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Ci può essere una spiritualità per atei?
Francesco Roat
 C’è un libriccino minuscolo (18 centimetri per 12), non certo voluminoso (ha appena 71 pagine) e a buon mercato (costa solo 7 euro), ma dal contenuto assai pregnante, che consiglio davvero a tutti come dono o auto-regalo di Natale, per un 25 dicembre all’insegna della meditazione. Mi riferisco al saggio del filosofo francese André Comte-Sponville, Spiritualità per atei. Cosa resta quando si rinuncia alle fede, pubblicato dalle Edizioni Dehoniane Bologna, che tratta appunto di un modo altro – rispetto alle forme tradizionali religiose ‒ di concepire/percorrere un cammino spirituale, per quanto a-teo ovvero letteralmente privo di riferimento a Dio o a divinità di alcun genere.

Comte-Sponville mi sembra si collochi in una prospettiva ‒ analoga, per molti versi a quella di Paul Tillich, Luigi Berzano, Ronald Dworkin, Julia Kristeva e tanti altri intellettuali appartenenti alla cosiddetta società post-secolare ‒ per cui la spiritualità non deve ridursi meramente a qualsivoglia genere di teismo. Quindi, in quest’ottica, anche il termine ateismo-religioso potrebbe non risultare più un ossimoro: una contraddizione di termini, insomma. Tant’è vero che a tutt’oggi moltissimi atei, pur non ammettendo un creatore o un salvatore del mondo, si sentono legati (e la parola religione, etimologicamente, esprime appunto l’essere uniti insieme e al contempo l’aver cura) da un profondo rispetto per il cosmo e per l’esistenza umana, nonché da un senso di grata meraviglia che essi suscitano in loro.

Comte-Sponville, per la correttezza, ama definirsi: “ateo non dogmatico e fedele”. In quanto un ateismo privo di dogmi non pretende affatto di sapere se esista o meno Dio: semplicemente non crede in alcun essere divino ed è consapevole che pure questa è una forma di credenza, sia pure coniugabile al negativo. Ma perché poi fedele? Ritengo opportuno rispondere a questa domanda con le precise parole del filosofo francese, che così definisce la sua fedeltà: “resto legato con tutte le fibre del mio essere a un certo numero di valori ‒ morali, culturali, spirituali ‒ molti dei quali sono nati nelle grandi religioni e, nel caso specifico dell’Europa, nella tradizione giudaico-cristiana”. Può così stupire solo in parte la rispettosa considerazione con cui Comte-Sponville guarda ai testi evangelici, intorno ai quali egli esprime un generale apprezzamento (miracoli a parte); per non parlare dell’etica professata da Gesù, che il Nostro sposa senz’altro.

Sorge spontaneo, a questo punto, un ulteriore interrogativo: in cosa consiste allora una spiritualità senza Dio? Certo in una condotta basata sull’amore e sull’azione non egocentrici, piuttosto che sulla speranza ‒ tutta egoica ‒ in qualche regno oltremondano. Ma non basta. Secondo questo eccentrico ateo, la spiritualità è: “la vita dello spirito nel suo rapporto con l’infinito, l’eternità, l’assoluto”. Termini metafisici, utilizzati senza diffidenza alcuna da Comte-Sponville, non a caso convinto che l’uomo sia un animale metafisico, come sosteneva Shopenhauer, se è vero che il filosofare implica giusto procedere con il pensiero oltre quanto si sa o è apparente, e nel terzo millennio dovrebbe comportare il non adeguarsi più all’angustia d’una visione/dimensione solo materialistico-positivista, ma aperta ad uno sguardo che ardisca mirare oltre la fisicità: orizzonte cui si riferisce etimologicamente la parola metafisica (derivata dall’espressione greca metà tà physiká: dopo la fisica).

Anzi, secondo il Nostro, la spiritualità al suo culmine si declina nel segno del “mistico”, nel senso attribuitogli da Wittgenstein, che con tale espressione indicava ciò che non si può esprimere tramite il linguaggio concettuale: l’ineffabile/indicibile. Mentre in effetti il dire metafisico è sempre speculativo/discorsivo ‒ cioè equivale a teoria ‒, la spiritualità è attiva/intuitiva ‒ cioè equivale a prassi. Una prassi fatta di contemplazione quotidiana, di esercizio meditativo, di silenzio purificatore. Essa significa altresì, o forse prima di tutto, vivere il semplice ma essenziale hic et nunc del presente senza nostalgie per quanto è passato né attese/aspettative d’alcun genere per il futuro. Comte-Sponville chiama tale modus vivendi/operandi una “spiritualità dell’immanenza”, per la quale: “l’eternità è ora”. Ma senza accettazione paziente/accogliente risulta vano ogni agire e noi saremo facile preda di sofferenza e delusione ‒ scrive il nostro paradossale ateo-fedele, manco fosse un maestro zen ‒: “fintanto che continueremo a desiderare cose diverse da ciò che è o ciò che facciamo”. Come a dire: sino a quando distingui ancora tra paradiso e inferno, purtroppo sei condannato a restare all’inferno.
14/12/2015 22:54:50
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