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Anima e terra: aforismi e annotazioni
Individuazione
Franco Livorsi
Nei giorni scorsi, tra il 9 e l'11 maggio, ho partecipato, come invitato, al congresso di Roma dell'Associazione Ricerche di Psicologia Analitica, svolgendo una relazione su un aspetto centrale del grande seminario Lo 'Zarathustra' di Nietzsche tenuto da Jung tra il 1934 e il 1939 (Bollati Boringhieri, 2011/2013, in quattro volumi, per oltre 1600 pagine): “Il dialogo tra Jung e Nietzsche sull'individuazione”. Per me, naturalmente, la preparazione della relazione, e poi la discussione al convegno, sono state pure occasione per una "full immersion" in tutti i testi fondamentali di Jung sull'individuazione, che indico di seguito: la voce “Individuazione” in “Tipi psicologici”, 1921, in "Opere", VI, Bollati Boringhieri, 1981, pp. 463-465; molte pagine di “L'Io e l'inconscio”, 1928, VII, 1983, pp. 121-320, specie p. 166, e il capitolo “La struttura dell'inconscio", del 1916, ivi, pp. 263-306 nonché, sempre ivi, il capitolo, del 1916, “Individuazione e collettività”, specie a p. 313; “Riflessioni teoriche sull'essenza della psiche”, 1946, VIII, 1976, pp. 177-252 e soprattutto p. 242; “Coscienza, inconscio e individuazione”, del 1939, IX/1, 1980, pp. 165-280; “Empiria del processo d'individuazione", 1950, ivi, pp. 281-343. Risulta che l'individuazione, o autorealizzazione, è connessa, da Jung, espressamente a Nietzsche, come sua principale scoperta, in Lo Zarathustra" di Nietzsche, cit., vol. III, p. 965. Infatti l'oltreuomo di Nietzsche (detto tradizionalmente superuomo) fonderebbe in se stesso gli opposti: inconscio collettivo e coscienza, istinti e morale, divino e umano, andando pure al di là del bene e del male intesi come antinomia che lacera la nostra psiche. Realizzerebbe, insomma, la "coincidenza degli opposti". Con ciò si dissolverebbe il conflitto continuo tra ciò che in noi è animale e ciò che in noi è coscienza, con superamento di una scissione tra spontaneità primordiale e coscienza morale simboleggiata già dal peccato originale.
   La coscienza è per Jung l’Io, e il Sé è la totalità psichica vista nel suo punto focale. La fusione dell'Io e del Sé, o almeno il cammino verso tale sintesi compiuta, sarebbe, per Jung, la compiuta individuazione. Ora il Sé, per Jung, è non solo il primo archetipo, ma il radicale di tutta la psiche, più o meno come il centro di un cerchio in cui tutti i raggi confluiscono e da cui si dipartono. Questo Sé è inteso da Jung come psiche "oggettiva", ossia non come costruzione basata sull'esperienza, e quindi "ab ovo" dell'Io, ma come un "quid" o "quis" a tutti comune, in noi a priori. Si veda su ciò il seminario di Jung su Nietzsche al volume III, p. 1051. Se il Sé è a tutti comune e non è un derivato dall'esperienza, che semmai esso investe, essendo oggettivo può essere detto il divino, tanto più che taluni fenomeni telepatici, detti sincronistici, paiono andare al di là dello spazio-tempo. Perciò l'individuazione è pure il nostro tendere personale a realizzare dio in noi stessi. Non si parla del “divino” in sé, ma come realtà psichica di tipo archetipico, di cui possiamo cogliere l’immagine archetipica, condizione di rinascita a noi stessi. A patto però che l’Io non scompaia nel Sé, impazzendo (come sarebbe accaduto a Nietzsche), ma sappia interloquire, riconciliarsi e via via fondersi con esso. L’inconscio collettivo, di cui il Sé è “il tutto”, è inteso come un grande mare, da cui la coscienza o Io emerge come un’isoletta. Starsene all’asciutto significa non vivere la propria vita più intima. Ma immergersi in esso espone al rischio di affogarvi dentro, travolti dai ciechi impulsi, da un flusso incontrollato d’immagini, in una parola dall’irrazionale. Bisogna imparare a nuotarvi dentro come delfini. Si deve interloquire continuamente con il nostro inconscio collettivo, con la voce dei nostri istinti biologici come spirituali, con le nostre aspirazioni “animali” come divine, che sono sempre latenti in noi: per andare via via alla prima radice di noi stessi, al nostro Sé, sino a rinascere in noi stessi, sino a diventare quello che siamo. Il cammino naturalmente alla fine è, più o meno sempre, incompiuto; ma mettersi su tale strada è già entrare in contatto con il divino, che fa rinascere. Mettersi sul cammino della propria rinascita, ossia dell'individuazione, è già un gran bel modo di dare significato e fine all'esistenza. Non vogliamo forse tutti quanti diventare quello che siamo, fondere in noi stessi il finito e l’infinito e per ciò accedere ad una vita che sia al tempo stesso compiutamente nostra e “beata”? E porsi su tale strada, a stretto contatto con le nostre più profonde aspirazioni e con la struggente nostalgia dell’infinito che della nostra specie è propria, e alimentarle con quello cui esse anelano anche nella vita vissuta, non è proprio cogliere il sapore stesso della nostra vita più intima, profonda, autentica e liberatrice? Non è forse vero che ogni passo verso tale fine, per quanto minimo, ci fa accedere ad una vita nostra, nuova e migliore?
                                                           (franco.livorsi@alice.it)
  
13/05/2014 18:30:52
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