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Comune e attualità alessandrina
6 novembre 1994
Giancarlo Patrucco
In questo giorno Alessandria rammemora la tragedia che si è abbattuta sulla città con lo straripamento del Tanaro. Sempre in prossimità di questo giorno, i media locali riportano le ricorrenti dispute sullo stato delle opere di prevenzione al momento. Dispute e analisi opportune perché nessuno distolga lo sguardo da quel che è stato e potrebbe essere di nuovo.

 

Lascio tutto ciò a chi è meglio informato di me al riguardo, ma ne condivido le preoccupazioni e le apprensioni. Così, come mi riesce, voglio dare il mio contributo cercando di descrivere quella giornata da parte di chi l’ha vissuta in prima persona come residente nella zona Palazzetto-Piscina comunale. Sono passati 23 anni da allora, eppure quei momenti sono ancora vivi nella mia mente e chissà che possano servire da riferimento per i nuovi alessandrini.

 

Dunque, vediamo.

Dico subito che, tra quel sabato 5 novembre e quella domenica 6 novembre, in città non si vedeva grande preoccupazione. Secondo dati storici, l’ultimo straripamento era avvenuto con la Bormida nell’ottobre del ’77 e, per risalire al Tanaro, occorreva andare al febbraio del ’74. Non ne ho memoria, ma credo che nessuno dei due abbia granché coinvolto la mia zona.

Io, poi, ero tranquillissimo (e me ne faccio una colpa ancora adesso). Come tutte le domeniche impigrivo a letto. Da animale notturno, mi piaceva poltrire un po’ quando ne avevo l’occasione, così mi crogiolavo finché non arrivò mio padre a scuotermi. Stava in via Donatello, a pochi passi da me in via Ferraris, e appariva un po’ preoccupato. La notizia non era tranquillizzante: secondo lui, Tanaro era troppo alto e bisognava mettere al sicuro le macchine.

 

Sul momento non mi misi troppo in ansia; mio padre era spesso preoccupato. Così mi alzai, mi lavai, mi vestii, feci colazione e uscii, facendo qualche passo per inquadrare meglio il fiume e il ponte Cittadella. Rimasi allibito, come altra gente che si soffermava pensosa. Poi scattai. Feci le scale di corsa, chiamai mia moglie, le spiegai brevemente, le dissi di prendere le chiavi delle macchine e di seguirmi. Anche allora, comunque, la mia preoccupazione era ferma alle auto in sosta nel garage seminterrato. Non pensavo ancora a quel che sarebbe successo subito dopo e alla notte difficile che mi aspettava.

 

Facemmo appena in tempo. Eravamo giusto fuorusciti dal cancello dei garage, lei davanti e io dietro, quando immettendomi in via Ferraris scorsi con la coda dell’occhio della spuma biancastra che usciva da dietro il palazzetto e traboccava per via. Suonai il clacson, feci segno a mia moglie di seguirmi e mi lanciai a rotta di collo lungo la via, verso il muretto della stazione. Ero nato da quelle parti e andai da quella parte perché dentro di me “sapevo” che la strada risaliva.

 

Ci fermammo lungo il muretto a metà strada fra via Tiziano e la stazione. Tornammo indietro a piedi per vedere come andava e, quasi subito, scorgemmo l’acqua risalire dal sottopasso del ponte della ferrovia. A quel punto decidemmo di allontanarci ancora. Non sapendo bene dove l’acqua puntava e dove no, scegliemmo di andare in alto, sul cavalcavia del Cristo. Lì lasciammo la macchina grande sulla strada che scendeva verso corso Carlo Marx e tornammo indietro con la piccola, parcheggiandoci davanti alla stazione, accanto allo Zerbino. Scoprimmo che l’acqua era arrivata all’altezza dell’hotel Londra e si era fermata.

 

Ore dopo cominciò a ritirarsi e noi le andammo dietro, badando bene a non scivolare sul fango e sulle altre schifezze che si lasciava alle spalle. All’angolo di Spalto Borgoglio scorgemmo un gruppetto di persone, accanto a una macchina della polizia con la luce che girava sul tetto. Una ruspa se ne stava ferma nell’acqua, davanti al liceo scientifico.

“Cosa fanno?”, chiedemmo a un poliziotto.

“Ha chiamato una signora”, disse lui indicando col dito. “Suo padre abita in quel palazzo ed è debole di cuore. Ma non riescono ad avvicinarsi perché c’è troppa corrente”.

Apprendemmo così che l’acqua del fiume faceva corrente e anche i mulinelli. Meglio non sfidarla, allora, come avevo pensato io prima.

 

Aspettammo. Finalmente, verso l’alba, potemmo arrivare davanti a casa nostra in un paesaggio disastrato. Non c’era un’anima per via. Tutti barricati in casa. Niente luce, niente telefono, niente riscaldamento. Questo niente durò per giorni. Per circa una settimana l’unica luce in casa fu quella delle candele e, fuori, quella di una fotoelettrica, piazzata accanto al palazzetto, che prendeva d’infilata la strada mentre, sul tardi, arrivavano bulldozer e camion a raccogliere tutte le cose che di giorno sbrattavamo dalle cantine.

Ci volle di più per riavere il calore dei termosifoni. Nel frattempo cercavamo di combattere l’umidità cacciandoci a letto con coperte e pastrani. Io ebbi anche un ricordo d’infanzia: per riscaldare il letto mia nonna e mia madre mettevano una pietra piatta sul fuoco. Poi la avvolgevano in un sacchetto di tela e la infilavano sotto le lenzuola, Così feci la medesima cosa e quel calore attenuava un po’ l’atmosfera lunare fuori.

 

Ho detto in premessa: una notte difficile. Ora posso aggiungere: molte notti difficili.

L’anno scorso abbiamo mancato il bis per pochi centimetri. Abbiamo già dato.

 

05/11/2017 00:07:31
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