di cui Jung fa un commento psicologico-religioso indimenticabile nel suo libro del 1952 Risposta a Giobbe[16]. Se il negativo antropologizzato, visto nella psiche, in Freud diventa dialettica tra thànatos ed eros, tra la morte e l`amore alla base dello stesso inconscio, in Jung dà luogo all`idea di un male visto come la quarta persona (nel senso di funzione) della santissima trinità, che la trinità cristiana occulterebbe e rimuoverebbe: in Dio, nella "Psiche"[17]. E il problema dell`uomo, nei confronti dell`Ombra, che è la personificazione a livello individuale sia del male che del rimosso che ci disturba, consiste nel trasformare tale dimensione nientificante dell’Essere (o essere, o psiche) da variabile indipendente in variabile dipendente: nel trovare con essa un modus vivendi, che in una vita riuscita trasformerà il diavolo stesso in un "buon diavolo", quasi in una distruttività al servizio del bene. La belva c’è, ma non è destinata a restare assolutamente tale, se uno la tratti bene, la nutra un poco, le tolga le spine dalle zampe, le lisci il pelo, e così via. Anzi, può persino diventare dolcissima, essere trasformata in una forza benevola, anche se si debba sempre stare in guardia (si parla della bestia selvaggia dentro di noi, naturalmente, che è istintualità cieca frustrata, malvagia soprattutto per tale  ragione, anche se mai addomesticabile del tutto perché cesserebbe di essere fysis, natura selvaggia, e addirittura si snaturerebbe e rovinerebbe, essa stessa e noi).

   Tutta questa visione di Jung afferma la realtà quantomeno antropologico culturale del Sacro, dell`anima, dell`immortalità e di Dio (almeno in quanto Sé). Ciò piace ad ogni homo religiosus. Al tempo stesso, però, fa delle storie della salvezza qualcosa di relativo, e del male un aspetto imprescindibile di Dio stesso: il che fu tema di drammatici confronti anche epistolari con teologi cristiani amici, come White, e persino come il grande mistico ebreo Martin Buber, che non potevano accettare un tale svolgimento, che invece Jung riteneva imprescindibile, perché per lui la credibilità del Sacro era ormai connessa alla possibilità o meno di vederlo immanente nella psiche o natura, in cui naturalmente la morte o la distruttività sono ineliminabili[18]. Insomma, o l’infinito che tutto include, e che include anche noi, ed è in noi, è eros e thànatos o è inconcepibile per una coscienza emersa in un’epoca laicizzata come la nostra. Del resto la stessa sacralizzazione, rivalutazione, riconciliazione degli e con gli istinti, tra la coscienza e gli istinti, tra l’Io e l’inconscio, che è forse la quintessenza della rivoluzione culturale non solo psicologico analitica, ma psicoanalitica, sarebbe altrimenti senza fondamento.

    Si badi: quello di cui Jung parla non è il male come "privatio boni", o carenza del bene, ad esempio di Hegel e forse di ogni storicismo, in cui il "negativo", il niente, la distruttività, sono o benefici, in quanto già "rivoluzionari", o sono, almeno, il concime necessario al futuro raccolto della Storia[19]. È, piuttosto, il male come dimensione imprescindibile, anche se parziale, dell`Essere, dell`eterno, del vivente, della psiche: termini per Jung strettamente correlati se non addirittura intercambiabili come in una sorta di gioco degli specchi, che comunque avviene nella psiche stessa. Il male per Jung va circoscritto, neutralizzato, possibilmente strumentalizzato, e prima di tutto placato (rabbonito, dall’educazione nella psiche e della psiche), ma è insopprimibile, come una sorta di voragine o buco nero nella psiche, in Dio.

    Questo è inaccettabile quasi per ogni cristiano, che a differenza degli gnostici dei primi secoli d..C. - pagano-cristiani, o eretici ancestrali, da Jung ritenuti antenati degli alchimisti e in ultima analisi degli psicologi analitici - non potrebbe mai confondere "il diavolo e il buon Dio".

    L`impostazione junghiana ha pure trovato, in modo che per noi non può essere casuale nella storia della cultura occidentale, un “parallelo” straordinario, e dalla produzione vastissima, da studiare con la più grande attenzione, ai giorni nostri: Eugen Drewermann, psicoanalista e teologo.

 Drewermann, nel bel libro Io discendo nella barca del sole, del 1989, di cui non potrei pensare meglio di quel che pensi, ha dimostrato che le tematiche di salvezza espresse nei grandi miti cristiani sono identiche a quelle dei miti di Osiride, e del viaggio dell`anima, della religione degli antichi egizi. Le visioni religiose più antiche, anzi - anche a prescindere dai misteriosi rapporti diretti o indiretti tra ebraismo, cristianesimo e antico Egitto (o Egitto ellenistico, forse nascosti negli stessi Vangeli) - ci fanno capire più profondamente, e meglio, quelle successive. Nella stessa opera, traendo le conseguenze da una visione di un cosmo che eternamente muore e rinasce, e che è dunque pervaso da Dio, ha pure teorizzato non solo l`immortalità dello spirito umano - di cui il mito religioso è cifra, in quanto indica la compresenza tra alba e tramonto, e morte e rinascita, e tragedia e gioia, per Osiride, per Cristo e per noi stessi -, ma quella di ogni vivente, animali compresi[20].

    Lo stesso Drewermann, inoltre, ha inteso la fede stessa come esperienza di rinascita psicologica, che fa di Cristo - oltre che un inarrivabile Maestro (della dottrina redentiva) e Profeta (rivoluzionario religioso, in lotta contro le degenerazioni della chiesa, per lui giudaica e per noi cattolica, del tempo), e poeta (capace di esprimere la verità dell`Essere con immagini senza uguali) - il primo e più grande psicoterapeuta, vero guaritore dai mali (sempre connessi allo spirito malato anche quando si presentavano come del tutto "fisici"), della nostra civiltà. Ha sostenuto ciò in un suo grande commento a uno degli evangelisti, Il Vangelo di Marco, e, più in generale, nella sua teologia psicoanalitica[21].

   Ha pure scritto una sorta di romanzo-saggio sul più grande panteista, fondatore mancato di una religione di questo genere, del Rinascimento: Giordano Bruno[22].

    Ma si è scontrato irrimediabilmente con la religione dei preti, da cui è stato totalmente escluso, pur essendo stato sino ad allora, egli stesso, prete (oltre che psicoanalista). Contro di essa, forse con spirito profetico un po` alla Calvino o Lutero dei giorni nostri (però non a caso inascoltato in questo tempo, che è forse di declino dell’”eone” cristiano), ha scritto un vero trattato, che però parzialmente risente del complesso dell`ex (come quello dei grandi comunisti espulsi del tempo della Terza Internazionale), che, perseguitato ed escluso dall`Organizzazione, già sacralizzata anche da lui, ne diventa il più grande e corrosivo critico: Funzionari di Dio. Psicogramma di un ideale (1989)[23].  È però possibile che esattamente da teorizzazioni come quelle di Drewermann, psicologico-religiose e post-moderne proprio nel senso auspicato dallo junghismo, debba partire ogni futuro tentativo di nuova possibile Riforma del cristianesimo occidentale, cattolico o protestante che esso sia.

                                                                                                                                                 (Segue

                                                                       ( franco.livorsi@unimi.it )

 



[1] Penso ai passi molto noti dei Vangeli in cui Gesù invita a guardare i gigli dei campi e le piume degli uccelli del cielo, più splendide degli abiti di re Salomone (Matteo, 6, 26-34) , o a non preoccuparsi del domani (ivi)  perché ogni giorno ha la sua pena, o a diventare innocenti come bambini per accedere al regno dei cieli (Matteo, cap. 11, 29; Luca, 10, 21-22); Matteo, 19, 8), o in cui si difende dall`accusa di essersi detto figlio di Dio notando che tutti sono dèi (in quanto, evidentemente, figli di Dio essi pure) (Giovanni, 10, 31-35). Mi riferisco al Cantico di frate sole o laudi delle creature, detto solitamente Cantico  delle creature di San Francesco, in cui Dio lascia di se stesso "significatione", cioè traccia che dà senso, in tutto il creato, persino in "sorella nostra morte corporale". Per  Francesco d’Assisi (1181-1230) rinvio a: FRANCESCO d’ASSISI, Scritti, con introduzione di V. Gamboso,  Padova, Il Messaggero,  1983. Per GIOVANNI DELLA CROCE (1542-1591) rinvio a suoi grandi scritti mistico-estatici come Notte oscura (1577) e Salita del Monte Carmelo (1587) e Fiamma viva d`amore (1578), in: Giovanni della CROCE, Verso l`Oreb, intr. di E. Ancilli, Padova, Il Messaggero,  1986; Idem, Opere, versione del Padre Ferdinando di S. Maria O. C. D., Roma, Postulazione generale dei Carmelitani scalzi,  1985.

 Di E. STEIN, evolutasi da Husserl al misticismo cristiano e morta come ebrea in un campo di sterminio nazista, si veda ora: Sui sentieri della verità. Antologia, a c. di Carmelo, Milano,  Paoline, Milano, 1991.

[2] R. PANIKKAR, La realtà cosmoteandrica, Milano, Jaca Book, 2004. Si veda pure, dello stesso: La porta stretta della conoscenza. Sensi, ragione, fede, a cura di Milena CARRARA PAVAN, Milano, Rizzoli, 2005. Una lettura formidabile a cura di R. PANIKKAR è: I Veda mantramanjari. Testi fondamentali della rivelazione vedica (1977), edizione italiana a cura di M. Carrara Pavan, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2001, due volumi.

[3] Si veda: Bhagavàd Gità, con saggio introduttivo commento e note di S. Radhakrishnan, a c. di I. Vecchiotti, Roma,  Ubaldini,  1964. Ho commentato questo splendido libro dal punto di vista junghiano nel mio saggio: Note psicologiche sulla Bhagavàd Gità, comparso su "Klàros. Quaderni di psicologia analitica", Firenze, n. 2, dicembre 1996.pp. 107-134.

 Si vedano inoltre: Upanisad antiche e medie, Introduzione traduzione e note di P. FILIPPANI-RONCONI, Torino, Boringhieri,  1960.

 Si veda infine il discorso Samanna Phala Sutta (Sul frutto dell`ascesi), in: Canone buddhista. Discorsi lunghi, a c. di E. FROLA, Torino, UTET, 1967, vol. secondo, pp. 56-99.

[4] Si veda infine il discorso Samanna Phala Sutta (Sul frutto dell`ascesi), in: Canone buddhista. Discorsi lunghi, a c. di E. Frola, Torino, UTET, 1967, vol. secondo, pp. 56-99.

[5] L`intervista di Freeman, per la BBC di Londra, del marzo 1959, è in:  Jung parla. Interviste e incontri (1977), cit., pp. 519-538. La cit. è a p. 524.

[6] L`opera è stata pubblicata a Roma da Ubaldini nel 1994. Riprende e fonde in un tutto interventi di Pensa, che è pure un conduttore di gruppi di meditazione Vipassana, su "Paramita", bimensile dei buddhisti italiani.

  Dello stesso, si veda pure: L’intelligenza spirituale. Saggi sulla pratica del Dharma, Roma, Ubaldini, 2002.

[7] Si veda nel dialogo Fedro (tra il 388 e il 368 a.C.) in: PLATONE, “Opere”, Bari, Laterza, 1966, al par. XXV, pp. 752-754, la metafora dell’anima razionale come auriga che guida i due cavalli degli istinti e passioni. Ora nel fondamentale Dhammapada, del più antico canone buddhista, in forma scritta dal V secolo a. C., si parla, al punto 94, di “Colui i cui sensi sono soggiogati, come cavalli ben domi dall’auriga, che ha abbandonato orgoglio e adesione al mondo, perfino gli dèi invidiano un siffatto uomo” (in: Canone buddhista. Discorsi brevi”, a cura di Pio FILIPPANI-RONCONI, Torino, UTET, 1968, p. 111). Per il riferimento allo Zen si veda: D. T. SUZUKI, Introduzione al buddhismo Zen, con Prefazione di C. G. Jung (1969), Roma, Astrolabio Ubaldini, 1970. La tendenza di J. HILLMAN al rifiuto di ogni ascetismo in nome di un’accettazione delle passioni anche selvagge, viste come il sale della vita, si può cogliere bene nel suo libro Il sogno e il mondo infero (1979), Milano, Comunità, 1984.

[8] Si vedano i saggi di C. G. JUNG Anima e terra (1927) e Psicologia americana (1930), in: Civiltà in transizione. Il periodo fra le due guerre, “Opere”, vol. 10/1, Torino, Bollati Boringhieri, 1985, pp. 51-72 e 131-146.

[9] J. HILLMAN, Il mito dell’analisi (1972), Milano, Adelphi, 1979. Rinvio pure al mio saggio: Archetipi e storia in Hillman, “Klaros. Quaderni di psicologia analitica”, Firenze, a. 17, n. 1, dicembre 2004, pp. 5-48.

[10] Si veda l`op. di R. BULTMANN, Nuovo Testamento. Il manifesto della demitizzazione (1941),  Brescia, Queriniana,  1970.

[11] C. G. JUNG, Presente e futuro (1957), nel vol.: Civiltà in transizione. Dopo la catastrofe, in “Opere”, 10/2, pp. 101-156. Scrive Jung: “La religione dipende unicamente dalla relazione dell’individuo verso un’istanza non mondana, ove criterio determinante non è l’adesione formale a una fede, ma il fatto psicologico che la vita dell’individuo non è realmente determinata soltanto dall’Io e dalle sue opinioni, ma in misura non minore da un’autorità trascendente. Non sono le teorie etiche, per quanto elevate, né le professioni di fede, per quanto ortodosse, a costituire le basi dell’autonomia e della libertà dell’individuo, ma soltanto la coscienza empirica, ossia l’esperienza chiara di una relazione personalissima e bilaterale fra l’uomo e un’istanza extramondana, che fa da contrappunto al ‘mondo’ e alla sua ‘ragione’ (p. 112).”

[12] L`opera di Freud Totem e tabù, è nel vol. 7 delle Opere, cit.

[13] M. ELIADE, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi (1968), Roma, Edizioni Mediterranee, 1974.

[14] Ben quattro grandi tomi, ossia tre volumi delle opere, di Jung – il 12, Psicologia e alchimia; il 13, Bollati Boringhieri, 1992; il 13, Studi sull’alchimia, ivi, 1988; il 14/1 e 14/2, Mysterium coniunctionis, ivi, 1989 – sono dediati alla questione.

[15] Il punto di partenza di questa dialettica eros-thànatos in S. FREUD è il saggio Al di là del principio del piacere (1920), in “Opere”, a cura di C. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, vol. 9 (1917-1923), 1977, pp. 187-249.

[16] C. G. JUNG, Risposta a Giobbe (1952), in “Psicologia e religione”, che è l’undicesimo, e ricchissimo di saggi fondamentali, vol. delle “Opere”, cit., 1979, pp. 337-460.

[17] C. G. JUNG, Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità (1942/1948), “Opere”, 11, cit., pp. 115-196.

[18] Echi di questo confronto sono pure in: Prefazione a V. White, “Dio e l’inconscio” (1952), in: C. G. JUNG, “Opere”, vol. 11, cit., pp. 287-297;  Risposta a Martin Buber (1952), ivi, pp. 461-468. Ma si veda soprattutto, ora: C. G. JUNG, Lettere. 1906-1961, a cura di A. Jaffé in collaborazione con G. Adler (1997), Roma, Edizioni Magi, 2006, tre volumi. Il confronto è soprattutto nei vol. II e III. Si tratta di un migliaio di pagine in cui in forma discorsiva vengono affrontati complessi nodi teorici, specie psicologico religiosi. Il confronto con White e Buber emerge con una drammaticità che avrebbe anche potuto non essere notata. La cultura italiana, pur con qualche appunto che può esser mosso alla traduzione di alcune lettere, dovrebbe essere grata all’editore che ha messo a disposizione di tutti un tale “monumentum”.

[19] Si veda: G. F. W. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia  (1822-1827) cit. . Si veda, inoltre, almeno: M. ROSSI, Da Hegel a Marx, Feltrinelli, Milano, 1970, due volumi.

[20] E. DREWERMANN, Io discendo nella barca del sole (1989), Milano, Rizzoli,  1992.

[21] ID., Il Vangelo secondo Marco (1987), Brescia. Queriniana,  1994.

ID., Psicanalisi e teologia morale (1987-1988), Brescia, Queriniana, 1992.

[22] Idem, La posta in gioco, Milano,  Comunità,  1994.

[23] L`opera in oggetto, del 1989, è stata tradotta a  Bolzano, da Raetia, nel 1995.

 

25/11/2007 12:00:00
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