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Esperienze tra Oriente e Occidente
Il Demone della Soggettività
Fabrizio Uderzo

 

 

Abbiamo considerato come l’uomo sia sostanzialmente solo davanti al mistero dell’universo e della propria vita, davanti all’ineluttabilità della fine della sua manifestazione materiale, cioè del corpo, che, attraverso un progressivo declino del proprio stato fino al sorgere della malattia terminale, giunge all’ultima scena in cui si rappresenta lo stato d’agonia e si assiste all’esalazione dell’ultimo respiro.

Come scriveva Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, l’uomo nasce nel dolore, trascorre tutta la sua vita nel dolore e infine arriva

 “Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:

Abisso orrido, immenso,

Ov'ei precipitando, il tutto obblia.”

E il Poeta  si chiede:

Se la vita è sventura

Perché da noi si dura?”

 

Anche questa è domanda fondamentale ai fini della comprensione del mistero dell’uomo,

Leopardi non è il solo a prendere dichiarata posizione sullo stato di sofferenza che accompagna la vita umana.

Abbiamo detto come il Buddha storico Sakyamuni abbia concentrato la propria attenzione, anche se  da un punto di vista prospettico diverso da quello del grande poeta di Recanati,  sulla sofferenza che permea l’intera esistenza dell’uomo, preoccupandosi di scoprire una via che lo liberi dal dolore una volta per sempre, prima ancora di trovare delle risposte ai suoi quesiti fondamentali. L’uomo è chiamato dal Buddha a imboccare una strada anche senza sapere quale sia la meta finale. Esiste, egli dice, una strada che conduce alla cessazione del dolore, alla cessazione della sofferenza delle rinascite e della morte, alla liberazione totale, ma non sappiamo cosa troveremo sugli ultimi tornanti di quella strada e, soprattutto, non sappiamo cosa vedremo mentre riposiamo sulla vetta della montagna. Non si preoccupi l’uomo di cercare un sostegno (quale sarebbe appunto un essere divino al di sopra di tutto) alle sue difficili condizioni di vita in questa dimensione umana, finita, limitata, senza scampo apparente, intrisa di dolore e continua sofferenza. Perché è inevitabile che nel “finito” non possa esservi felicità. É sufficiente ‒ continua ‒ che l’uomo ritrovi in sé stesso quello stato primordiale che gli è di fondamento, quella condizione infinita ed eterna che sempre è stata pura e che sempre sarà pura. Ma per ritrovare sé stesso l’uomo deve necessariamente allontanarsi da quella parte di sé che cerca sollievo dalla sua angoscia congenita nel perseguire illusioni, nel procurarsi distrazioni che sul principio crede amene ed efficaci, ma che poi lo lasciano in uno stato di prostrazione disperata, che vi cerca rimedio col dedicare la propria attenzione e le proprie energie ai tanti idoli che ciascuno crea da sé e per sé, per avere la forza di arrivare al giorno dopo.

Ma ogni giorno è lo stesso del precedente, come le vite, che  continuano a succedersi una dopo l’altra da miliardi e miliardi di kalpa.

Secondo il Dharma, per riuscire a ritrovare sé stesso l’uomo deve compiere una vera e propria rivoluzione interiore, deve perdere ogni attaccamento a sé stesso, deve far tacere i richiami delle  peculiarità che concorrono a formare la sua individualità, in ogni campo e in ogni contesto: storico-personale, sociale, affettivo,  familiare eccetera. In altri termini l’uomo deve conseguire il silenzio interiore in un cammino che si rivela essere di ascesi, intimo e raccolto. Occorre sapersi avventurare a entrare nel silenzio profondo del proprio essere, facendo tacere tutti i suoni interni della nostre facoltà pensanti. A dir meglio, poiché caratteristica assoluta della natura della mente è quella di manifestarsi senza soluzione di continuità in mille forme differenti, non è in verità il silenzio-vuoto che occorre cercare, quanto piuttosto il silenzio che è proprio della concentrazione meditativa e che permette al praticante di non farsi distrarre dai fenomeni che gli appaiono in continuazione e che egli  percepisce esterni, cioè “altro”.

Tutto l’insegnamento del Buddha mira al conseguimento di tale silenzio e per potervi entrare, il Dharma ha posto in primo piano non la speculazione o una dottrina, ma la  pratica della contemplazione, l’esperienza diretta, la quiete della mente, il silenzio interiore. Il Buddhismo allora é stato detto tante volte ‒ non è che una pratica meditativa, intesa come contemplazione interiore. Tutto l’insegnamento del Buddha acquista significato e bellezza se compreso e vissuto a partire dalla contemplazione. Se si tralascia questo fondamento o se si prescinde dalla contemplazione meditativa, si cade nella mera dialettica,  nelle sottili elucubrazioni e così ci sfugge il sublime messaggio del Buddha. Così sublime che un praticante buddhista del Buddhismo non parla proprio, non disquisisce. Entra nel silenzio della soggettività e ciò basta.

Mag-Chig-Lag, una grande Maestra vissuta in Tibet nel XII Secolo, in un insegnamento dato ad un proprio discepolo (di nome Gon-pa Mug-song) spiega quale Demone deve temere di più un praticante:

Le radici di tutti i Demoni si incontrano nella Soggettività, sicché è sommamente importante tagliare questa proprio alle radici. Questa Soggettività è chiamata  ‘credere in sé’.

Credere in sé è la radice di tutto il male e di tutta la sofferenza. Soggettività significa prendere ciò che sorge, sia buono che cattivo, e attaccarsi ad esso come definitivamente reale. Ma sia questo ‘oggetto’ che questo ‘soggetto’ e tutte le entità di questo mondo fenomenico dentro e fuori, che noi prendiamo come ‘me’ e ‘mio’, sono riconosciuti come niente del tutto, da coloro che hanno una più ampia comprensione. Sbaràzzati di tutti questi Demoni che ti impediscono di acquisire la liberazione, sbaràzzati di tutto questo afferrarsi alle manifestazioni come se fossero la Verità! Quando non c’è più un soggetto che corre dietro ad un’esperienza, sia essa buona o cattiva, e quando tutti gli artificiali giudizi mentali del percepire e del desiderare si dissolvono, niente che abbia a che vedere con postulati mentali può ancora sussistere. Se tale Sé, tale Soggettività non esiste, anche i ‘Demoni’ non esistono e così potrai espandere la tua consapevolezza a tutto ciò che può essere conosciuto, assaporerai il frutto della liberazione da tutti i tipi di Demoni.”

 

Riporto ora una pagina che mi è capitata tra le mani anni fa, e che, facendo parte del diario di un  anonimo praticante, racconta di una soggettività personale in via di dissolvimento:

 

Ho abitato per tantissimi anni, per secoli, in una casa che poggiava su una nuvola.

Ora la pioggia comincia a cadere, la nuvola si scioglie in pioggia e la casa svanisce.

Non resta più nulla.

Ma ecco, ora la pioggia  a contatto con il sole diventa vapore. Posso dire che anche la mia casa è evaporata.

È un mutamento continuo di tutto.

Anch'io, che di quella casa ero parte tanto attiva, che ammiravo dalla finestra il cielo sempre più azzurro, anch'io mi sono dissolto nella pioggia che lava.

Anche di me non resta più nulla.

La casa è svanita in luce e la luce è la condizione dello spazio infinito. È una chiarezza che tutto trasforma, che si trasforma essa stessa, eppure che non muta, che non è mai mutata e che mai muterà. È una sintesi suprema di silenzio e movimento, in una quiete che poi supera quella stessa sintesi e somiglia alla vetta di un picco solitario che pareva irraggiungibile. Che meravigliosa visione da quassù.

Il bosco è tutto fiorito e riempie lo spazio di infiniti colori.

Non ho più una casa, e nemmeno una nuvola. Anch'essi erano i miei limiti. Il capo abbandonato, gli occhi chiusi e aperti nello stesso tempo, eppure la visione tutto comprende. Lo specchio è puro, senza macchia, e non c'è polvere che lo possa velare: è inconcepibile che possa essere condizionato da ciò che riflette, e per piccolo che sia, riflette l'intero universo.

È un espandersi del cuore, non solo della mente: lo spazio interno, prima limitato dai ‘punti fermi dell'io’ e ancorato ad essi, ora è libero di unirsi allo spazio esterno, che non ha barriere.  Non c’è più un ‘dentro’ e un ‘fuori’

È la danza del cielo”.

21/12/2016 16:33:51
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