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Anima e terra: aforismi e annotazioni
1) Le parole non dette: alcune premesse
Franco Livorsi

Invecchiando, se si è in buona fede, è impossibile non conoscere il rammarico, verso se stessi e verso gli altri. Si ricordano con immenso affetto o con silenziosa, ma intensa, gratitudine quelli che ci hanno parlato a dovere al momento giusto, volendoci un po’ di bene e prendendoci un po’ per mano per condurci fuori da eventuali condizioni foriere di male per noi, fossero essi genitori o fratelli, amici intimi, ragazze amate o insegnanti o semplici conoscenti dalla grande anima. Talora ci si vergogna per non aver dato retta, o magari  per aver negato l’ascolto, a persone che per empatia, stima o profonda simpatia avrebbero potuto e addirittura voluto aiutarci, ma che noi non abbiamo ascoltato per nostra cecità intellettuale, per momentaneo cinismo o per pervicace ostinazione intrisa di malinteso orgoglio o addirittura di vacua arroganza. Altre volte ci si vergogna per gli altri - quale fosse il loro legame di sangue o di amicizia o di semplice cordialità con ciascuno di noi - che vedendoci o vedendo qualcuno o qualcuna in terribili angustie se n’erano infischiati o se ne infischino, talora dicendo tra sé e sé o ad altri: “Ben gli sta”, magari tra una litania e un’altra. Pace all’anima loro. Senza rancore, ciascun per sé e Dio per tutti. Dal più profondo dell’anima.

   Ma io, che cosa avrei voluto che mi fosse stato detto, da uno o una che fosse quale sono io oggi, nel corso della mia vita, per non “andare a sbattere” o per non farmi male inutilmente anche quando mi reggevo o mi regga bene? E, soprattutto, che cosa avrei voluto o vorrei dire io stesso ad altri in circostanze analoghe?

    Non intendo assolutamente fare dell’autobiografismo, né a buon mercato né vendendo merce di primissima qualità. Facciamo finta che io parli ad un coetaneo e poi a un suo figliolo del nostro tempo: sul modo di vedere la vita, sulla religione, sulla morale  e soprattutto sulla politica.

   Procedo dalle antiche domande che ci facevamo da ragazzi, che sono poi le stesse che ci facciamo da vecchi quando non bariamo: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?” Proseguo chiedendomi quale modello di “politico” sia preferibile, ma anche possibile, perché non vogliamo certo fare il giochino vacuo delle “anime belle”. M’interrogo, a quest’ultimo proposito, sui grandi politici da me visti e conosciuti nel passato o nel presente, nei libri memorabili che abbiano segnato la mia esistenza e soprattutto nella vita o direttamente osservata o intensamente vissuta. E faccio ciò sempre in vista dell’avvenire, perché del passato, se non ci fosse il futuro da fare, je m’en ficherais. Non avrebbe potuto “fregarmene de manco”, come dicono a Roma. Se c’è qualcuno che ami la storia archeologica o commemorativa (come c’è), gliela regalo tutta quanta, con i complimenti del commendatore o cavaliere o presidente di turno. A me è piaciuto solo cambiare la vita, mia ed altrui, e conoscere, il più obiettivamente e spietatamente possibile, per capire in che cosa fosse consistita l’azione costruttiva o distruttiva, favorevole o sfavorevole, rispetto al cambiamento desiderato, e perché si fosse determinata, così da poter evitare fesserie per il futuro. Mi sono sempre posto verso il passato con l’atteggiamento del medico che s’interessa dei minimi misteri del corpo umano, anche a costo di vivisezionarlo, ma perché gli interessa la buona salute, altrui ed anche sua. Il resto per me è sempre stato “vanità delle vanità”. Qualche celebrazione ogni tanto va anche bene, ma camparci sopra non va. Anche la psicologia del profondo m’interessa per capire le ragioni dell’infelicità, altrui e mia, e per ricercare le condizioni per essere sereni o felici, o addirittura per condurre interiormente una “vita beata” (come avrebbe detto Kant della vagheggiata sintesi, che rinvia addirittura al di là della vita, tra virtù e felicità[1]).

   Innanzitutto vorrei che qualcuno si fosse preso più cura delle antiche domande richiamate: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?”

   Certo una risposta decente sembrerebbe anche quella consistente nel concludere che non si poteva o può rispondere a tali quesiti, ma li si deve anzi considerare fuorvianti in massimo grado, perché non c’è risposta. E meglio vale (o varrebbe), per ciò, occuparsi d’altro, curando “il proprio giardino”, come diceva Voltaire alla fine del Candide, mandando a quel paese il metafisico irriducibile (o meglio non lui, il povero Pangloss, né tanto meno il suo discepolo Candido, ma la sua pseudofilosofia)[2].

   Tuttavia a me quella risposta non sarebbe bastata, E non mi basterebbe se fossi al posto di un giovinetto del giorno d’oggi. Anche per alcune conseguenze morali di cui dirò.

   Rispetto ai quesiti di cui ho parlato ci sono stati quattro tipi di adulti da me conosciuti, prima come giovinetto e poi come adulto (via via sempre più “stagionato”, tra altri adulti, via via più “stagionati” anche loro).

    C’erano quelli che non capivano e non capiscono neppure quelle domande, non se le ponevano e non se le pongono - più o meno - mai, e per ciò educavano ed educano se stessi e per ciò stesso i figli, e senza saperlo gli stessi amici su cui abbiano una profonda influenza, ad un assoluto relativismo, inframmezzato da qualche chiacchiera moralistica, nello stile di quei tali “uomini buoni” - ma nel senso di farisei[3] - evocati da Sartre, i quali “non dicono mai la verità”, e “tra una ruberia e l’altra amano credere che si possa vivere per qualcosa che non sia il formaggio”[4]. Ebbene, non concordo con questi tali, neppure quando il loro disincanto non sia tanto estremo da diventare cinismo puro. Involontariamente trasmettono una visione spregiudicata e truffaldina, perché il relativismo assoluto è poi un amoralismo radicale. Lo avevano già capito gli antichi sofisti tra il VI e il V secolo a.C., e se ora lo dice, in senso ovviamente contrario al loro, ossia con approccio antinichilistico, il vecchio Ratzinger, buon per lui[5].

  C’erano e ci sono poi quelli i quali - pur avendo ben presto liquidato le domande esistenziali radicali - avevano Valori forti cui tendere; non sapevano e non sanno, e neppure s’impegnano a sapere “chi siamo e dove veniamo”, ma avevano ed hanno un loro senso alto del “dover essere”, e dunque un rispettabilissimo orientamento sul “dove andare”, sia questo “dove” costituito, per loro, dai punti di principio o “programmatici” della Costituzione italiana del 1948 oppure da un habitat o cittadino o sociale o ecologico da salvare. E su ciò impostano la loro vita. Possono essere intellettuali, ma anche braccianti. Fortunati sono i figli loro. Questi sono tipi molto bravi, che sarebbero piaciuti ai migliori illuministi a partire dal Kant della “morale”[6]. Il solo limite loro è quello dell’estrema difficoltà di far interiorizzare davvero tali fini da altri in un mondo che non dispone né può disporre più né del contesto storico che li aveva resi credibili né dei grandi “contenitori politici” favorevoli a farli credere o praticare. Voglio dire che man mano che ci si allontana sempre più da contesti storici quali: la guerra e la sana Resistenza alle sue efferatezze, crimini e tendenze liberticide; la nascita della repubblica; le grandi lotte sociali e passioni politiche degli anni Cinquanta e Sessanta, sino al Sessantotto o poco oltre, e ci si inoltra lungo i malinconici anni Settanta, in cui tutto cominciava ad andare in crisi e gli idioti fautori e praticanti della “bella violenza” di destra o di sinistra tornavano ad operare, e poi nei cinici o truffaldini anni Ottanta e ai disincantati anni Novanta o alla vuotaggine fin de siècle o del secolo nuovo (sia pure con qualche sano impulso etico-politico di massa alla rinascita), procedendo insomma quasi come se si scendesse da una scalinata, quei Valori “sani”, da bollenti o “caldi” che erano stati, si facevano o fanno freddini, freddi e alla fine di ghiaccio. La differenza tra il dire e il fare si fa sempre più grande, alla fine abissale, e il “bene” diventa predica da commemorazioni, come le trombonate, anche di bravissime persone, su cui ridevamo di cuore, magari a torto, quarant’anni fa o più. E i grandi partiti che avevano alimentato i Valori di quella gente davvero brava pur nelle divisioni reciproche si estinguono, e poi muoiono letteralmente uno dopo l’altro. Restano solo spezzoni vivi, come un braccio o una testa o altro che ancor si muova. Arriva il tempo del “cuore di tenebra”. Irrompe l’epoca che il vecchio Nietzsche chiamava dell’”ultimo uomo”[7], che ci delizia soprattutto qui ed ora.

   C’erano e ci sono poi - tra i tipi che stiamo passando in rassegna - quelli i quali avevano educato cristianamente i loro figli. Non parlo, a parte i migliori tra loro, dei democristiani militanti, e neppure, o almeno non necessariamente, dei clericali. Parlo dei cristiani convinti. La loro risposta al “chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo”, non era niente male. Non è niente male. E i loro figli, avendo a disposizione un orizzonte vuoi religioso e vuoi morale sottratto alle dure repliche della storia, avevano, o hanno, dei punti saldi come l’ancoraggio di una navicella, e non vivevano né si comportavano, né vivono o si comportano, niente male. Nel mio ricordo sono stati tra i migliori.  Ma si tratta di una schiera assottigliatasi via via, per un processo di secolarizzazione sempre più spinto e irreversibile. Nel 1881 un tale annunciò che “Dio è morto”[8]. Dicono che sia vero (persino preti illuminati), anche se a mio parere Dio o “che cosa” per Lui è un 47 morto che parla. Sta risvegliandosi dal suo “sonno di Brahma”. Ma su ciò tornerò.

   C’erano e sono poi quelli che manifestamente hanno sempre fatto parte della schiera degli “hommes qui cherchent”. Non presumevano di aver sciolto l’enigma del “chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo?”, ma proseguivano e proseguono la ricerca, sapendo che alla fine chi cerca trova e spesso già cercare è un trovare. Purtroppo è un approccio troppo complicato a reggere, troppo inquietante, e in fondo troppo lontano dal bisogno di certezze dei giovani. Ma comunque chi lo abbia avuto o abbia dà un buon esempio ai suoi, che potrà pure fruttare un poco, o molto, nella loro vita. L’esempio può aver pesato anche sulla vita di tanti altri, se i  tipi in questione erano o siano dei “comunicatori”. Ma che si trova con tale approccio?

   A suo tempo, credo, lo si potrà vedere.

   Non dico quale sia il mio orientamento tra i tipi di cui ho detto per evitare la ybris, o arroganza che dir si voglia, che è sempre una gran brutta bestia con cui tutti noi abbiamo a che fare (specie se “intellettuali”).

(Segue)

                                                                                                 ( franco.livorsi@unimi.it )

 

 

 

 

 

 

 



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