La Fede e l'Etica...
La Jaca Book, editrice
dell’opera omnia di Raimon Panikkar,
ha recentemente pubblicato un libro del celeberrimo teologo e filosofo spagnolo
‒ Kierkegaard e Śāṅkara. La fede e
l’etica nel cristianesimo e nell’induismo, a cura di M. Carrara Pavan e P.
Barone ‒; si tratta d’un breve ma intenso testo che riporta la trascrizione di
un corso inedito, tenuto da Panikkar alla Pontificia Università Lateranense di
Roma durante l’anno accademico 1962-63. In esso vengono messe a confronto la moderna
cultura occidentale e quella tradizionale d’Oriente (nonché il cristianesimo e
l’induismo), colte in un momento storico cruciale, nell’ipotesi che ciascuna
possa trovare nell’altra gli elementi vitali mediante cui operare un auspicabile
rinnovamento.
Il filosofo Kierkegaard
ed il mistico Śāṅkara sono le due figure emblematiche scelte dal Nostro quali
personaggi simbolo delle due culture; ambedue d’altronde condividono l’esser
vissuti in tempi di decadenza/crisi spirituale e l’anelito inesausto verso un assoluto/divino
intorno al quale ‒ per quanto tale ambito risulti indicibile ‒ entrambi hanno articolato parole/espressioni in grado
di alludere ad esso, cercando di precisare i modi e gli snodi di una
religiosità autentica.
A detta del pensatore
danese nella vita si possono contraddistinguere tre stadi: l’estetico o
dell’esperienza immediata/comune: costituita dall’alternarsi ansiogeno di sofferenze
e piaceri, di turbamenti e speranze; l’etico: che comporta una rinuncia
all’inessenziale ma che può portare l’uomo sull’orlo di un inquietante abisso, lo
iato profondo tra il secondo livello e quello successivo; infine il terzo: lo stadio
religioso. Giunti qui, secondo Kierkegaard, l’unico sbocco positivo che può
avere l’angoscia di fronte alla consapevolezza della propria ineluttabile
finitudine/precarietà è solo la fede in quell’indimostrabile o assurdo che è Dio, verso cui si
accederebbe solo mediante un salto consentito dal trampolino dell’irrazionale
(che oggi potremmo forse ancor meglio indicare come a-razionale).
Śāṅkara appartiene ad
un’altra cultura, quella induista dell’advaita
vedānta, per cui la realtà è non-duale. Ciò significa, osserva Panikkar: “che
Dio e il Mondo, l’Essere e gli esseri se si vuole, non sono due”. Anzi,
continua provocatoriamente il Nostro: “Gli esseri si possono definire ‒ anche
se tutte queste parole sono inadeguate e possono essere dette a patto che dopo
averle sentire e capite si dimentichino, si cancellino ‒ manifestazioni,
apparenze, forme, suoni, configurazioni dell’Essere”. E l’io, mentre tanto
appassiona/intriga Kierkegaard e un po’ quasi tutta la storia filosofica
occidentale, per l’induismo e per il buddhismo non ha reale consistenza e come
tale non può dunque venire salvato.
O, se proprio vogliamo mantenere questo termine caro al cristianesimo, per essere
salvato l’ego deve abdicare a se
stesso, deve scomparire. Vedi, a questo proposito, l’esortazione di tutti i
mistici d’ogni tempo ‒ vuoi d’oriente, vuoi d’occidente ‒ a sbarazzarsi dell’egoità
onde giungere alla libertà.
Conseguire un tale risultato
non è però semplice. Śāṅkara afferma che, se si è determinati a ottenere ciò, è
necessario avvalersi di virtù fondamentali e imprescindibili. Esse hanno nome
serenità, autocontrollo, ascetismo, fortezza, serietà, fiducia nello spirito e quella
che in sanscrito viene detta uparati:
cioè il non-attaccamento o rinuncia, meglio traducibile in italiano con
un’espressione tratta dal vocabolario cristiano: la cosiddetta povertà di spirito. Ed un vero povero ‒ ma
paradossalmente ricco ‒ di/per lo spirito è, secondo Meister Eckhart, chi “niente vuole, niente sa, niente ha”.
Giacché non conta nulla per la mistica il desiderio, l’acquisizione, il sapere
(astratto, teoretico, meramente concettuale).
Qui i due campi ‒ la
tradizione orientale e la spiritualità occidentale ‒ possono proficuamente
incontrarsi. Sia nell’India di Śāṅkara che nell’Occidente autenticamente
cristiano, infatti, si richiede all’uomo un esercizio di
svuotamento/abbassamento o, per dirla in greco, di kenosis. E forse davvero, come sottolinea Paulo Barone nella sua
postfazione al libro di Panikkar, l’intero cristianesimo può venir condensato
in una sola sentenza: quella che Gesù annuncia ai discepoli prima di
accomiatarsi da essi senza elargir loro in eredità alcuna dottrina, nessun
potere o idolo consolatorio cui prostrarsi (alienandosi), ma esclusivamente il
lascito dello spirito: “In verità vi
dico, è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a
voi il Paraclito; ma quando me ne sarò andato ve lo manderò” (Gv 16, 7).