Terza Pagina
'Il capitalismo cambia, la sinistra è in ritardo'
Giacomo Russo Spena (a cura di)
...
Intervista a Emiliano Brancaccio di Giacomo Russo Spena (*)
L'economista
boccia la visione dello Stato come semplice 'ancella' del capitale privato e
non vede in Italia forze politiche capaci di proporre un'alternativa. Difendere
la Costituzione? 'Non basta'.
...
Dopo il
salvataggio delle banche venete, per l’economista siamo giunti ad un sistema
che privatizza i profitti e socializza le perdite: “L’intervento dello Stato a
favore dei capitali privati, tra l'altro, implica aumenti significativi del
debito pubblico”. Così boccia la visione dello Stato come semplice “ancella”
del capitale privato e non vede in Italia forze politiche capaci di proporre
un'alternativa: “A sinistra del Pd noto ancora molta subalternità culturale ai
vecchi slogan del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di
essi”. Difendere la Costituzione? “Non basta”.
«Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e
socializza le perdite». Con una recente intervista in cui dichiarava che alle
presidenziali francesi non avrebbe votato «né per la
fascista Le Pen né per il liberista Macron» Emiliano Brancaccio
aveva diviso il popolo della sinistra. Ora - a partire dal recente
provvedimento del governo che in una notte ha stanziato ben 5 miliardi per il
salvataggio di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza - l'economista ragiona
sulle contraddizioni del nuovo intervento statale in economia, fatto
soprattutto di compravendite a favore del capitale privato. Il mondo intorno a
noi si trasforma mentre, secondo lui, in Italia la sinistra si attarda in «una
estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici e ripropone schemi
di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo». Autore di pubblicazioni
di rango internazionale in tema di Europa e lavoro, promotore del “monito degli
economisti” pubblicato sul Financial Times, Brancaccio è un
marxista rispettato anche dai suoi antagonisti teorici. Un bel po’ di gotha
della finanza e della politica italiana è venuto ad ascoltarlo pochi giorni
fa a Roma, in un seminario organizzato dalla società Vera e
dal Foglio sul ruolo odierno dell’intervento statale, al quale
partecipavano anche l’ex banchiere centrale Lorenzo Bini Smaghi, il presidente
della Commissione Industria del Senato Massimo Mucchetti e il ministro per la
coesione territoriale Claudio De Vincenti.
Professor Brancaccio, nella sua relazione introduttiva al seminario di Roma
lei ha fornito dati piuttosto sorprendenti sul ritorno dello Stato negli
assetti proprietari del capitale globale...
I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la
recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di
partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura
superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio
antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura
rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all'inizio di una
nuova fase storica.
Quali sono i segni distintivi di questa nuova fase?
Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche
di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale
privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno
minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un
livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali
operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei
valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le
parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati
dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni. Potremmo dire che in questa
fase, più che in passato, lo Stato è “ancella” del capitale privato, nel senso
che asseconda i movimenti speculativi dei grandi proprietari, li soccorre
quando necessario e ne assorbe le perdite. Questo ruolo dell’apparato pubblico
è ormai apertamente riconosciuto ai massimi livelli del capitalismo mondiale,
proprio per garantire la ripresa e la stabilizzazione dei profitti dopo la
“grande recessione” del 2008.
Quali sono le conseguenze di questi continui soccorsi statali a favore del
capitale privato?
Nella grande maggioranza dei casi l’intervento dello Stato a favore dei
capitali privati implica aumenti significativi del debito pubblico. In
prospettiva si tratterà di capire se tali aumenti saranno fronteggiati tramite
nuovi tagli al welfare oppure attraverso una stagione di “repressione
finanziaria”, in cui il debito viene ridotto a colpi di controlli sui capitali
e crescita dei redditi monetari e dell’inflazione rispetto ai tassi
d’interesse. La scelta tra l’una e l’altra opzione sarà un bivio politico
decisivo per i prossimi anni.
Gli economisti liberisti la raccontano diversamente: essi continuano a
sostenere che lo Stato rappresenta una zavorra per il capitale privato…
Poi però si affrettano a invocare il salvataggio pubblico quando qualche banca
privata fallisce, e a ben guardare non si scandalizzano nemmeno quando lo Stato
compra a prezzi alti e poi rivende a prezzi bassi qualche spezzone di capitale
industriale. Il divario fra le loro teorie e le loro ricette si fa sempre più
ampio.
Qualcuno di essi obietterebbe che lo Stato fa bene a soccorrere il capitale
nelle fasi di crisi ma non deve restare a lungo nelle compagini proprietarie,
dato che l’impresa pubblica è comunque meno efficiente di quella privata. Non
trova?
La realtà è diversa. L’impresa pubblica può perseguire obiettivi di carattere
sistemico, che sfuggono alla ristretta logica capitalistica del profitto.
Inoltre, anche adottando criteri di valutazione puramente capitalistici,
l’impresa pubblica si rivela più efficiente di quanto si immagini. Da una
recente ricerca dell’OCSE effettuata sulle prime 2000 aziende della classifica
mondiale di Forbes, si evince che le imprese a partecipazione statale
presentano un rapporto tra utili e ricavi significativamente maggiore rispetto
alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale pressoché uguale.
L’Italia non si discosta molto da queste medie internazionali.
Per l’Italia però si riporta sempre il caso del vecchio IRI, da molti
considerato un “carrozzone” di sprechi. Che ne pensa?
Bisognerebbe ricordare che al momento della sua privatizzazione molti settori
della holding pubblica segnavano ampi attivi, e che nel 1992 le perdite
aggregate dell’IRI non si discostavano molto dalle perdite che all’epoca
registrava la maggior parte dei gruppi privati italiani. Come vede, sono ancora
molti i miti liberisti da sfatare, specialmente in Italia.
In Gran Bretagna il leader laburista Corbyn ha ottenuto un notevole risultato
elettorale con un programma basato su un ritorno dell’intervento statale in
un’ottica non “ancillare” ma di lungo periodo, che prevede pure la
nazionalizzazione delle ferrovie e di altri settori chiave. In Francia
Melenchon ha sfiorato il ballottaggio presidenziale su una lunghezza d’onda
analoga e altri in Europa si muovono nella stessa direzione. Sembra farsi
strada l’idea di un diverso modello di sviluppo, con un ruolo centrale per gli
investimenti pubblici strategici e forti richiami alla partecipazione
democratica alle decisioni. E’ giunto il tempo di una sinistra che intercetta i
cambiamenti del capitalismo e tenta di sfruttarne le contraddizioni?
Tra le macerie del vecchio socialismo filo-liberista qualcosa lentamente si
muove. Ma la nuova concezione dell’intervento pubblico che queste forze
emergenti propongono richiederebbe cambiamenti macroeconomici imponenti, tra
cui una messa in discussione della centralità del mercato azionario e della
connessa libertà dei movimenti di capitale. Mi sembrano propositi molto
ambiziosi per movimenti politici ancora incerti, fragili, ai primissimi vagiti.
Però questi fenomeni politici emergenti sono anche trainati da una nuova
generazione di elettori, costituita da giovani lavoratori e studenti. Mi pare
un punto di forza importante.
Questa è una delle novità più promettenti della fase attuale. I giovani
elettori che istintivamente muovono verso sinistra non esprimono un mero voto
d’opinione. La loro scelta sembra piuttosto la risultante di un profondo
mutamento dei rapporti di produzione, fatto di deregolamentazioni e precarietà,
che negli ultimi anni ha inasprito le disuguaglianze di classe. Questi giovani
sperimentano presto lo sfruttamento, crescono già disillusi e sembrano quindi
vaccinati contro le vecchie favole dell’individualismo liberista. Tuttavia,
organizzare una tale massa di disincantati intorno a un progetto di progresso e
di emancipazione sociale non è un’impresa facile. Nell’attuale deserto politico
e culturale, la loro rabbia può sfociare facilmente a destra.
Lei dunque ci spiega che il capitalismo si muove, si trasforma, e apre nuove
contraddizioni sociali. Nel resto d’Europa, pur con tanti limiti, alcune forze
di sinistra iniziano a cogliere i segni di questo mutamento. E in Italia la
sinistra che fa?
In Italia la sinistra sembra immobile. Una estenuante, ipertrofica discussione
sui contenitori politici che ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla
fosse accaduto nel frattempo. E poi, quando provi ad aprire quelle scatole ti
ritrovi in un limbo, un oscuro mondo in cui nulla è chiaro.
Cosa non la convince del dibattito che si è sviluppato in questi giorni alla
sinistra del Partito democratico?
Ho sentito esponenti politici di vertice affrettarsi a dichiarare la loro
appartenenza alla famiglia liberale e la loro distanza dalle “sirene
neo-stataliste” provenienti dalla Gran Bretagna. Ne ho sentiti altri sostenere
che le elezioni vanno il più possibile rinviate per evitare che i mercati si
“innervosiscano” e lo spread aumenti di nuovo. Ma soprattutto, ho assistito a
un maldestro balletto sui temi cruciali del diritto del lavoro, che dovrebbero
situarsi al vertice di qualsiasi proposta politica di sinistra e intorno ai
quali, invece, prevalgono la confusione e i miopi tatticismi. A sinistra del Pd
noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan del liberismo,
sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di essi.
Un punto di discrimine netto però esiste: sulla scia della vittoria
referendaria del 4 dicembre, molti esponenti della sinistra invocano la difesa
della Costituzione e dei suoi principi di uguaglianza contro i ripetuti
tentativi di rottamarla.
Una difesa che ovviamente condivido, ma che ho sempre considerato
insufficiente. Il modo migliore per tutelare i principi costituzionali della
“Repubblica fondata sul lavoro” consiste nel delineare una proposta di politica
economica coerente con essi. Mi pare che in materia ci sia ancora poco lavoro
collettivo, e ancora molti nodi irrisolti.
Il prossimo numero di Micromega, un almanacco su Europa e Stati
Uniti, pubblicherà i testi di un dibattito tra lei e Romano Prodi che si è
tenuto all’Università di Bologna nel febbraio scorso. In quella occasione l’ex
premier ed ex presidente della Commissione UE ha condiviso apertamente la sua proposta
di introdurre controlli sui movimenti internazionali di capitale. Lo considera
un segnale positivo?
Lo è senz’altro, ma devo ricordare che già da qualche anno capita che persino
il Fondo Monetario Internazionale plachi i propri entusiasmi per le
liberalizzazioni finanziarie e segnali i pericoli di una indiscriminata libertà
di circolazione dei capitali. Il mondo intorno a noi cambia rapidamente, la
politica italiana sembra sempre un po’ in ritardo. Specialmente a sinistra.
(*) http://temi.repubblica.it/micromega-online/brancaccio-%E2%80%9Cil-capitalismo-cambia-la-sinistra-e-in-ritardo%E2%80%9D/.
14/08/2017 23:59:22
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