Il carattere ancipite
della Riforma e del suo iniziatore
Cade in questi giorni il
cinquecentesimo anniversario di quel 31 ottobre 1517, cui la
mitografia protestante, con l’immagine simbolica e non realistica
di un Lutero invasato da Dio che affigge con chiodi e martello le sue
tesi sul portale del duomo di Wittenberg, fa risalire l’inizio
della Riforma luterana, che frantumò l’universalità del
Cristianesimo e dell’Europa e avviò una trasformazione sociale e
politica molto più estesa e profonda di quanto gli stessi
protagonisti di quella stagione avessero immaginato.
Come annota Lucien
Febvre, a margine delle lezioni di un corso tenuto al Collège de
France non casualmente nel fatidico 1944-’45,
“[…] è un tedesco, un
sassone, quel Lutero […], un tedesco del popolo, del popolo
tedesco, insieme così rozzo e così puro, così cantante e così
insultante, così brutale e così musicale, è un tedesco che ha
scatenato nel XVI secolo, su tutto il mondo cristiano d’Occidente
[…] una grande tempesta che ha scosso tutto, che ha raso al suolo
tanti edifici secolari, che ha reso necessaria una così grande
risposta, un così importante rifacimento di tutto l’edificio
cristiano. Germania, forte abbastanza per distruggere. Per uccidere.
Non abbastanza per costruire. O meglio, questa Germania sa
ricostruire solo una cosa. La Germania. E se ha mai sognato, se sogna
l’Europa, essa sogna una sola cosa, è inutile che ce lo dica, lo
sappiamo: la Germania. […] Una Germania tedesca, dominante,
schiacciante, non riunificante.”
Riecheggia in questo
brano lo stesso sconcerto per il funesto carattere ancipite, non
soltanto della Riforma, ma anche e soprattutto di ciò che potremmo
definire il Volkgeist tedesco, con cui Adriano Prosperi apre
la sua recente, illuminante ricostruzione della figura di Lutero,
rammentando emblematicamente come il primo “assaggio” ch’egli,
ancora bambino, ebbe della Germania di Lutero sia consistito nella
visione di “soldati che uccidevano donne e bambini senza batter
ciglio, ma che nella precipitosa ritirata della sconfitta lasciavano
dietro di sé volumi di opere di Goethe e una gigantesca Bibbia
ottocentesca in caratteri gotici e annotata dalle generazioni di una
famiglia”.
Quella dualità quasi schizofrenica sembra, dunque, radicarsi nella
duplicità di chi è da molti storici indicato come “il fondatore
della patria tedesca”, il Lutero della libertà del credente, ma
della servitù del suddito, che nell’ambito politico esalta
l’obbedienza all’autorità a discapito dello spirito critico e
ribelle e, mentre cancella la gerarchia tra sacerdote e fedele e
afferma la libertà di coscienza, asserisce essere giustizia divina
il massacrare i contadini rivoltosi.
E in effetti è la figura
dell’amphibolia, dell’ambiguità e dell’ambivalenza, la
chiave di lettura più pertinente, per comprendere le luci e le ombre
che, dall’ottobre di cinquecento anni fa, ancora si proiettano sul
nostro presente, se è vero, come è vero, ciò che, a un mese dalla
sconfitta tedesca e dalla morte di Hitler, Thomas Mann richiamava nel
discorso tenuto nella Library of Congress di Washington, in occasione
del suo settantesimo compleanno, vale a dire il nesso inscindibile
tra Chiesa luterana, nazismo e Tedeschi.
Ed è lo stesso Thomas Mann a tratteggiare con cartesiana clarità
l’interdipendenza tra reazione e progresso peculiare della Riforma
di Lutero, allorché afferma:
“Essa fu indubbiamente
progresso e liberazione – la forma tedesca della rivoluzione,
precorritrice di quella francese – ma fu anche una ricaduta nel
pieno Medioevo e una quasi mortale brinata sulla timida primavera
spirituale del Rinascimento; una mistura dell’uno e dell’altro,
una fusione di vita, di azione, di personalità che è impossibile
valutare con i puri criteri dello spirito.”
Né il grande scrittore
tedesco mostra la benché minima simpatia per Lutero, sebbene egli lo
ponga, insieme a Goethe e a Bismark, tra i tre “colossi”, le tre
“figure monumentali” della Germania, accomunate da “un’aria
di famiglia” e che si ergono, come cime di “opprimente possanza”,
sopra la mediocrità del popolo tedesco.
Lutero gli pare “una roccia e un destino, una violenta, selvaggia e
tuttavia profondamente spirituale e intima esplosione della natura
tedesca, un individuo massiccio e delicato insieme, impetuoso e
irruento, pieno dell’energia primigenia di un popolo contadino […]
non soltanto antiromano, ma antieuropeo, furiosamente nazionalista e
antisemita, e insieme profondamente musicale, anche in veste di
plasmatore della lingua tedesca”,
e al tempo stesso contraddistinto da “elementi linguistici
rudemente popolareschi”
e da aspetti rozzamente mitici e popolani, intriso di impetuosità,
furbizia ed energia contadinesche,
in sostanza un uomo superstizioso, sbalzato dal Rinascimento - il cui
umanesimo gli era totalmente estraneo - al Medioevo.
Riforma e
Rinascimento: un confronto per comprendere la modernità
Se un tempo la Riforma
era intesa come parte fondamentale della civiltà del Rinascimento,
come affermava Burckhardt, a partire dal primo Novecento sono molti
gli storici che, al pari di Mann, individuano una divergenza, sia
pure di diverso grado, tra tali fenomeni culturali e storico-sociali.
Identificare la distanza, breve o profonda, che li separa significa
accedere ai tratti peculiari della modernità, prescindendo dal mito
che lungamente l’ha concepita come età aurea della libertà,
dell’ottimismo attivistico, dell’autodeterminazione
dell’individuo e del sorgere della razionalità, che sarebbero
peculiari dell’Occidente.
Basti dunque qui
accennare al severo giudizio di Troelsch, che oppone radicalmente
alla devozione severa, al puritanesimo e all’impeto della Riforma
l’ottimismo estetizzante del Rinascimento, o la valutazione di
Thomas Mann, che contrappone la pacifica cultura, la finezza
letteraria, l’urbanità e l’intellettualismo in una certa misura
esangui di Erasmo alla possanza plebea e demoniaca di Lutero, al suo
impeto contadinesco.
Anche Prosperi tende a distinguere nettamente gli intellettuali
eruditi rinascimentali, come Valla, o Erasmo, impegnati nella esegesi
biblica e nella ricerca filologica del testo originario - assunto
come opera storica e quindi umana - da Lutero, per il quale il testo
sacro è la parola di Dio resa accessibile agli uomini e che
coinvolge tutta la vita del credente, sia nel suo tempo carnale,
terreno, sia nell’eternità.
Ma, a ben vedere, sembra
in realtà più feconda la concezione di Huizinga, per il quale la
maggiore differenza tra Riforma e Rinascimento consiste nel carattere
“schiettamente popolare” della prima di contro allo “esclusivismo
cortese o erudito, talvolta snobistico” del secondo,
ma entrambi appartengono più al Medioevo che all’età moderna,
giacché il Rinascimento, non meno della Riforma, gli pare una
civiltà fondata sull’autorità – il culto degli Antichi - e
sulla normatività – la ricerca di norme generali di bellezza, di
verità, di governo dello Stato e di virtù. Huizinga adotta la
metafora del Rinascimento come un “cambiamento di marea”, un
passaggio dal Medioevo all’età moderna non come svolta, bensì
“come una lunga serie di onde che vengono a frangersi sulla
spiaggia: ciascuna si frange a una distanza diversa e in un momento
diverso”,
cosicché la linea di separazione tra vecchio e nuovo appare mobile
e parziale in ogni suo punto. Vedremo come tale rappresentazione
consenta di individuare alle radici della modernità, dunque sia
nella Riforma, sia nel Rinascimento, alcuni tratti distintivi che
perdurano ancora oggi.
I caratteri principali
della Riforma: le luci e le ombre
Come afferma Prosperi,
Lutero ha provocato un grande e irreversibile mutamento duplice del
mondo “nelle cose e nelle menti”, lasciando ai secoli successivi
un persistente lascito di idee.
Nell’età della grande rivoluzione geografica, della rivoluzione di
Gutenberg, della rivoluzione cosmologica e dell’apice di quella che
Prosperi definisce la “rivoluzione pontificia” - che ingloba la
religione nella politica e culmina nella rivendicazione del massimo
potere spirituale e temporale del papa, contro le tendenze
conciliaristiche del secolo precedente e le diffuse contestazioni
alla Chiesa come istituzione -, in nome dell’aspirazione a un
rinnovamento spirituale della Chiesa, il monaco agostiniano Martin
Luder (poi modificato in Luther, da Eleutherius, libero in Dio,
liberato da Cristo, com’egli volle chiamarsi, per sottolineare il
nuovo modo di sentirsi cristiano)
si fece interprete e propagatore dell’istanza di una emendazione
della Chiesa dai lussi, dalla mondanità, dall’edonismo e
dall’avidità che la contraddistinguevano e introdusse una nuovo
quadro valoriale morale, fondato sull’autenticità e il rigore, che
restituì senso alla spiritualità cristiana in Germania. Secondo
numerosi storici,
sotto la sferza della Riforma, lo stesso Cattolicesimo trasse, dalla
controversia con Lutero, la forza per un ormai ineludibile
rinnovamento spirituale, di cui molti avvertivano da molto tempo e
con urgenza l’esigenza; e assistette al ritorno di una più
autentica religiosità, fondata sui valori evangelici.
Inoltre, la teologia
luterana infranse il principio di autorità, rivendicando il
sacerdozio universale e la libertà di interpretazione delle
Scritture da parte di ogni credente, attuò il passaggio da una
religiosità orale a una fede fondata sulla lettura dei testi sacri,
propugnò una religione non più ridotta a pratiche e rituali
esteriori, finalizzate soprattutto al controllo sociale, bensì come
inesausto e drammatico scrutinio interiore; e concepì la verità
cristiana come messaggio che il predicatore ha il dovere primigenio
di rivolgere ai semplici e agli illetterati e non a una élite
di eruditi e di teologi. Da tale istanza, scaturì la scelta di una
Sacra Scrittura in volgare, accessibile a tutti i fedeli e, insieme
a essa, nacque il Lutero fondatore della lingua e della letteratura
tedesca.
Nei decenni successivi al
1517, come ricorda John Witte,
i riformatori luterani avviarono nel centro e nel nord dell’Europa
il processo di secolarizzazione e di laicizzazione dello Stato: il
diritto canonico fu sostituito dal diritto civile, nacquero i primi
sistemi di Welfare delle chiese riformate e poi dello Stato,
l’educazione, prima affidata alle scuole delle cattedrali e dei
monasteri, fu rimpiazzata da un sistema educativo nel quale, sulla
scorta delle concezioni di Filippo Melantone, la scuola divenne
pubblica e finalizzata all’educazione civile dei cittadini.
E, ancora, la Riforma
concepì un nuovo diritto matrimoniale, che comprendeva la
possibilità del divorzio e riconobbe alle donne un ampio spazio in
ambito religioso, sia pure con cautissime e pressoché irrilevanti
aperture sul piano del ruolo sociale e dei diritti civili e
politici,
come dimostra la figura della monaca divenuta moglie di Lutero,
quella Katharina von Bora che ebbe un ruolo attivo nella predicazione
e nel rinnovamento cultuale della sua città.
A fondamento di tali
trasformazioni, si poneva il nuovo principio della libertà di
coscienza (che è parso a molti storici l’idea centrale e più
moderna del luteranesimo), intorno al quale si costituì la nuova
religiosità del Cristianesimo riformato, estranea al governo esogeno
dell’interiorità del fedele e alla scienza morale dei peccati e
della “penitenza tariffata” delle indulgenze; e raccolta, invece,
nella sofferente, angosciosa consapevolezza dell’invalicabile
distanza che separa l’uomo peccatore dal Deus absconditus.
Ne discese quella nuova concezione della vita mondana, intesa come
manifestazione della fede interiore, che, già presente in Lutero, si
sviluppò poi nel Cristianesimo riformato del Calvinismo e delle
numerose sette protestanti, contraddistinte da attivismo, apertura
alla nuova scienza, rigore morale, impegno nel lavoro, spirito
intraprendente.
Tuttavia, se è pur vero,
come afferma Mann,
che, senza tale principio e senza la scuola di introspezione del
cristianesimo riformato, non sarebbe stato possibile un romanzo come
il Werther goethiano e se è indubbio che la concezione della
coscienza come sede di conflitti, di angosce e di sofferenze verso se
stessi costituisce un elemento di sorprendente modernità, è
altrettanto certo che il cupo pessimismo antropologico luterano,
legato alla visione paolina e agostiniana dell’Io, intendeva la
coscienza individuale come perennemente intrisa di male, viziata
dall’amor di sé, vocata all’errore e inerme dinanzi al peccato,
scissa tra l’idea razionale del bene e il premere di istinti ed
emozioni, che corrompono anche le opere buone, se non sono sorrette
dalla fede. Ed è in effetti la nozione di efficacia della fede ciò
cui pervenne Lutero, più che la nozione di libertà di coscienza,
così come la intende la modernità. Come osserva Prosperi, Lutero
liberava sì il cristiano dalla soggezione al controllo della
coscienza da parte dell’autorità ecclesiastica, ma non per
affidarlo a se stesso, bensì per renderlo libero soltanto in virtù
di Dio e della concessione della sua Grazia per sola fede. Né pare
del tutto persuasivo il giudizio univocamente elogiativo di Franco
Ferrarotti,
che riconosce alla nozione luterana di fede il merito di aver aperto
la via allo sviluppo dell’idea della più ampia libertà del
credente, che sarebbe, secondo il sociologo, anche libertà di
dubitare. In realtà, per il teologo tedesco, come per il suo
principale riferimento, Agostino di Ippona, la libertà di dubitare
di Dio non è libertà, così come non è libertà il poter peccare,
giacché la via della salvezza è nell’affidamento compiuto a Dio
e, dunque, nella fede. Non vi è scelta di indifferenza tra peccato e
ben operare: questo è il senso della giustificazione per sola fede
peculiare del Cristianesimo luterano. E’ evidente come tutto ciò
conduca alla negazione del libero arbitrio, al disconoscimento di una
moralità naturale dell’essere umano e quindi di una equivalenza
tra gli uomini indipendente dalla fede che professano, alla
concezione della giustizia come univocamente passiva, cioè concessa
da Dio e non costruita dal credente, anzi opposta e incomprensibile
per la giustizia umana e alla identificazione dell’umanità come
massa di dannati, afflitta dal terrore del peccato, della morte e del
giudizio divino, secondo una teratologia che ha perduto i caratteri
ludici medievali, per approdare a una esperienza religiosa e a una
visione del mondo umano sofferenti e terrorizzanti. Nota Prosperi “la
soluzione luterana introduce a un’idea della natura umana che non
potrebbe essere più refrattaria alla celebrazione umanistica della
dignità dell’uomo”
e, nel contempo, si contrappone alla nozione di Dio come amore,
peculiare non soltanto dell’Umanesimo e Rinascimento italiano, come
Prosperi rammenta, ma - aggiungiamo noi - anche dello stesso
Agostino, che nella figura trinitaria del Divino identifica Dio non
soltanto come Essere e Intelligenza, ma anche, appunto, come Amore.
Un secondo elemento
problematico, connesso strettamente alla nozione di libertà di
coscienza del credente, è la polarità che nella teologia luterana
si instaura tra la libertà del credente e la schiavitù del suddito,
sulla base della dicotomia agostiniana tra uomo spirituale, nuovo,
interiore e libero, appartenente alla città celeste e uomo carnale,
vecchio, esteriore e schiavo, appartenente alla città terrena. Ora,
se l’uomo spirituale è libero e su di lui nulla può la potestà
dei principi (e, dunque, se la libertà sussiste in interiore
homine, come affermava Agostino), l’uomo carnale è al
contrario sottoposto all’autorità costituita, giacché, come
scrisse Melantone, estremizzando il concetto teologico del magistrato
padre della comunità, “il magistrato è il custode della prima e
della seconda tavola della legge per tutto quanto riguarda le
esteriori regole di condotta; deve cioè impedire ogni crimine
visibile, punire i colpevoli e fornire il buon esempio”.
In altri termini, il luteranesimo respinge ogni tentazione
ribellistica e più ancora rivoluzionaria e, nel concepire la tesi
della “doppia giustizia”- quella divina cui si affida
passivamente il credente e quella umana, che discende dalla prima, ma
è circoscritta ai comportamenti esteriori, visibili, carnali e non
coincide con la fede in Cristo -, finisce con l’espungere ogni
possibilità di pensiero critico nei confronti del potere e ogni
azione politica, che non sia la soppressione di ciò che impedisce la
predicazione della verità della fede. In ciò la Riforma si situa
certamente al di fuori del pensiero politico moderno e del suo
riconoscimento del valore della legge positiva nell’ambito dello
Stato sovrano e dello Stato di diritto, fondato sul consenso dei
cittadini; e mostra il suo carattere fortemente reazionario,
esplicitato in modo quanto mai lampante nel linguaggio feroce e
impietoso di Lutero dinanzi alla guerra contadina: i contadini
“infidi, spergiuri, ribelli, sediziosi ed assassini, predoni e
bestemmiatori” sono per Lutero perduti “anima e corpo” e in
eterno “preda del demonio”, addirittura “creature del demonio”,
associati in “bande diaboliche”; di conseguenza, egli invoca su
di loro la spada dell’autorità secolare, affermando “ferisca,
scanni, strangoli chi lo può”.
Qui si coniugano l’invettiva religiosa, la condanna morale e il
progetto politico del mantenimento ferreo dell’ordine sociale,
fondato sull’obbedienza del suddito, senza la quale per Lutero ogni
autorità è distrutta e il mondo ridotto a un mucchio di rovine.
Così come è evidente l’implicita concezione della giustizia
secolare come rispecchiamento della giustizia divina anche nella
scelta della sanzione nei confronti del sovvertitore dell’ordine
costituito: come il Dio luterano è incomprensibile mediante le
categorie logiche umane e il castigo ch’egli commina al peccatore è
terribile e angosciante, così la punizione riservata in Terra al reo
è crudele e impietosa. La responsabilità dell’uomo secolare
corrisponde alla responsabilità del credente, l’uno vincolato
all’obbedienza nei confronti del potere terreno e dell’ordine
sociale, l’altro vincolato dalla fede ed entrambi posti dinanzi a
una giustizia che non riconosce altro che l’abbandono totale al
signore della Terra e al Signore del Cielo.
Un’ulteriore bipolarità
della Riforma è costituita dalla sua radicale svalutazione della
cultura secolare e dal suo sfondo anti-intellettualistico. Anzitutto
infatti, nella teologia luterana, l’uomo giusto è colui che
rinuncia alla giustizia e alla sapienza umane, per lasciare risorgere
in lui la giustizia e la sapienza divine; mentre la volontà carnale
si dirige verso ciò che è corrotto e costituisce una non-sapienza
terrena, che conduce alla partecipazione al delitto che uccide
Cristo. In secondo luogo, sebbene sia vero che nel Cinquecento
europeo la diffusione della stampa consolidò la distinzione tra il
dotto e l’incolto, è ugualmente vero che, almeno in prospettiva,
la nozione luterana di sacerdozio universale e di libertà di
coscienza nella interpretazione delle Scritture finiva con il
frantumare la gerarchia tra chi sa e chi non sa e costruiva
un’orizzontalità del sapere che, nel momento stesso in cui
diveniva democraticamente esteso a tutti i credenti, rischiava di
perdere in profondità e in competenza.
E, ancora, come si è già
detto, certamente Lutero si situa all’origine del nazionalismo
germanico, non soltanto per la scelta di scrivere in Tedesco la
maggior parte delle sue opere e di tradurre in volgare la Bibbia, ma
anche e soprattutto per la sua esplicita autorappresentazione
identitaria. Quando scriveva “Germanis meis natus sum, quibus et
serviam” – “Sono nato per i miei Tedeschi e costoro
servirò” – egli affermava un’orgogliosa appartenenza nazionale
esclusiva, che, sulla scorta del De Germania di Tacito, si
permeava apertamente di rancoroso sciovinismo, sia nell’identificare
la Germania come il Settentrione del rigore e della purezza,
contrapposto alla corruzione, all’ingordigia, all’edonismo del
Meridione cattolico, sia nel rivendicare la presenza anche nel Nord
di persone dotte e non soltanto di sempliciotti, come il complesso di
inferiorità nei confronti degli eruditi italiani (“romani”) gli
faceva reclamare.
Discendeva anche da ciò
uno dei tratti della Riforma già implicato in modo consequenziale
dalla nozione luterana di peccato e di fede, vale a dire l’ossessione
per la purezza, che condusse soprattutto l’ultimo Lutero verso un
feroce antisemitismo e un generico antiumanesimo nei confronti di
tutti i non battezzati in Cristo e, infine, di tutti i “papisti”.
Infine, la Riforma, come
il cattolicesimo, contribuì a elidere dai paradigmi della cultura
occidentale una serie di modelli culturali alternativi (movimenti
religiosi ereticali, movimenti politici radicali, culture pagane ed
esoteriche, culture tradizionali e saperi femminili, alchimia,
astrologia, magia, rinascimentale, “stregoneria” e,
successivamente, cultura rosacrociana)
ancora presenti nell’Occidente medievale, ma, all’alba della
modernità, relegati nell’ambito della superstizione e/o del
paganesimo e spesso cancellati mediante l’uso sistematico della
violenza. In proposito è peraltro particolarmente significativa la
“caccia alle streghe”, che soprattutto nella Germania riformata
assunse forme istericamente enfatiche e dimensioni smisurate,
estranee all’Inquisizione cattolica coeva, che garantiva una serie
di diritti dell’imputato, dalla possibilità di conoscere le
imputazioni che gli erano rivolte, alla possibilità di difendersi,
anche mediante l’aiuto di un giureconsulto.
In sintesi, nell’Occidente luterano, ancor più che nell’area
cattolica, si finì con il privilegiare la disciplina, a scapito di
tutte le componenti anticonformistiche e dissidenti.
I lasciti della
Riforma nell’età moderna e contemporanea
I caratteri ancipiti sia
della Riforma, sia del Rinascimento italiano, con le loro reciproche
differenze e analogie, si situano alla radice della modernità e ne
incidono l’analoga duplicità del volto: razionalità e
irrazionalità, libertà e sudditanza, umanesimo e antiumanesimo,
riconoscimento e limitazione dei diritti dell’uomo, democrazia e
oligarchia, universalismo e particolarismi, fratellanza e razzismo.
Ed è da tale duplicità che si proiettano fino a noi le luci e le
ombre della Riforma protestante. Si tratta appunto di nulla più che
una proiezione, una sorta di ascendente che colora i tratti della
contemporaneità, senza esserne affatto l’unica radice e men che
meno l’unica causa. Ma se ci soffermiamo a riflettere sui contenuti
del luteranesimo, del calvinismo e del puritanesimo, riconosciamo una
sorta di aria di famiglia che quei contenuti accomuna a taluni
aspetti peculiari del XX e del nostro ormai XXI secolo.
Iniziamo dunque col dire
che il percorso della nozione di libertà di coscienza è stato
lungo, in parte deviante rispetto alla concezione luterana e al suo
cupo pessimismo e, proprio per questa ragione, fecondo di frutti,
giacché si è intersecato con l’umanesimo peculiare del
Rinascimento italiano, senza soggiacere al principio di autorità del
cattolicesimo e ha finito con il riconoscere non soltanto la dignità
dell’uomo secolare, quindi del bourgeois, per dirla con
Rousseau, ma anche del citoyen, dipanandosi infine – in modo
contraddittorio rispetto a ciò che Lutero riteneva - nel
Giusnaturalismo moderno e nel riconoscimento dei diritti naturali
dell’individuo, a partire giustappunto dal diritto alla libertà,
sia nella sfera privata, sia in quella pubblica.
Anche la concezione
negativa dell’uomo peccatore e della coscienza come istanza
dilaniata dall’angoscia del male, del peccato, della colpa, della
morte e del giudizio divino, che non può trovare riscatto nelle
“opere buone”, ma soltanto nella fede, si è declinata in un
lungo e durevole sviluppo, attraverso i secoli della modernità e
della contemporaneità, sino a permeare di sé la Weltanschauung
occidentale, come appare nella pittura del Novecento, nel romanzo
psicologico ottocentesco (Dostoevskij in primo luogo), nella
letteratura di lingua tedesca novecentesca e, in una certa misura
nella narrativa esistenzialista, nonché nella cinematografia europea
tra gli anni Venti e gli anni Settanta del Novecento (Si pensi in
proposito a Dreyer, Bergman, Antonioni e Visconti) e nella teoria
filosofica della dissoluzione dell’Io soprattutto in Nietzsche. Se
infatti già nell’opposizione tra imperativo categorico e volontà
sensibile del pietista Kant riecheggia la scissione luterana della
coscienza tra la volontà che desidera obbedire a Dio e la volontà
carnale, che si dirige verso ciò che è terreno e sensibile, ancor
maggiormente - con la sua concezione dell’oblio del motivo
originario dell’azione virtuosa e il richiamo alla perenne ricerca
di rassicurazione o di piacere in cui si radicano i valori morali -
la genealogia della morale nietzscheana ripropone il sospetto di
Lutero nei confronti del movente egoistico del buon agire. In ultima
analisi potremmo dire che la cupa teologia luterana, con la sua
negazione della giustificazione mediante le opere e il suo pessimismo
antropologico e soteriologico sembra sfociare in ultimo nel grande
filone del Nichilismo, quando il processo di secolarizzazione
cancella dall’orizzonte dell’uomo occidentale la divinità e
dunque estingue l’unica fonte della salvezza e della certezza
umana, secondo la dottrina della giustificazione per sola fede.
Non pare persuasiva,
invece, la tesi di coloro che hanno voluto leggere nel luteranesimo
la fonte originaria e diretta del nazismo e dell’antisemitismo che
ha prodotto la tragedia della Shoah, non soltanto per l’ovvia
ragione che Hitler era un Austriaco e proveniva, dunque, da un’area
di cultura cattolica (e non casualmente, in conflitto con l’ala
volkisch del partito, ammirava in modo sconfinato la
classicità greco-romana e la cultura rinascimentale italiana),
ma anche perché, come ha dimostrato George Mosse, nonostante Lutero
sia stato esaltato da taluni ambienti nazionalsocialisti e utilizzato
nella propaganda soprattutto del partito berlinese, l’antisemitismo
era ben presente nel cattolicesimo già
a partire dall’età medievale e non può dunque essere considerato
come una conseguenza dell’antisemitismo del padre della Riforma.
Certamente, comunque, come recita un proverbio inglese, “i peccati
hanno le ombre lunghe” e il nazionalismo sciovinista di Lutero,
insieme all’identificazione fichtiana del popolo tedesco quale
Urvolk, investito della missione di diffondere verità e
sapere, in qualche misura rientra alla base dell’orizzonte
ideologico della cultura volkisch tedesca, che tra Ottocento
e inizio Novecento, elabora la tesi di una specifica purezza del
Tedesco, uomo della foresta, libero e, come gli alberi tra cui vive,
ben radicato nella sua terra, parte di una comunità di sangue che è
anche comunità spirituale e contrapposto all’Ebreo, uomo del
deserto, sradicato, apolide, sedizioso e invidioso, che mira al
disfacimento dell’ordine costituito e della libertà della
Germania.
Del resto,
quell’ossessione della purezza che abbiamo visto implicata per
antitesi e contrappasso dalla concezione luterana della
inestinguibilità del male e della corruzione del peccato che macchia
ogni uomo ed è inemendabile dalle sole forze umane, certamente è
una premessa morale che in qualche misura si coniuga con la nozione
della cogenza di una punizione crudele e impietosa del peccatore e
del reo e si declina poi politicamente nella scelta nazista di
praticare l’eutanasia di massa su disabili, malati di mente e
delinquenti abituali, senza alcun sentimento di umana compassione,
nonché successivamente nella distopia di una comunità ariana pura,
cui sacrificare Ebrei, Slavi, Rom, secondo un progetto che non
suscitò l’indignazione del popolo tedesco e, per essere sinceri
neppure delle Chiese protestanti, se non in casi individuali isolati.
Né possiamo dimenticare che il rogo del Corpus iuris canonici,
della Summa angelica e degli scritti dei maggiori oppositori
di Lutero, attuato dagli studenti e dai docenti dell’Università di
Wittenberg e dallo stesso Lutero il 10 dicembre 1520, sebbene
riconducibile a pratiche usuali nelle feste popolari dei folli che
era tradizione celebrare durante le festività natalizie, suscita
oggi l’inquietante l’immagine dei tanti roghi di libri con cui il
regime nazista festeggiò i successi elettorali del 1933.
Potremmo anche avanzare
l’ipotesi che la visione luterana della responsabilità del singolo
e della natura peccaminosa dell’uomo sia lo sfondo contro cui si
stagliano due tratti fondamentali della giustizia e della
giurisprudenza dei Paesi a maggioranza protestante, fondate su una
concezione eminentemente e univocamente retributiva: la tutela
preminente delle vittime e non dei rei, che giunge in alcuni Stati
americani a prevedere la presenza delle famiglie all’esecuzione
dell’assassino di un loro congiunto; e la mancata considerazione
del contesto di deprivazione sociale, economica e/o culturale in cui
maturano personalità considerate socialmente devianti, una
svalutazione che induce al rifiuto di ogni assistenzialismo e
all’identificazione di un merito univocamente individuale, che si
pretende erompente da salda volontà e da energico rigore,
indipendentemente dalle condizioni di vita differenti in cui ciascuno
è immerso – incolpevolmente - fin dalla nascita. In ciò emerge
con chiarezza la distanza dalla Weltanschauung cattolica, che
fonda sull’accoglienza dello sconfitto, del colpevole e del reietto
un proprio umanesimo solidale e consapevole del fatto che l’uomo è
soggetto al cambiamento e al miglioramento e il merito non è innato
o indipendente dal contesto, ma è edificabile, anche mediante
compensazioni delle svantaggiate condizioni di partenza
dell’individuo. D’altra parte, per riequilibrare il giudizio
riguardante tali differenti visioni etico-sociali, possiamo ammettere
che non è forse casuale il fatto che la nuova politica della
sinistra riformista di area protestante vada elaborando in questi
anni il progetto di una transizione dal Welfare al Workfare,
vale a dire dalla redistribuzione dei redditi alla redistribuzione
del lavoro, mentre la sinistra italiana oscilla perennemente tra
l’assistenzialismo erogato a pioggia ai ceti più deprivati e la
mera progressiva erosione dei diritti del lavoro a chi il lavoro lo
ha.
E, ancora, un po’
maliziosamente potremmo identificare nel martellante archetipo, caro
al governo tedesco, di un Nord-Europa virtuoso, alacre, operoso,
dinamico e rigoroso nei conti e di una Europa mediterranea corrotta,
spendacciona, epicurea e oziosa, ancora il paradigma utilizzato da
Lutero nella contrapposizione tra Germania riformata e Italia
rinascimentale.
Anche l’ideal-tipo del
buon Prussiano, dedito al lavoro, disciplinato e obbediente fino
all’ottundimento del proprio senso morale certamente trova una
qualche corrispondenza nella tesi luterana della libertà del
credente e della schiavitù del suddito, peraltro ripresa in certa
misura anche in quel peraltro magnifico manifesto dell’Illuminismo
– l’articolo del 1784 Che cosa è l’Illuminismo- nel
quale Kant pone, con accenti lirici e severi a un tempo, l’istanza
della liberazione e dell’autonomia della coscienza, dell’uscita
dallo stato di minorità dell’individuo, dell’emancipazione dalla
soggezione a chi pretende di pensare per noi, ma riserva una
scrupolosa obbedienza ai contenuti del ruolo lavorativo e civile. Vi
è nel prussiano Kant, come nel sassone Lutero, il senso
dell’obbedienza ai vincoli del ruolo sociale e politico, che negli
anni bui del nazismo si ritradusse nella passività dei soldati
mandati a morte certa, nel silenzio dei civili rimasti a casa, nella
collaborazione di tanti buoni Tedeschi, pronti a denunciare con
lettere tranquillamente sottoscritte i vicini israeliti o dissidenti,
nella partecipazione di mille piccoli e medi funzionari alla tragedia
della Shoah. In realtà, forse, quella che a Hannah Arendt è parsa
“la banalità del male” non è altro che il risultato di una
Weltanschauung e di una civiltà che dalla Riforma luterana in
poi hanno postulato la sudditanza civile, quindi esteriore, del
Tedesco all’autorità costituita e hanno mostrato non soltanto
l’inefficacia delle opere buone, ma anche la condizione di dannato,
immeritevole di pietà e di aiuto umano, che colpisce l’uomo
diverso, colui che non ha fede (dunque, per traslazione, che non ha
la stessa fede).
Discorso più complesso è
quello riguardante la nuova nozione di sapere che emerge con la
Riforma e che intercetta, contemporaneamente alla sua elaborazione,
le potenzialità dell’allora recente invenzione della stampa a
caratteri mobili. Certamente, come già detto, la diffusione degli
scritti di Lutero, la sua propensione alla predicazione della verità
rivolta soprattutto agli illetterati, l’importanza che la Riforma
–soprattutto ad opera di Filippo Melantone - annesse all’educazione
del popolo, l’impulso che la nozione di libertà della coscienza e
di sacerdozio universale diede all’alfabetizzazione delle masse
popolari nelle aree protestanti, rappresentano altrettanti risultati
di grande innovazione e democratizzazione del sapere, che sono
mancati all’Italia cattolica negli anni cruciali della formazione
dello Stato unitario e della democratizzazione e nazionalizzazione
delle masse. E tuttavia quel modello di orizzontalità del sapere e
di libertà ermeneutica, unito alla personalità popolana di Lutero,
al suo rifiuto della cultura dotta e della filosofia e al suo
anti-intellettualismo, implicavano già in nuce tratti
problematici, che riscontriamo oggi nell’equivalenza delle opinioni
cui ha condotto la rivoluzione informatica, con la costruzione di un
universo magmatico nel quale le informazioni esperte sono
indistinguibili da quelle inesatte, equivocate o corrotte. In tal
senso, emerge l’ambiguità della cultura di massa, che è a un
tempo estesa a tutti in superficie e negata a tutti o a quasi tutti
in profondità e che anzi, più si estende, meno si approfondisce.
Infine, forse possiamo
rintracciare ancora lacerti del grande scisma luterano e della
traumatica scissione dell’universalità cristiana occidentale, che
condussero a lungo ad atroci guerre di religione, sanguinose e
terribili come soltanto le guerre di religione possono essere, sia la
radice del paradigma amico-nemico che Carl Schmitt applica all’agire
politico, sia quella ideologia controversistica, scaturita
nell’ambito della Controriforma, costituita da insulto personale e
radicalizzazione delle divergenze, che rammenta in modo notevole le
pratiche volgari e immiserenti della politica attuale in Italia.
Ma ciò che maggiormente
preme sottolineare, in conclusione, è che la riforma morale luterana
e la riforma che anche la Chiesa cattolica seppe costruire in
conseguenza della traumatica scissione della Cristianità alle soglie
dell’età moderna paiono oggi largamente illanguidite in ogni parte
dell’Occidente - a Nord e a Sud delle Alpi, a Est e a Ovest del
Reno -, che ha perduto se stesso e pare ormai declinare in quel
tramonto finale paventato da Spengler e implicito nel suo stesso
nome, Occidente, appunto, Abendland, “Terra della sera”.
Tramontate le grandi ideologie della modernità, ridotte a mere
narrazioni, a miti buoni per raccontar favole ai bambini, congedati i
riferimenti spirituali e filosofici del passato, stravolti i quadri
valoriali fondati su principi un tempo concepiti come universali e
oggi incerti e opinati, tradite le speranze nelle magnifiche sorti e
progressive dell’umanità, forse, come direbbe Mann, venuta meno
l’energia spirituale attiva e dinamica dell’Europa, l’oggi ci
sprofonda nell’eterno precipitare, privo di punti di riferimento,
dell’infinito nulla di nietzscheana memoria. L’unica speranza,
dunque, pare essere una nuova, imminente riforma spirituale
dell’Occidente, senza la quale sarà l’Islam reazionario ad
assumere il ruolo di unica alternativa a edonismo, consumismo,
individualismo e concorrenza spietata che costituiscono oggi il solo
orizzonte della nostra parte del mondo e forse del mondo intero.
[in “Appunti
Alessandrini”, 29 /10/ 2017]
Febvre, Lucien, L’Europa. Storia di una civiltà,
Feltrinelli, Milano, 2014, pag. 302
Mosse, George, Il razzismo in Europa dalle origini all’olocausto,
Laterza, Roma-Bari, 1985