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Anima e terra: aforismi e annotazioni
“Il fenomeno umano” di Teilhard de Chardin. Dall’ameba alla vita naturale-umano-divina
Franco Livorsi

Vorrei proporre, di seguito, alcune annotazioni e riflessioni sull’opera fondamentale del grande scienziato, biologo e paleontologo, ma anche filosofo-teologo, Teilhard de Chardin Il fenomeno umano, terminata nel 1939 e messa a punto nel 1947, quando l’autore compì un ennesimo e nuovamente vano tentativo - da gesuita qual era - di ottenere - recandosi proprio in Vaticano - il permesso di pubblicazione da parte dei suoi superiori e del Sant’Uffizio. Si era al tempo della chiesa di Pio XII, lontana dalle elaborazioni successive del Concilio Vaticano II. E infatti il permesso di pubblicazione, ancora una volta, gli fu negato. Anzi, proprio dopo che il suo libro era stato pubblicato, poco dopo la sua morte, il 6 dicembre 1955 il Sant’Uffizio emanò un decreto contro il suo pensiero, seguito il 30 giugno 1962 da un vero e proprio Monitum, a futura memoria. Poi le cose col richiamato Concilio Vaticano II mutarono. La chiesa cattolica, pur ferma alla sua dogmatica e al suo rapporto preferenziale col tomismo, inaugurò una sorta di politica dei cento fiori, consentendo a molte scuole di pensiero cristiane di esprimersi, pur mettendo a tacere, ciclicamente, voci dissenzienti particolarmente esplicite. Il clima ideologico, comunque, mutò a un punto tale che in anni a noi relativamente vicini vi sono stati pure espliciti punti di consenso con Teilhard da parte dell’autorevole teologo contemporaneo Jűrgen Moltmann, in Der Weg Christi, München, Chr. Kaiser, 1989 (Jésus le Messie de Dieu, Paris, Ed. du Cerf, 1993): un Moltmann che risulta essere uno dei più impegnati elaboratori di una teologia cristiana finalmente ecologistica, come emerge in Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, del 1985 (Brescia, Queriniana, 1986), in cui in effetti la parentela ideale con Teilhard è massima. In sostanza Teilhard, nella sua chiesa cattolica, non è più un “maudit”, anche se resta tuttora in odore di eresia. Infatti esprimeva un’idea di tendenziale divinizzazione progressiva della natura. Questa non solo si evolverebbe nel senso del biologico mutarsi, in cui in sé e per sé il “dopo” non è migliore del “prima”, ma progredirebbe verso una specie di “sfero”, cioè verso uno stato di suprema armonia (così chiamato da Empedocle di Agrigento nel V secolo a.C.): stato per Teilhard materiale-spirituale, e da lui detto “punto omega”, ossia di massima coincidenza tra esistente ed Essere alla fine dei tempi, pur raggiunta in parecchi miliardi di anni. Tale impostazione pareva connotata da una mancata separazione tra Dio e l’evoluzione, con conseguente negazione dell’essere trascendente, e per ciò con tendenziale panteismo, basato ovviamente sull’identificazione via via più ampia tra la natura e il divino. Inoltre la visione di un divenire che passo dopo passo avrebbe portato ad una coscienza sovrumana urtava fortemente contro il pessimismo antropologico antico del monoteismo ebraico-cristiano: un pessimismo sviluppatosi dal mito biblico del peccato originale - che sta a significare che una tendenza al male è insopprimibile nella natura umana in quanto tale - al pensiero di Sant’Agostino, seguitato sino alla grande teologia del XX secolo di Karl Barth e  addirittura sino all’esistenzialismo cristiano di Gabriel Marcel, con cui Teilhard polemizzò con forza nell’immediato secondo dopoguerra. Questi allora replicò sostenendo che Teilhard proponeva, in sostanza, una “concezione anticristiana che ci riporta all’uomo prometeico” (come notato da Giancarlo Vigorelli nel suo bel libro: Il gesuita proibito. Vita e opere di Teilhard de Chardin, Milano, Il Saggiatore, 1963, p. 182). Per ciò i motivi per ritenere Teilhard difficilmente conciliabile con l’ortodossia vuoi cattolica e vuoi protestante erano forti. Ma chi, come me, guardi le cose in modo effettivamente molto aperto verso il fenomeno religioso, ma senza legame con alcuna tradizione o confessione dogmatica specifica, può prescindere della “tradizione” ed apprezzare, o non apprezzare, Teilhard, per l’uno o per l’altro aspetto decisivo del suo pensiero, senza remora alcuna.  Ciò posto qual è, però, il  perno de Il fenomeno umano di Teilhard de Chardin (tradotto in italiano da Ferdinando Ormea ed edito a Milano da “il Saggiatore di Alberto Mondadori” nel 1968)?

Esso emerge sin dal seguente passaggio del Prologo di Teilhard, ove si enuclea “il piano essenziale di quest’opera” nel modo seguente: “la previta, la vita, il pensiero, - tre avvenimenti che disegnano nel passato e condizionano per l’avvenire (la Supervita!), una sola e stessa traiettoria: la curva del fenomeno umano (p. 34).” I tre (quattro) momenti costituiscono pure la struttura del Fenomeno umano.

Sin dalla “previta” emerge una “fondamentale unità” (p. 41). Si nota infatti già allora, e poi per sempre, “una perfetta identità di massa e di comportamento” (p. 42). Ci si trova di fronte a un unico essere vivente, in cui tutti gli aspetti si interconnettono come tratti di un tutto, dalla cellula iniziale a noi. Ciò per Teilhard spiega l’incredibile interdipendenza del cosmo, che ha sempre meravigliato l’uomo (p. 45), e che ci fa vedere che l’atomo va inteso come “il centro infinitesimale del mondo stesso” (p. 48). L’interno delle cose però non ci svela - o non ci svelerebbe - due entità correlate, una materiale e l’altra spirituale, bensì “un’energia unica che anima il mondo (p. 73)”. Tuttavia negli esseri in cui si esprime si dà sempre un interno e un esterno, cioè una materialità in cui è incorporata una psichicità e viceversa, per quanto possa essere stata o essere elementare ab ovo. Con ciò Teilhard non inserisce affatto il dualismo cristiano tra materia e spirito per così dire “di soppiatto” - sia ciò valido o meno -  tanto da riconoscere, al termine della parte sulla “previta”, che “La terra è probabilmente nata da una circostanza fortuita”, “Ma, in conformità con una delle leggi più generali dell’evoluzione, tale circostanza, appena apparsa, è stata subito utilizzata, rifusa in un qualche cosa di naturalmente orientato (p. 88)”.

La “vita” segue (nel libro come parte seconda). Essa è “psichica” sin dall’”apparizione della cellula” (p. 107), naturalmente in modo del tutto inconscio, e però sensato. Emergono batteri che, quando “li perdiamo di vista hanno solo più una lunghezza di 0,2 millesimi di millimetro” (p. 113); sono dunque piccolissimi, e tanti, miriadi di esseri; eppure “la massa iniziale delle cellule ha dovuto trovarsi sottoposta dall’interno, sin dal primo istante, a una forma d’interdipendenza che non era già più un semplice adattamento meccanico, ma un inizio di ‘simbiosi’, o di vita in comune (pp. 116-117).”  Emergerebbe subito che tutti i viventi, dai batteri all’uomo, hanno “gli stessi tipi complessi di vitamine e di enzimi (p. 118): il che oggi mi pare dimostrato ben più che nel 1947. Ma ecco che la cellula “a un certo punto si segmenta” (p. 131), manifestandosi in tre modalità: la proliferazione, l’ingegnosità e l’indifferenza. Più gli esseri sono elementari e ciechi, più sono tanti (proliferazione), come vediamo negli insetti. Si ha o avrebbe un procedere come quello dell’ingegnere che “deve montare macchinari adattabili e semplici” (p. 140), con “ingegnosità”. Nel suo procedere la vita passa attraverso montagne di cadaveri (“indifferenza”), sebbene tale situazione per così dire totalmente sorda alla sorte del singolo (ricordiamo la tesi leopardiana della natura “matrigna”), si stemperi sempre più profondamente quando emerge finalmente la coscienza umana: “È solo a partire dallo spirito, in cui raggiunge il parossismo sentito, che l’antinomia - tra unità e molteplicità - si risolve decisamente, e l’indifferenza del mondo verso i suoi elementi si trasforma in una immensa sollecitudine, - nella sfera della persona (p. 142).” Con quali limiti e in mezzo a quali tragedie è sin troppo noto. Ma comunque con l’uomo emerge una sorta di scoperta del valore dell’individuo in quanto tale.

In ogni caso, nell’insieme, quel che si nota è che la vita “si segmenta avanzando” (p. 144): “si ramifica”, sino a dar luogo alle specie, al “phyllum” (p. 146). Guardando le cose da lontano si vede l’albero, ma non la foresta (p. 146), ma la foresta c’è, e l’albero ne fa parte. Direi che qui la specie preesiste sempre al singolo, che ne è specificazione. Il “phyllum” sembra procedere in avanti in modo simile all’uomo quando fa una scoperta, cioè avanzando per prove ed errori, per tentativi successivi, che poi però, trovata la soluzione, s’impongono a tutti i membri del “phyllum”: “Dapprima l’idea prende corpo, in modo approssimativo, in una teoria o in un meccanismo provvisorio. Segue poi un periodo di modificazioni rapide: ritocchi e riadattamenti continui dell’abbozzo primitivo, sino a una messa a punto definitiva. Giunta a questo stato di compimento, la nuova creazione entra nella sua fase di espansione e di equilibrio. Qualitativamente, non cambia più, se si eccettuano certi dettagli accessori: si mantiene alla stessa quota. Quantitativamente invece si espande e acquisisce la sua piena consistenza. Questa è la storia di tutte le invenzioni moderne, dalla bicicletta all’aereo, dalla fotografia al cinema e alla radiodiffusione.    Del tutto analoga  si delinea, per il naturalista, la curva di sviluppo seguita dai rami viventi (pp. 148-149).” E qui è interessante notare una certa affinità, ammessa (p. 197 n.), con l’evoluzionismo alla Lamarck, della funzione che sviluppa l’organo, ossia di uno psichismo della e nella materia, tra l’altro rivendicato in termini identici anche da Freud, come emerge ad esempio in una sua lettera a Karl Abraham del 1917, in cui notava che la sua (di Lamarck) necessità che trasformava gli organi non era “altro che il potere delle idee inconsce sul corpo, del quale vediamo i residui nell’isterismo, cioè, in parole povere, l’’onnipotenza del pensiero’ (citato da Ernst Jones, in Vita di Freud, del 1953, ma Milano, Garzanti, 1977, III, pp. 370-371, ma si veda pure il mio libro Politica nell’anima. Etica, politica, psicoanalisi, Milano, Moretti & Vitali, 2007, pp. 189-190). Ciò è così vero che Teilhard precisava: “In altri termini, se la tigre ha allungato le zanne e affilato le unghie, non sarebbe forse proprio perché ha ricevuto dalla sua stirpe e successivamente ha sviluppato e trasmesso un ‘animo carnivoro’? E lo stesso si potrebbe dire anche per i timidi corridori, per le forme natanti, - per le forme scavatrici, - per le forme volanti … Evoluzione di caratteri, certamente: ma alla condizione di dare a questo termine il significato di ‘temperamento’ (pp. 198-199).” Per questo da un phylum sorgerebbero pure altre linee, varianti (p. 150). Ogni variante emerge all’improvviso, in un momento mai determinabile, ma poi potrebbe generalizzarsi. A questo punto, da autentico biologo e paleontologo, Teilhard illustra un vero albero della vita, ossia uno schema di tutta l’evoluzione (p. 159), in cifre approssimative di milioni di anni. Dapprima si ha il periodo “permiano”, che affonda nell’era geologica paleozoica, verso la sua fine, e che è stato di 200 milioni di anni, culminando negli anfibi. Poi il triassico, in cui evolvendosi dal permiano, si notano grandi rettili permiani che non solo resistono a 150 milioni anni di triassico, ma lambiscono il periodo successivo, giurassico, di 100 milioni di anni; questo, sviluppando una linea già emersa nel triassico, fa emergere i multitubercolati, grandi animali che depongono le uova, simili ai coccodrilli, una cui linea, si prolunga nei cento milioni di anni del cretaceo, con i triubercolati, mammiferi tutti con sette vertebre cervicali (p. 165 e n.), ma anche nel periodo terziario, in cui siamo noi da 50 milioni di anni e che seguita, in cui si sviluppano vuoi animali senza placenta, come i marsupiali, del genere del canguro, che con placenta, come i dominanti mammiferi, tra cui compare, al culmine, l’ominide, poi uomo. Tutti costoro hanno a lungo ancora a che fare con animali strani e mostruosi la cui genesi si perde nel giurassico, come dinosauri, ittiosauri, coccodrilli e altri. Lo schema è perfezionato tramite l’albero della vita di Claude Cuénot (p. 177), amico e poi uno dei maggiori studiosi di Teilhard (autore nel 1958 e poi 1962 dell’accurata monografia Teilhard de Chardin. Vita e pensiero del filosofo della speranza, Milano, Il Saggiatore, 1971), in cui al culmine, ma davvero come se si trattasse del ramo più alto in senso stretto, stanno i primati. Lì ogni “grappolo” costituisce uno strato morfologico. Lo schema ci dimostra, tra l’altro, come la sola emergenza dei mammiferi abbia richiesto ottanta milioni di anni (p. 178). In conclusione quel che è emerso mostrerebbe: “In testa, la vita, - con tutta la fisica a lei subordinata. E, nel cuore della vita, per spiegare la sua progressione, la molla di una salita di coscienza (p. 195).” Qui naturalmente i rimandi non solo a Bergson, ma anche a Goethe, Alexander von Humboldt, a Schelling, persino a Hegel, e soprattutto a Schopenhauer (per il senso cosmico dell’emergere della coscienza dalla volontà di vita, però con un rovesciamento quasi nietzscheano della sua posizione, in senso vitalistico “positivo”), sarebbero facilmente deducibili, ma per affinità più che direttamente; infatti il nesso diretto è più che altro da un lato con Lamarck e Darwin, dall’altro con Bergson e Blondel. La vita è comunque intesa come “un’ascesa di coscienza” (p. 202). Il tutto si vedrebbe bene quando arrivano i mammiferi, con cui Teilhard dice che ci troviamo finalmente subito “a nostro agio”, provando una “impressione antropocentrica” (p. 205), nel senso che ne cogliamo l’affinità con noi stessi. Anche lì schematizza con un disegno lo sviluppo dei primati (p. 209), da un periodo eocene, del “terziario”, in cui emergono piccole “proscimmie” ancor presenti in India che sembrano scoiattoli, nonché altre proscimmie piccole come ratti, ancor presenti nel Borneo, a Giava e Sumatra, al periodo, compreso nel terziario più recente, che poi nel miocene - tempo geologico del terziario compreso tra oligocene e pliocene, ultima epoca del terziario, durata circa quindici milioni di anni - ha dato luogo alla comparsa dei seguenti gruppi “affini”: lemuridi, proscimmie di differenti specie, in particolare come quelle che si vedono ancora nel Madagascar, di varia taglia e di morbida e soffice pelliccia; platirrine, scimmie antropidee meno evolute, simili a quelle che si vedono ancora nell’America meridionale; catarrine, scimmie antropoidee d’Africa e Asia, più simili all’uomo; gli antropoidi, simili all’uomo e che lo precedono. Si noti che tutti questi gruppi scimmieschi, antropoidi compresi, si sviluppano in parallelo, come tante specie da un phyllum. Ma ormai, con gli antropoidi, si è alla svolta: “Da migliaia di anni, una fiamma sta salendo sotto l’orizzonte: ora, in un punto strettamente localizzato, essa sta per divampare.   Ecco il pensiero! (p. 212).” E con ciò siamo alla terza parte, tra noi.

L’uomo, che ne è espressione, è detto un problema ancora irrisolto per la scienza (p. 215). Ci sarebbe una differenza qualitativa, e non solo quantitativa, tra l’uomo e gli altri animali, anche se la coscienza - in cui essa consiste - si sviluppa lungo una linea evolutiva (pp. 218-219). Il fenomeno umano è detto interpretato, in tal caso nella storia della filosofia, in tre modi o visioni: I) Quello che va dall’essere all’esistente, proprio della metafisica in specie cristiana e scolastico medievale (ma certo anche neoscolastica dominante nella chiesa anche contemporanea), che però non vedrebbe che l’istinto non è solo un che di limitato, un fenomeno inferiore o epifenomeno richiedente un ordinatore esterno, ma anche una capacità di pensare senza pensare, ossia di pensare in modo implicito; II) quello che oppone nettamente l’essere pensante e non pensante, come uomo e automa, sulla linea cartesiana, che non comprende la scala istintuale: scala non certo riducibile all’extrapensante; III) quello che coglie la continuità biologica tra non pensante e pensante, tipicamente moderno, che giunge in sostanza a vedere nel sorgere della coscienza una forma perenne di psichismo, finalmente riuscito (p. 220 e sgg.), con cui evidentemente Teilhard si identificava, o meglio in cui si riconosceva. “… si potrebbe dire - affermava - che ogni forma di istinto tende, a modo suo, a diventare ‘intelligenza’; ma che solo sulla linea umana (per ragioni estrinseche o intrinseche) l’operazione è pienamente riuscita. Lo psichismo umano rappresenterebbe dunque, allo stato riflesso, una sola delle innumerevoli modalità di coscienza che la vita ha tentato di realizzare nel mondo animale (p. 221n.).” Per ciò Teilhard può evincere da ciò una prima importante conclusione: “… la storia della vita non è null’altro che un movimento di coscienza velata di morfologia; inevitabilmente, verso la cima,  nelle vicinanze dell’uomo, gli psichismi giungono, e si manifestano, a fior d’intelligenza. Ed è ciò che precisamente accade (p. 222). Con ciò il percorso di miliardi di anni ha dimostrato di avere un suo ritmo progressivo: “La cellula è diventata ‘qualcuno’. Dopo il grano di materia, dopo il grano di vita, ecco finalmente il grano di pensiero (p. 230).” Ma la  storia è sempre quella: “nel Mondo diventato umano, e nonostante le apparenze e la complessità, è sempre la stessa ramificazione che si prolunga e opera secondo lo stesso meccanismo di prima (p. 233).” L’uomo è inteso come microcosmo, come in Niccolò Cusano, come in Giordano Bruno, ma in un senso totalmente diverso, che non riassume il creato del Creatore o il Creatore nel creato, come nei due grandi filosofi rinascimentali, ma le diverse forme dei viventi, che nel divino culminerebbero, o meglio dovrebbero infine culminare, anche se ciò ne attesta la latenza: “Nell’uomo, considerato quale gruppo zoologico, si prolungano a un tempo l’attrazione sessuale con le leggi della riproduzione; la tendenza alla lotta per la vita, con le sue competizioni; il bisogno di nutrirsi, con il desiderio di prendere e divorare; la curiosità di vedere, con il suo piacere per la ricerca; la tendenza a raggrupparsi per vivere riuniti … Ciascuna di queste fibre attraversa ognuno di noi, provenendo dal basso, sotto di noi, e salendo più in alto, al di là di noi (p. 238).” Ciò è così vero che l’era inaugurata dagli ominidi potrebbe essere detta un nuovo periodo dell’evoluzione, uno “psicosoico” (p. 244). Seguono naturalmente cenni all’evoluzione degli ominidi: oltre i gorilla, vediamo animali australopitechi, i più prossimi agli umanoidi (p. 246). Poi vediamo ominidi del paleolitico, della pietra lavorata, che subito caratterizzano tutto il “vecchio mondo” (pp.247-248). Emerge un ominide, che oggi sappiamo vecchio di 1.700.000 anni, che “possiede già un linguaggio e vive a gruppi. Già accende il fuoco (p. 248).” In conclusione l’uomo si comprende nell’evoluzione totale, ma visto al modo in cui da Teilhard è visto anticipa pure l’evoluzione futura. Anche qui Teilhard delinea uno schema di evoluzione degli umanoidi e umani, o della “noosfera” (da noùs, che in greco è la mente nel senso di intelletto), indicando lo sviluppo umanoide o umano in migliaia di anni. Le cifre “rappresentano un minimo, e dovrebbero probabilmente essere almeno raddoppiate”. La connessione passato-presente guida quella presente-futuro, anche remoto, vista infine come punto omega, culmine possibile di tutta l’evoluzione, generale ed umana. “La zona ipotetica di convergenza in Omega non è evidentemente espressa alla stessa scala. Per analogia con gli altri strati viventi, la sua durata sarebbe dell’ordine di diversi milioni di anni (p. 254n., sottolineatura mia). Nello schema nei primi 100.000 anni si hanno gli australopitechi, affini a gorilla e scimpanzé, ma anche all’uomo, di cui sarebbero o antenato o collaterale. Più oltre, verso la fine dei 100.000 anni, si ha il pitecantropo, un ominide fossile del Pleistocene (scoperto verso il 1894 dalle parti di Giava) e il sinantropo, del Pleistocene medio (di 200.000 o 300.000 anni or sono), scoperto e studiato proprio da Teilhard de Chardin tra il 1927 e il 1939, anche se qui l’autore neanche lo dice. In una fase ulteriore -150.000 anni fa - si sviluppa da un lato il Soloensis, come progresso del Pitecantropo, e dall’altro, sempre di lì, l’uomo di Neanderthal, con taluni tratti scimmieschi, eppure eretto e pienamente umanoide, una vera specie “umana” misteriosamente scomparsa quando circa 200.000 anni fa emerge l’homo sapiens, cioè come noi, che poi dal Paleolitico si protende all’epoca del neolitico, in cui, dopo una corsa preistorica profonda di un 300.000 anni, si giunge alle civiltà primitive, del tutto umane, come le nostre (pp. 274-275), come quelle degli indiani  americani o della più profonda Amazzonia d’oggi. Del resto non solo il neolitico, ma il paleolitico, è già simile a noi, tanto che noi vediamo che riti come quelli dipinti sulle pareti delle caverne sono ancora “sotto i nostri occhi” (p. 269). Dopo un 10.000 anni di neolitico si giunge - però nel vecchio mondo mediterraneo, che darebbe la strada a tutti quanti gli uomini (p. 283) - all’epoca moderna, cioè storica, delle città imperi e Stati, epoca che dovrebbe appunto culminare - nel disegno direi tra un 70.000 anni - nel richiamato punto omega.  Questo però si avvicina. Siamo appena all’inizio del post-neolitico, secondo Henri Breuil (pp. 285-286): solo ora siamo infatti alle soglie di un’era post-agricola, dopo la rivoluzione agricola iniziata un duecento anni fa o poco più con la rivoluzione industriale, ma forte solo in questa fase,in cui si crea per la prima volta discontinuità con la nostra preistoria “neolitica”, in cui era appunto avvenuta la prima e decisiva rivoluzione agricola, che aveva trasformato innumerevoli raccoglitori, cacciatori e pastori in contadini. Si fanno ora, all’inizio di questa fase post-agricola, continue scoperte, e ogni scoperta si universalizza: una volta fatta s’impone cioè a tutti, come tutta l’evoluzione - umana e non - ci dimostra (p. 291). Si avanza tutti: “L’uomo non già centro dell’universo, come avevamo ingenuamente creduto, ma, il che è assai più bello, l’uomo freccia ascendente della grande sintesi biologica (p. 300).” Muovendosi in totale controtendenza rispetto alle filosofie dell’angoscia del vivere - avesse in ciò ragione o meno, ma comunque con una visione direi da “giudizio universale” di Michelangelo - Teilhard non si perita di dirsi ottimista, perché “la vita, raggiunto il livello del pensiero, non può continuare oltre senza esigere, per struttura, di salire sempre più in alto (p. 313).”

Si pone cioè, dopo la vita, la questione della “supervita” (quarta parte).

Questa parte è particolarmente interessante pure da un punto di vista etico e politico (anche se “stranamente” in tutto l’impianto del discorso di Teilhard si sente poco la dimensione religiosa stricto sensu, ossia come mondo dell’interiorità: se non nella forma, pur importantissima, di quello slancio mistico all’unione con tutto e tutti che Giordano Bruno avrebbe chiamato degli “eroici furori”). Teilhard vuol andare oltre sia rispetto alla posizione meramente individuocentrica (che potremmo ben dire liberale e soprattutto liberista, o liberal-capitalistica, incentrata sull’Io singolo e sui suoi diritti), sia a un genere di collettivismo che risolva l’Io singolo nell’”isolamento di un gruppo”, ossia in un insieme collettivo ma parziale, come la propria pretesa razza (nazismo) o classe sociale (comunismo), perché il problema è quello di un’empatia e unione senza confini, e quindi di politiche che Edgar Morin e Anne Brigitte Kern chiameranno - in Terra-patria, nel 1993 (Milano, Cortina, 1994) - “unitive”, vedendo in ciò stesso il tratto della positività.  Questo trenta o quarant’anni fa mi sarebbe parso interclassista, contrario alla lotta di classe, mentre invece ora mi pare una buona direzione di marcia, purché non sopprima la lotta necessariamente, ma comprenda la necessità costante un incontro-scontro di singoli come di gruppi sociali o politici, chiamati a competere cooperando ed a cooperare competendo. Infatti, su ciò, respingendo vuoi l’individualismo liberal-capitalistico che le posizioni nazionaliste o naziste, nota: “L’esito del mondo, le porte dell’avvenire, la penetrazione nel super-umano non si aprono per qualche privilegiato, o per un solo popolo eletto tra tutti i popoli! Non si apriranno che sotto la spinta di tutti noi collegati insieme, in una direzione in cui tutti insieme possiamo raggiungerci e compierci in un rinnovamento spirituale della terra … (p. 328 e poi 330).”

Ciò posto - sulla base della sua visione, che vede nel fenomeno coscienza (e intelligenza) un’immensa risorsa per tutta la natura e per tutti i suoi viventi, specialmentema non esclusivamente umani – Teilhard de Chardin si apre a posizioni che se mai fossero di nuovo notate apparirebbero “ereticissime” anche alla chiesa di oggi, timorosa di ogni intervento di tipo genetico, ritenuto competenza di Dio e non accettabile se compiuto dall’uomo. Infatti, con la lucida chiaroveggenza del grande biologo, benché si fosse solo nel 1947 nota: “Un tempo i precursori dei nostri chimici (alchimisti) si accanivano alla ricerca della pietra filosofale. Oggi, la nostra ambizione è cresciuta. Non ci basta più fabbricare l’oro, noi vogliamo fabbricare la vita! E vedendo ciò che succede da cinquant’anni a questa parte, chi oserebbe dire che si tratti soltanto di un semplice miraggio? … Ora che conosciamo gli ormoni, non siamo forse alla vigilia di mettere la mano sullo sviluppo del nostro corpo? E persino del nostro stesso cervello? E con la scoperta dei geni, non saremo forse ben presto in grado di controllare il meccanismo delle eredità organiche? E, con l’imminente sintesi degli albuminoidi, non saremo forse capaci un giorno o l’altro di provocare ciò che la terra abbandonata a se stessa non sembra poter più realizzare, e cioè una nuova ondata di organismi, una neovita, artificialmente suscitata? (p. 335).” Intravede pure possibilità innovative inconcepibili per il senso comune, ma “del tutto naturali perché  semplicemente proporzionate alle immensità astrali” per lo “spirito familiarizzato con le fantastiche dimensioni dell’universo (p. 338)”. 

Su ciò confligge con ogni visione pessimistico individuale, notando acutamente che ci abbiamo messo due milioni di anni di evoluzione umanoide ed umana per arrivare qui, il che rende le sconfitte anche atroci subite dagli sforzi miglioristici audaci degli ultimi duecento anni una cosa ben relativa (p. 342). Decreta la fine dell’individualismo (liberale, capitalistico) e l’avvento dell’”epoca delle masse” (in cui il singolo può solo realizzarsi partecipando a tali insiemi), anche se di tale epoca delle masse per ora si è espressa solo la forma fallimentare, “meccanizzata”, da formicaio (il “cristallo al posto della cellula. Il termitaio al posto della fraternità”), non superpersonalistica ma alienata, tramite nazismo e comunismo di stato (pp. 344-345).  Ma tutto indica (indicherebbe) che si va verso un uomo che restando individuo porti l’intersoggettività e i viventi nella sua propria psiche, come propria natura, realizzando la fusione di tutto e tutti nell’intimo (p. 354 e 363), che è poi l’umano-divino, il “punto omega”, il vertice di una “piramide rovesciata” (p. 364) nel senso che qui non c’è un Dio che si proietta all’ingiù (come nella piramide che va dal vertice alla base, dal Creatore al creato), ma che si fa uno al punto d’arrivo, procedendo dall’ameba al totalmente umano-divino “in interiore homine”. Solo in queste pagine finali, massimamente “prospettiche”, Teilhard sembra concedersi qualche slancio mistico, anche in tal caso trattenuto volendo egli fare un discorso da scienziato pur spiritualmente aperto, come laddove scrive: “… cosa significa, nei nostri cuori, quell’istinto irresistibile che ci spinge verso l’unità ogni qual volta, in una qualsiasi direzione, la nostra passione si esalta? Senso dell’universo, senso del Tutto: di fronte alla natura, in presenza della bellezza della musica, la nostalgia che si impadronisce di noi, - l’attesa ed il sentimento di una grande Presenza (p. 358).”

Con lucida preveggenza Teilhard comprende, nel 1947, che si va verso la mondializzazione in tutti i campi, già descritta in termini di globalizzazione: “Distribuzione delle risorse del globo. Regolazione della spinta verso gli spazi liberi. Uso ottimale delle potenze liberate dalla macchina. Fisiologia delle nazioni e delle razze. Geo-economia, geo-politica, geo-demografia. L’organizzazione della ricerca deve ampliarsi ed assumere la forma di un’organizzazione ragionata della terra. Ci piaccia o non ci piaccia, tutti gli indizi e tutti i nostri bisogni convergono nella stessa direzione: noi dobbiamo edificare, e stiamo di fatto edificando irresistibilmente, una energetica umana, per mezzo e al di là di tutta la fisica, di tutta la biologia e di tutta la psicologia (p. 382).”

Apparentemente la Modernità (“la terra moderna”) è sorta da un distacco totale tra scienza e religione, anzi da un conflitto tra le due; ma dopo la lunga antitesi si lascerebbe intravedere la sintesi (p. 382). Questa avrebbe a che fare con una sorta di nuovo spirito direi rinascimentale, della dignitas hominis, umano-divina, riscoperto questa volta intersoggettivamente,  in cui la nuova terra sarà questa volta nello spazio. Non era ancora partita astronave alcuna, e neanche era stata progettata, ma già Teilhard, in questo 1947, si interrogava così: “… ci si può anzitutto chiedere seriamente se la vita non riuscirà un giorno a forzare ingegnosamente gli sbarramenti della sua prigione terrestre, sia che trovi il mezzo di invadere altri astri inabitati, sia che, avvenimento ancora più vertiginoso, stabilisca un collegamento psichico con altri focolai di coscienza attraverso lo spazio. L’incontro e la reciproca fecondazione di due Noosfere … (p. 386).”

Il processo naturalmente può mettere insieme, a quel punto, parusia (il ritorno finale del Cristo che instaura il suo Regno divino), apocatastasi (l’unione degli esseri nell’Essere di Origene) e apocalisse (di Giovanni), ammettendo che tale svolgimento estremo della vita fattasi superintelligente potrebbe darci però anche un’immane distruttività (p. 389). Tuttavia prevale certamente l’ottimismo, anzi una sorta di teodicea, di “giustizia di Dio” in fieri, solo nelle ultime pagine esplicita. La città di Dio - il mito del regno di Dio o Cristo che torna facendo trionfare bene e fratellanza del sogno protocristiano, e la sfera soprannaturale del giusto opposta da Agostino al mondo “cattivo” e incattivito senza Dio - è per Teilhard l’unificazione mondiale. Dio all’inizio della vita si sarebbe immerso nell’evoluzione dal punto iniziale al finale, dall’ameba all’uomo-dio, tramite uno psichismo cresciuto di essere in essere, di specie in specie, dal minimo al massimo. E alla fine diverrebbe “tutto in tutti”, come già intuito da San Paolo (p. 399). L’idea sommamente cristiana di un amore universale sarebbe enunciata per farsi, alla fine dei tempi, reale (p. 401). Questo sarebbe stato già fatto una volta, evidentemente da Cristo, ma come anticipazione evolutiva per tutti: “Francamente, che su di una apprezzabile superficie della terra sia apparsa e si sia sviluppata una zona di pensiero nella quale un vero amore universale non solo sia stato concepito e predicato, ma si sia rivelato psicologicamente possibile e praticamente operante: ecco per la scienza dell’uomo un fenomeno d’importanza capitale, tanto più capitale in quanto il movimento, anziché rallentarsi, sembra voler ancora aumentare   in velocità ed in intensità (p. 402). È il tema, anche di Blondel del Cristo come “vinculum” unitivo di tutto e tutti, espresso già nel 1893 da quel filosofo, in L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della pratica, a cura di S. Sorrentino, Cinisello Balsamo, Paoline, 1993), ma qui il tema stesso diventato una sorta di bussola per capire “chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo”: un Blondel grande corrispondente di Teilhard (come risulta in: Blondel et Teilhard de Chardin. Correspondance, a cura di Henri de Lubac, Paris, Beauchesne,1965). Su tale base Teilhard nega la tesi che oggi si dice della secolarizzazione estrema, sostenendo che lungi dall’essere in estinzione il cristianesimo sarebbe alla vigilia, per molti segni, “di un rimbalzo in avanti” (p. 402), che fa scoprire Cristo nella “noogenesi” e infine nella “cosmogenesi”, intesa in sostanza come cristificazione promessa sin dalle lettere di San Paolo e dall’Apocalissi di Giovanni, che si fa effettiva (p. 403), dando alla fine l’esperienza di “Dio tutto in tutti” (p. 423), in cui essere e vita, Tutto e Uno, panteismo e teismo, Natura ed Eterno, si danno esplicitamente la mano. La visione può anche apparire troppo “prospettivista”, ed anche ottimista, ma è quantomeno una “possibilità che sì” che fa pensare.

 (franco.livorsi@alice.it)

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