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Anima e terra: aforismi e annotazioni
Wilma Scategni insegna l’”Abbecedario” agli psicoterapeuti
Franco Livorsi

Conosco da tanti anni lavulcanica attività di organizzatrice culturale, di conduttrice digruppoanalisi, di psichiatra e soprattutto di psicologa analitica di WilmaScategni, di cui mi onoro di essere amico e collaboratore. Ma mi si consenta diessere creduto sulla parola se affermo subito che la simpatia e stima perl’autrice non basterebbero a indurmi a parlar bene di un libro se esso non mipersuadesse sinceramente. Al più potrei tacerne. Invece il piccolo testo dellaScategni Abbecedario per psicoterapeuti in formazione (Roma, Edizioni Magi, pagg. 86) è proprio bello. Èun vero strumento didattico, che ricorda gli schemi analitici che taloracostruiamo come traccia ragionata per i nostri corsi universitari, quale sia lamateria d’insegnamento. Ma, come nei migliori tra tali “tracciatid’impostazione”, si danno passaggi decisivi, formidabili intuizioni espressecome la cosa più naturale del mondo.

   Il lavoro si articola in due parti: una sullapsicoterapia “come finestra sul mondo”, incentrata sull’analisi junghiana comepratica rivolta ai sofferenti nella psiche che sono come tutti noi, anche sestiano peggio, ed una sull’”approccio junghiano in psichiatria”.

  La prima parte è più pragmatica. Ci racconta come siverifica per lo più la scelta dell’analista da parte dei pazienti (p. 12). Illustrai temi più frequenti che emergono nelle sedute (p. 42). Ci dice quanto siaimportante stabilire un qualche “spazio di ‘decantazione’ prima e dopo laseduta”, in modo da dare all’incontro tutto il suo senso interiore e raccoglierloin se stessi non appena sia terminato. Ci avverte pure sull’importanza di dareagli incontri una cadenza regolare, che consente al materiale inconscio, specieonirico, di scandirsi. Persino il tempo dell’incontro dovrebbe essere regolare,tanto che se si “sborda” dovrebbe essere fatto a ragion veduta (pp. 19-21). Perl’analisi “clinica” del paziente l’autrice propone una specie di schema perpunti analitici volto a vagliare la situazione complessiva del paziente, direimodellato su quello medico (il che forse può essere connesso al fatto che WilmaScategni è in origine un medico psichiatra), ma ne ridimensiona subitol’importanza, avvertendoci che quello che conta è la forza dell’empatia, che “èinfatti (non ci stancheremo mai di ripeterlo) la scintilla che rende possibileil rapporto, l’accoglienza, l’incontro e infine lo strutturarsi di unarelazione che possa definirsi a tutti gli effetti ‘terapeutica’ (p. 15).” Questotratto forte dell’analisi naturalmente si connette al transfert, che in veritàtanto Freud quanto Jung mettevano al centro della relazione analitica. Ma,direi, mentre in Freud il transfert era soprattutto un problema del paziente,in Jung e nella sua scuola era ed è una faccenda molto bidirezionale. Per Jungnella vasca alchemica della rinascita “il re e la regina”, il terapeuta el’anima sofferente - se non addirittura i due sofferenti, l’uno per scelta disimpatia verso l’altro, e l’altro, o altra, per condizione esistenzialelacerata - entrano insieme: il “solve et coagula” alchemico, psicologico analitico, è reciproco (come si vede benenella sua opera La psicologia della traslazione illustrata conl’ausilio di una serie di immagini alchemiche,del 1946, compresa nel vol. XVI delle “Opere” edito a Torino da BollatiBoringhieri, nel 1982), anche se certo l’uno è più sofferente dell’altro. E  se non vi sia vera condivisione, oalmeno parziale condivisione, anche del “male di vivere” del paziente, inanalisi non succede niente, o assai poco. Il “transfert”, che talora è dettopure “traslazione” (come nel titolo dell’opera di Jung or ora citata), è, “comenoto, l’insieme di sentimenti aspettative e proiezioni che ilpaziente indirizza in modo più o meno appropriato sul terapeuta e ha una parte determinante nell’influenzare laterapia (p. 35).”  Il controtransfertè la risposta transferale del terapeuta, che non può né deve essere fuor dicontrollo (perché altrimenti i pazienti diventano due), ma neppure asettica.Direi che implica forte simpatia anche da parte del terapeuta, pur escludendol’innamoramento “vero” (o altro sentimento fuor di controllo o diidentificazione o di contrapposizione “troppo” irrazionale). Il fine delprocesso analitico è naturalmente autorealizzativo, anche se la definizionedell’”individuazione” semplicemente come “il vivere al meglio la propriaindividualità in relazione al contesto ambientale, familiare e sociale diappartenenza (p. 31)” è forse un po’ troppo schematica.

   Mi persuadono molto, piùoltre, tre passaggifondamentali di questa prima parte.

  Il primo passaggio è un che di divino che sembra doveremergere dal fondo della psiche, a mio parere - e certo anche della Scategni -centrale nell’individuazione: “Namasté -scrive  lei - è il saluto che inIndia si rivolgono le persone: significa letteralmente ‘saluto le divinequalità che sono in te ’. Sono quelle che (…) dovrà scovare il terapeutaattraverso la relazione, cercando per se stesso e per il paziente il modomigliore per farle emergere, proteggerle e averne cura (p. 28).” L’autrice peròne dà subito una versione pure laico occidentale, trovando l’equivalente nostrodi quell’istanza, d’origine espressamente religiosa, nel “rispetto dell’altro,della sua vita, della sua storia e delle modalità esistenziali che ne stannoalla base (p. 28)”.

   Il secondo passaggio verte sulla questione del sogno,che ovviamente è al centro di ogni lavoro analitico da Freud in poi (sin da L’interpretazionedei sogni del vecchio Sigmund, del 1899 maedito nel 1900, e in “Opere”, Bollati Boringhieri, 1966, vol. III), conavvertimento - ovvio per gli studiosi, ma non per i fruitori dell’ABC dellapsicologia analitica - sul fatto che il “messaggio del sogno” è rivolto “sempree comunque” e “unicamente al sognatore” (p. 42).

   Il terzo passaggio concerne il tempo in psicoterapia,specie laddove nota: “A proposito del tempo in psicoterapia è essenzialesottolineare quanto sia importante che il tempo in cui si tratta nel corso dellesedute sia sempre bilanciato tra presente, passato e futuro.   Una terapia i cui contenutirestino ancorati unicamente al passato non permette uno sguardo in avanti  e può frenare o comunque ostacolare ilprogredire di un percorso individuativo (pp. 40-41).” Qui c’è la pienaassimilazione di un approccio junghiano, nel senso che per Freud era statosempre decisivo il tempo “passato”, incentrato sulla prima infanzia, laddoveJung, proprio nella fase di rottura con Freud, spiegò - in Saggio diesposizione della teoria psicoanalitica,del 1912, in “Opere”, cit., 1980, vol. IV - che l’infanzia dà solo leprecondizioni remote del male di vivere, che ha il suo focus nel disagio deltempo presente e il suo sbocco non già nel ritrovare il bambino ferito, ma nelvolgersi ad una vita nuova, per così dire rinascendo a se stessi.

   Ancor più originale mi è parsa la seconda parte dellibro, in cui Wilma Scategni è evidentemente in grado di tesaurizzare la suaformazione psichiatrica per così dire immergendola dentro lo junghismo, comecerto ha fatto e fa nella sua pratica analitica. Così l’autrice ci chiariscecon alcuni tratti l’evoluzione della psichiatria da quella classificatoria diKraepelin (l’autore del famoso manuale su cui il giovane studente Jung avevadato il suo esame, decidendo poi di diventare psichiatra, come risulta nei suoiRicordi sogni e riflessioni, a cura diA. Jaffé, del 1961, e Milano, Rizzoli, 1978), alla psicofarmacologia, con isuoi grandi progressi, e alla psichiatria sociale e connesso superamento dellavisione manicomiale da parte di Basaglia (p. 50). La Scategni ci descrive bene,in breve, la natura della psicosi, ma anche della schizofrenia, ricordandocicome propria analizzandola Jung riuscì a cogliere ampiamente “l’emergere di unasimbologia arcaica, analogica, che si esprime in un linguaggio di immaginipregnanti, dai molteplici significati, simile a quella dei sogni, delle fiabe edei miti (p. 53).” Vide insomma emergere gli archetipi dell’inconsciocollettivo, poi al centro della sua opera. E qui direi che si deve andare innanzituttoall’opera di distacco vero di Jung da Freud, Trasformazioni e simbolidella libido (1912), poi profondamenteriveduta  col titolo Simbolidella trasformazione (1952) senza piùinibizioni del genere del voler vedere nei simboli erotici dell’inconsciocollettivo il corrispettivo della libido, in senso psicobiologico quando perlui, in fondo platonicamente e neo platonicamente, era vero il contrario. Tuttaquesta fioritura di immagini arcaiche o archetipiche, di “sogni, immagini efantasie”, “nello psicotico prende il sopravvento, rivelandosi portatrice dispettri e paure non meno pericolosi della realtà esterna. (…) Nello stessotempo la medesima realtà interna e il suo mondo immaginale si rivelano utili e‘soccorrevoli’ quando si conoscano le vie per evitarne i pericoli e scoprirne itesori (p. 53).” Questo mi sembra veramente molto bello e importante. Lo stessoabisso in cui lo psicotico può quasi morire, contiene pure il tesoro, il mondo“altro”, sacro e spirituale, “redentivo”; questo abisso emergente fuor dicontrollo distrugge la coscienza, ma ben accolto e filtrato la fa invece rinascere.Certo salvare dall’abisso lo psicotico è molto “difficile” (è ribadito). In luisentimenti ed emozioni sono come in un guscio, da cui non vogliono uscire (“lui”- o “lei” - non vuole, non può uscire). Si è costretti a comunicare con lui (olei) con linguaggio simbolico (p. 57), direi entrando nel suo mondo fantasticoper incidere in esso. Dovrà esserci molto ascolto e attesa che qualcosa dieffettivamente comunicativo, per così dire da anima ad anima (e per ciò“fruttificante”, fecondo, risanante per il paziente), si verifichi. Dovràesservi lo sforzo per farsi accettare nel mondo del paziente, per quanto sia “difficile”(p. 60). Dovrà esservi uno speciale impegno da un lato per migliorare la suacondizione esistenziale e dall’altro per promuoverne un qualche inserimentosociale (p. 59). Ma ciò nello junghismo è reso possibile anche da un approccio piùaperto al mistero, che consente di “convivere con l’incertezza, il dubbio,l’ignoto e il mutevole”, anche “semplicemente essendone testimoni, in grado disostenere l’ansia che questi elementi possono creare e nello stesso tempo nonesserne annientati (p. 60).” In tale visuale c’è una luce in fondo al tunnel,perché le immagini dell’inconscio, se filtrate, attivano quella che Jung chiama“funzione trascendente” (e qui richiamerei il saggio di Jung del 1916 e poi1958 La funzione trascendente, in“Opere”, 1983, VIII), che mette a contatto inconscio e coscienza (p. 63): direi- in specie - il Sé come punto focale della mente vuoi inconscia e vuoiconscia, che si potrà poi interpretare o in chiave ontologica (come ha teso afare Jung con i suoi diretti discepoli e soprattutto discepole, ma pure, eancor più, Hillman) oppure meramente simbolica (come Mario Trevi ed altri,sebbene per me discutibilmente). Questa dimensione - di cui le immaginiarcaiche dell’inconscio sono impregnate, e che il principio psicologico detto trascendentepuò filtrare se mai la si raggiunga - è quella che Mircea Eliade - nella grandeopera fondamentale dalla Scategni citata, Lo sciamanismo e letecniche dell’estasi, del 1951, e Roma,Mediterranee, 1974, ma ancor meglio, a mio parere, nell’operetta illuminante Ilsacro e il profano, del 1957, edita daBollati Boringhieri nel 1967 e infine nel 2006 - ha chiamato “Sacro”,tematizzandone in modo vasto e convincente la problematica, ancheoriginariamente “psicoterapeutica” (oltre che “religiosa” di segno formalmenteparanormale, animistico). Ma questo Sacro il quale - quale sia la sua naturaultima, meramente psicologica o anche “d’essere” (ontologica) - fa morire lavecchia individualità o mandandola in pezzi (follia) o facendola rinascere a sestessa (individuazione), abbisogna di uno spazio specifico, interiore,psichico, in cui potersi inserire, direi quasi come un fiume in piena che vengaregolato dai suoi argini per poter scorrere senza tutto travolgere. Questo“recinto sacro” (l’ellenico témenos,direi come il luogo sacro, espressamente témenos, in cui Edipo dopo infiniti travagli trova infinepace a Colono, nell’opera Edipo a Colono composta dal novantenne Sofocle nel 401 a.c., come risulta nel libroin cui è riproposta: Tragici greci. Eschilo, Sofocle, Euripide, a cura di R. Cantarella, Milano, Mondadori, 1977),per lo junghismo è proprio la relazione analitica. Infatti Wilma Scategni, inun punto che io considero idealmente conclusivo, e che enuncia pure il sensodella “chiamata” psicologico analitica, al proposito nota: “Tale témenos è rappresentato, nell’approccio junghiano inpsichiatria, dalla situazione del setting, che assume per il terapeuta e per ilpaziente l’aspetto di uno spazio protetto (p. 71).” Ma naturalmente vale pureper la “semplice” psicologia analitica, forse persino di più. Il ruolomaieutico, da arte della levatrice nel campo della psiche, dell’analisi - ilsuo essere spazio o quantomeno possibilità più o meno ampia di rinascita ininteriore homine - con ciò balza in pienaevidenza, dandoci in fondo il significato profondo di quest’oscura “arte”.

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