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Letture
Saraceni ad Acqui (II)
Giancarlo Patrucco

Capitolo II

La festa dell’Assunta si annunciò con un sole splendente. Dopo il tempo piovoso dei giorni precedenti, quell`improvviso risveglio dell`estate confortava gli abitanti di Aquae, ma soprattutto i fuggitivi dalle campagne circostanti. Per loro era come trovare un`occasione di tregua, una pausa di spensieratezza in mezzo ai momenti cupi che stavano attraversando.

In quei giorni di terrore, di fronte all`invasione saracena che stava montando, anche il cielo, scosso dai tuoni e dai lampi delle folgori, sembrava essersi chiuso alle speranze. Ora, la luce e il calore arrivavano ad infondere nuova fiducia, rianimavano gli spiriti e lenivano gli affanni.

Dall`alba il popolo di Aquae era in faccende. Sulla riva sinistra del torrente Medrico, subito dopo il ponte, c`era mercato nei pressi delle terme e dai bastioni sotto il vecchio castro risuonavano i comandi della rassegna d’armi; lungo la riva destra  era tutto un brulichio di panni stesi davanti ai ricoveri dei profughi e di bambini  che si rincorrevano in mezzo agli orti, tra il pollame.

In quella zona, cosparsa di ruderi e di case che erano poco più che capanne, spiccava la mole squadrata del duomo, intonacato di bianco. Nel grande spiazzo della chiesa nuova, consacrata a san Pietro, fervevano i preparativi per la novena e per la liturgia solenne che avrebbe concluso le celebrazioni. Una Messa particolarmente sentita quell’anno,  perché tutta la città si sarebbe raccolta in preghiera, supplicando  la Beata Vergine di preservarla  dalla minaccia che si stava addensando. Così, mentre i servi dell’episcopato ripulivano lo spiazzo, alcuni chierici tiravano a lucido la chiesa, preparandola ad accogliere l’omaggio dei fedeli. O del popolo di Dio, come amava dire il vescovo Restaldo, aprendo il volto pacioso al suo solito sorriso, mansueto e soddisfatto.

Quel sorriso, unito all`aria mite e un po` dimessa, era il modo con cui Restaldo amava presentarsi al mondo. In genere funzionava benissimo con le persone semplici, ma non mancava di conquistare anche i più altolocati. Ad Aquae, ad esempio, se il popolino  si inginocchiava al suo passaggio e protendeva le mani  a sfiorargli la veste, i maggiorenti cittadini facevano a gara nel cantare le laudi alle sue funzioni. Poi si accalcavano sul sagrato, ben azzimati e parati a festa, disputandosi l`onore di baciargli l`anello.

In tutta la città, l`unico che rimaneva immune da tanto fervore era Aleramo. Lui, di Restaldo aveva un’immagine differente, ricavata dai racconti di suo padre Guglielmo che lo aveva conosciuto  quando  il prelato stava alla corte di re Berengario, nella cancelleria regia. Lì,  Guglielmo aveva visto all`opera un uomo  ben diverso da quello che gli Aquesi amavano  tanto: ambizioso, intelligente, calcolatore,  tenace nel tessere intrighi e  abile  nel volgerli  a suo vantaggio. Allora – borbottava il vecchio  – il sorriso non riusciva a nascondere la brama che gli accendeva d`improvviso lo sguardo o gli faceva serrare le mani  in un gesto nervoso, come quello di un rapace. 

Proprio quello sguardo non aveva permesso ad Aleramo di godersi appieno l`investitura, quando re Ugo e suo figlio Lotario gli avevano conferito il titolo nel palazzo imperiale di Papia. "Conte di Aquae" aveva berciato Ugo porgendogli la mano, con la voce roca per il troppo bere. "Conte di Aquae" aveva detto Lotario, mentre un sorriso stento illuminava il suo volto da malato. "Conte di Aquae" aveva provato a ripetere lui, mentre si rialzava sorridendo e prendeva posto in mezzo ai due sovrani. Poi i suoi occhi avevano incontrato quelli di Restaldo, confuso in mezzo ai cortigiani. E quello sguardo freddo gli era sembrato valere quanto una sfida.

Eppure, la nuova carica rappresentava un bel passo avanti. Due anni prima aveva già ottenuto la corte di Auriola,  ma Aquae…Aquae aveva un peso ben diverso: era qualcosa di speciale.  In quelle terre desolate, a ridosso della costiera ligure, si giocavano i destini del regno. Di lì arrivava la minaccia saracena, che dominava il mare e risaliva verso l’entroterra cercando di stabilire un caposaldo nella pianura. Tenere Aquae significava lasciar fuori i Saraceni, chiudere  le porte delle ricche città del nord in faccia agli infedeli. E, chi avesse compiuto queste gesta, lo avrebbe fatto sotto gli occhi della Cristianità intera.

Aleramo si sentiva nel pieno delle forze, pronto a cogliere la sua grande occasione. Non poteva lasciarsi intralciare da uno come Restaldo; quindi, tanto peggio per lui se ci avesse provato.  Così,  risoluto a farsi valere, era partito per la città, determinato a combattere i nemici dentro, come quelli fuori. Al seguito, un manipolo di uomini a cavallo, decisi e ben armati, guidati da Folco, il suo fidato scudiero.

Per la verità, Folco era ben più di uno scudiero. Dove andava Aleramo, un passo indietro c’era Folco, si trattasse di uno scontro armato, di una partita di caccia oppure di un semplice viaggio per affari. Qualunque cosa fosse, Folco era sempre lì, silenzioso come un’ombra e massiccio come una quercia, con le mani che parevano vanghe e un cespuglio di peli rossi che gli nascondeva il viso, rendendolo ancora più somigliante a un orso bruno.

Aleramo si era così abituato ad averlo intorno, che a volte se ne scordava. Taciturno di carattere, riusciva quasi a specchiarsi nei silenzi dell’altro, rivedendo in lui molti dei suoi pensieri. Così, le poche parole dette sembravano l’eco di un lungo discorso a cui entrambi avevano partecipato.

Arrivando ad Aquae, però, ciò che videro tolse loro la voglia di dire anche quelle parole.  Le vecchie mura romane della zona occidentale erano tutta una rovina. D`altronde, non erano state costruite per resistere a degli eserciti, ma per arrestare delle improvvise scorrerie. Non avevano camminamenti, feritoie o torri che rendessero possibile una difesa. Soltanto un muro, che i secoli avevano consumato e i saccheggi avevano provveduto a smantellare. L’amministrazione cittadina aveva cercato invano  di ripristinarlo, puntellandolo qua e là, ma ne era risultata una protezione tanto misera,  da convincerla a ritirarsi nella parte opposta.

Lì, una difesa poteva appoggiarsi su elementi di forza ben maggiori. Prima di tutto, l’altezza. In quel punto il profilo della collina s’innalzava bruscamente, rendendone difficile la risalita. Così, seguendo il profilo dell’erta, era stata edificata una nuova cinta, che racchiudeva  al suo interno molti degli edifici più importanti della città. A destra rimaneva fuori soltanto l’antico complesso delle terme, proprio accanto al torrente Medrico. Era un punto nevralgico per la difesa, ma il corso d’acqua e la palizzata che ne delimitava il tragitto rappresentavano comunque due  formidabili protezioni. A sinistra, infine, c’era il castro costruito dai Romani, là dove la via Aemilia si biforcava per aggirare l’abitato. Le sue fortificazioni erano ampie e solide, provviste di un profondo fossato e di un torrione  che si profilava massiccio al centro del cortile.

Non era la prima  volta che Aleramo aveva a che fare con i Saraceni e sapeva per esperienza che le postazioni fortificate li mettevano in difficoltà. D’altronde, non avevano quasi mai il tempo e neppure la capacità di costruire  le macchine necessarie ad espugnarle. Quindi, decise subito quello che bisognava fare. Per prima cosa, rinforzare le mura orientali e presidiare il castro. Poi, all’arrivo dei nemici,  abbattere l’unico ponte  che univa le due rive del Medrico  e  rinserrarsi al riparo di quelle difese. Se la città fosse riuscita a resistere ai primi attacchi, i Mori avrebbero dovuto accontentarsi  di saccheggiare le campagne intorno, prima di far ritorno ai loro covi.

Il piano sembrava ad Aleramo semplice e ben congegnato. Data la situazione, era anche l’unico possibile. Peccato, però, che  tutti i lavori in corso fossero concentrati nell’altra zona.

Per quanto si sforzasse,  non riusciva a capire chi avesse potuto  commettere un errore così insensato. Poi, mentre risaliva ancora una volta il tratto occidentale, Folco stese il braccio in avanti e indicò qualcosa. Aleramo si raddrizzò sulla sella, aguzzò gli occhi e, oltre la palizzata in costruzione alla sua sinistra, scorse in lontananza la sagoma di un grande edificio in muratura, con  una croce in cima. Allora diede di sproni al cavallo, s’infilò in un varco della cinta e partì di gran carriera.

La chiesa risultò parte di un complesso più vasto, ubicato in  uno spiazzo che si allargava  quasi a toccare la sponda del torrente, lungo il percorso della via Aemilia in uscita dalla città. Riparati da bassi muretti a secco, c’erano alcune vasche per l’acqua, una stalla, un frutteto, un capanno e un magazzino. Tutti in perfetto ordine e nuovi nuovi, come se fossero stati appena costruiti.  Né Aleramo, né Folco ebbero bisogno di chiedere da chi.

Il vescovo non venne menzionato neanche durante l’incontro che Aleramo ebbe a palazzo regio con gli Aquesi. L’amministrazione cittadina ascoltò le sue ragioni, prese nota delle richieste e se ne andò, facendo molti inchini, ma dando poche rassicurazioni. Gli incontri successivi ebbero lo stesso esito, anche se Aleramo perse più volte la pazienza e trattò in malo modo i notabili presenti. Eppure, per mettere a punto le sue difese gli servivano soldati, rifornimenti, armi, attrezzature. E poi fabbricieri, carpentieri, capimastri, sterratori, che facessero i lavori di scavo, alzassero i terrapieni, rinforzassero i bastioni. Tutta gente che dipendeva dalla città e non era mai disponibile per lui, anche se lavorava alacremente nell’altra zona. Così, dopo settimane di inutili cipigli e di penose lamentazioni, aveva dovuto arrendersi. Il messaggio era chiaro:  passare da Restaldo  e vedersela con lui. 

Combinare un incontro  non era stato facile. C`era voluto tempo, e molta diplomazia, persino per trovare una sede adatta. Se il vescovo non riteneva confacente il palazzo regio,  il conte dal canto suo  preferiva evitare la residenza episcopale.  Finalmente, dopo un fitto scambio di messaggeri, entrambe le parti avevano convenuto di potersi ritrovare nel castro.

Restaldo c`era arrivato in pompa magna, con tanto di portantina e pastorale.  A sottolineare la sua posizione e il suo rango, aveva risalito l`erta della rocca seguito da uno stuolo di paggi e accompagnato dall’intero consiglio cittadino. Una volta dentro, aveva accettato l`ossequio della guardia  e si era diretto verso la sala grande del torrione con l’incedere di un re.

Aleramo si era ripromesso più volte di mantenere la calma, ma quel codazzo e quella pompa lo infastidirono alquanto. Così, dopo che tutti si furono accomodati  intorno al  tavolo di noce che campeggiava in mezzo alla stanza, decise di andare direttamente al punto.  - La situazione è particolarmente grave, Eminenza - disse con foga. - Da un momento all`altro potrebbero arrivare i Mori e noi dobbiamo prepararci a fronteggiarli.

Restaldo stava seduto su uno scranno coi braccioli, in mezzo ad un notaio che si chiamava Agicardo e a uno scabino che di nome faceva Roffredo. Alla nota d’urgenza nella voce del conte, rispose ostentando la massima tranquillità.  Sollevò le mani inanellate, le congiunse sotto il mento e alzò gli occhi paciosi verso il suo interlocutore. - Se lo dite voi - fece con aria imperturbabile.

Visto il tono, Aleramo capì che sarebbe stata una giornata lunga. Così tirò un respiro e tenne a freno la rispostaccia che gli era salita alle labbra. - Non lo dico solo io, Eminenza - ribatté con più calma. - Lo dicono i loro movimenti, la direttrice dei loro attacchi e i profughi che continuano ad affluire. I fatti, insomma.

Un sorriso  beffardo sfiorò le labbra di Restaldo. - Ah, i fatti - disse. - Sì, sono d’accordo con voi, conte. I fatti sono importanti. Ma, è un fatto anche che non stiamo parlando di un villaggio qualsiasi. Aquae è una grande città e ci vuole ben più di una banda di predoni per conquistarla.

- E` vero, Eminenza - concesse Aleramo - Aquae è una grande città. Però rappresenta un passaggio obbligato verso l`interno.  Quindi, verranno in tanti. Non una banda di predoni, ma un vero esercito, perché da Aquae passa la strada che conduce ad altre prede, ancora più grandi e ricche.

 - Se quello che dite è vero - osservò Restaldo con cautela - dovremmo avere un po` di respiro. Un esercito non s`improvvisa. C`è bisogno di tempo per radunarlo, armarlo, metterlo in marcia…

Aleramo non lo lasciò finire.  - Tempo, dite? - e alzò un braccio a indicare la finestra che aveva di fronte. - Vedete, Eminenza, il sole  s`incarica di darvi la risposta.

In effetti, se ogni giorno piovoso di quell`estate strana aveva rappresentato un intralcio per le bande saracene, l`arrivo del bel tempo capovolgeva completamente la situazione. Il sole che entrava a fiotti nella sala significava che la marcia dei nemici si sarebbe fatta più spedita, i rifornimenti più celeri e la resa dei conti più vicina.

Aleramo ne era sicuro - Il sole li aiuta - ripeté. - Saranno qui fra qualche giorno al massimo, se non prima.

Per la prima volta dall`inizio del colloquio, Restaldo parve sconcertato. Seguendo il braccio del conte, guardò fuori e assunse un`aria meditabonda.

A quel punto, Aleramo provò ad incalzarlo. - Credetemi, Eminenza - continuò - arriveranno presto e non abbiamo difese sufficienti per respingere il loro attacco. - Poi, per rafforzare la sua affermazione, spiegò una pergamena  che stava sul tavolo e indicò la mappa che vi era tracciata. – Vedete: questo è il Borbore e questa è Aquae. Ora, capite anche voi che è un`estensione troppo vasta per essere difesa. E non abbiamo tanti uomini da sacrificare.

In quegli anni, oltre alla cura delle anime, Restaldo non aveva tralasciato quella dei corpi. Specialmente il suo. Così, con qualche difficoltà, sporse la pancia dallo scranno e abbassò la pappagorgia sulla mappa. Lo scabino e il notaio si curvarono a loro volta, aggrottando la fronte nel tentativo di decifrare un documento così diverso da quelli a cui erano abituati.

Aleramo li lasciò nell`imbarazzo per qualche momento, poi coprì  con la mano la parte sinistra della mappa e disse: - L`unica cosa da fare è abbandonare questa zona.

Restaldo rimase immobile, come impietrito. Il suo sguardo andò dal viso del conte alla mappa e, quando lo rialzò, i suoi occhi erano ridotti a due fessure. - Sotto la vostra mano c`è la mia chiesa!  - sibilò. - E le mie proprietà, anche!

 - Scusate, Eminenza - scattò Aleramo - ma non l`ho costruita io la chiesa in quel punto! E nemmeno il resto! Siete stato voi, se non sbaglio.

Per un momento, Restaldo accusò il colpo. Abbassò la testa e fece tremolare la pappagorgia. Poi lanciò al suo interlocutore uno sguardo pieno di astio. - Non sbagliate, conte. Ma a voi spetta difenderla - disse seccamente.

- Sì, ma non a costo dell`intera città - replicò subito l`altro.

Restaldo sembrò meditare su quella risposta.  Quando parlò, però, il suo tono era più conciliante. - Certo, certo - disse,  sulla difensiva. – Il buon pastore si prende cura del gregge. Ma questo…questo è…

- Un sacrificio, Eminenza - osservò una voce piatta dall`altro capo del tavolo. - Di cui Dio vi renderà merito.

Preparandosi all’incontro, Aleramo aveva deciso di mettere in risalto le sue prerogative militari. Così, oltre che dall’inseparabile Folco, si era fatto accompagnare dai comandanti della piazza. Il più vecchio, un tipo robusto dall`aria dura, portava la casacca verde e rossa degli arcieri genovesi, con il berretto attraversato dalla piuma. L`altro, più giovane ma anche più snello,  indossava una giacca grigia che frusciò leggermente mentre si alzava. Avvicinandosi al vescovo, il ricamo sul giustacuore brillò per un momento sotto i raggi del sole.

 - Purtroppo il conte ha ragione, Eminenza   – aggiunse, indicando a sua volta la pergamena. - Quello è il nostro lato più esposto, dove non abbiamo difese.

Restaldo lo guardò come se volesse incenerirlo. - Anche tu, Leonardo! - esclamò con una punta di risentimento nella voce. - Anche il comandante degli armigeri…contro di me.

Il giovane abbozzò un sorriso. - Non io, Eminenza…la situazione - disse, allargando le braccia  in un gesto di scusa. - Che è quella che vedete.

- Non sempre le situazioni sono come sembrano, giovanotto - ribatté Restaldo con un sorrisetto enigmatico. Poi si girò verso Aleramo e continuò: - Voi, conte, lo sapete certamente meglio di me.

Aleramo, preso di sorpresa, non seppe cosa rispondere. Allargò le braccia a sua volta e scosse il capo. – Può essere - disse con cautela. – Anche se non capisco bene a cosa intendete riferirvi.

Gli occhi di Restaldo ebbero un lampo. - Non sta forse scritto che “il prudente conta più del robusto”? E che la saggezza è la virtù dei forti? - disse sporgendosi in avanti. – Pensateci, conte. Un uomo come voi sa che, a volte, la pace conviene…comprarla.

Quella parola restò sospesa nella sala a lungo. Dopo averla pronunciata, il vescovo aveva ripreso la sua aria imperturbabile. I notabili, imbarazzati, si guardavano la punta delle scarpe; Leonardo rimaneva fermo, in piedi, come folgorato. Soltanto Aleramo si contorse sul suo sedile, sentendosi improvvisamente a disagio.

Nessuno meglio di lui sapeva che Restaldo aveva detto il vero. Più di un nobile, in quegli anni difficili, aveva pagato per avere ciò che non poteva ottenere con le armi. A volte si era trattato di evitare un assalto, una scorreria, un saccheggio condotto a fil di spada. In altri casi era stato anche peggio e l`argento era servito a comprare temporanei alleati da scatenare contro i vicini.

Non era stato forse Berengario  a pagare gli Ungari perché risparmiassero il suo ducato del Friuli? E non era stato forse l`attuale re, Ugo di Provenza, a venire a patti con i Saraceni? Di quelle  cose si poteva parlare soltanto sottovoce, ma erano ben note in ogni corte. E Restaldo era stato un grande cortigiano.

Cercando di ragionare in fretta, Aleramo provò a mettere ordine nella ridda di pensieri che gli affollavano la mente. Prima di tutto, vista la disparità delle forze in campo, non poteva essere uno scambio alla pari.  I Saraceni avrebbero comunque preteso un prezzo altissimo che l’argento, da solo, non avrebbe potuto soddisfare. Forse, addirittura la capitolazione, la resa incondizionata e l`abbandono della città, perché soltanto questo avrebbe consentito ai Mori di usarla come base per la loro avanzata nella pianura.

Tutto ciò Restaldo doveva ben saperlo e, allora, perché se ne era uscito con quelle parole velate, quell`allusione ambigua, quell`accenno che diceva poco, ma lasciava intendere molto? Era veramente convinto di riuscire a cavarsela tanto a buon mercato?

Aleramo si passò una mano sui lunghi baffi chiari e se li lisciò con le dita, mentre il suo naso prominente fremeva,  come quando era a caccia e si trovava incerto sul sentiero da imboccare. Così decise di saggiare il terreno intorno. - Scusate, Eminenza - disse  - ma, se ho capito bene, voi proponete di aprire delle…trattative. Di andare ad un incontro, insomma.

- Un`ambasceria - replicò subito Restaldo.

- E per farne che? Per proporre quali soluzioni?

- Ma conte - esclamò Restaldo sorridendo. -  E` difficile dirlo ora. Ci vuole ponderazione, riflessione, pazienza.  Intanto, finché si parla non si muore.

- Questo è vero - riconobbe Aleramo ricambiando il sorriso - e fa parte del vostro ufficio. Pertanto, presumo che l`ambasceria vorrete guidarla voi…

  Restaldo gli scoccò un`occhiata in tralice, quasi divertita. - Suvvia, conte - sbuffò - sapete bene che  la Chiesa non viene a patti con gli eretici, né coi miscredenti. No. La Chiesa li tratta con lo zolfo e col fuoco. Io  mi limito a interpretare i desideri…anzi …le attese del popolo. Che è qui, ben rappresentato dagli uomini che mi accompagnano. - E fece un gesto vago con la mano.

In risposta, dalla parte del notaio venne un colpo di tosse  che  attirò l`attenzione di tutti. Sentendo su di sé tanti sguardi, Agicardo si contorse sul sedile, tormentando lo zuccotto che teneva in mano. Poi tossì di nuovo. – Qualcosa bisogna pur fare prima…prima del disastro – balbettò, tenendo gli occhi bassi.

- E’ vero! – lo interruppe lo scabino dall’altra parte. Quindi proseguì in tono risoluto: - Come dice il mio dotto amico qui, qualcosa dobbiamo pur fare. Siamo  angosciati. Soprattutto per le  nostre famiglie.

Aleramo guardò l’uomo dritto negli occhi e, come tante altre volte in quei giorni difficili, il pensiero andò alla sua, di famiglia. Alla moglie e al piccolo  Oddone che lo aspettavano nella rocca di Auriola. Per il momento erano al riparo, ma la loro sicurezza dipendeva anche da  Aquae e dalle sue vicende.

Il cuore del regno, ormai, sembrava una cittadella assediata. Mori  e  Ungari  chiudevano la piana italica in una morsa di ferro e di fuoco e persino la capitale, Papia, aveva subito l’onta del saccheggio. Cercare di resistere, di ributtarli indietro,  non era solo interesse delle città più esposte, ma anche di quelle che lo sarebbero state subito dopo. Accettando la nomina, Aleramo si era assunto quell`onere ed era ad Aquae per assolverlo. Altrimenti,  dove sarebbero finiti il suo prestigio e le sue ambizioni?

Per lo scabino e per gli altri come lui, era difficile capire tutto questo e impossibile accettarlo. Aleramo stava cercando il modo migliore di dirlo, quando una voce si fece sentire alle sue spalle.  - A Genua non siamo scappati e non abbiamo intenzione di farlo adesso! - disse l`arciere in divisa rossoverde, alzandosi. Poi si levò il berretto, si avvicinò e mostrò una cicatrice rossastra che correva lungo la tempia, proprio sopra l`orecchio destro. - Ecco, vedete? - aggiunse.-  Questo è un ricordo di quei cani e io sono qui  per ricambiarlo!

 L`uomo non era molto alto, ma la sua corporatura massiccia e l`atteggiamento risoluto lo facevano torreggiare su tutti gli altri. Al suo cospetto, il notaio Agicardo si raggomitolò ancora di più sullo scranno. Lo scabino Roffredo, invece, tentò una difesa. - Fate presto a dire, voi, capitano Grimaudo - sibilò - ma sono i nostri beni e i nostri figli ad essere in gioco…

Grimaudo non lo lasciò proseguire. Abbassò su di lui due occhi pieni di fuoco e lo prese per le spalle. - E voi credete - disse con voce terribile - che potrete salvarli con qualche acrobazia diplomatica? Pagando un pedaggio? Se credete tutto questo, siete un illuso! Voi e tutti gli altri come voi.

Quindi lasciò la presa sullo scabino e si rialzò. - Anche a Genua qualcuno pensava le stesse cose - continuò. - Molti dei miei concittadini preferivano non vedere…persino quando le fontane cominciarono a mutare l`acqua in sangue. Se c`era da pagare, si pagasse pure. Un onesto tributo, si diceva, in cambio della  vita di sempre. Finché non è arrivata la flotta dei Fatimiti. Gente che veniva da lontano, che non sapeva dei nostri piccoli baratti, degli ammiccamenti, dei sotterfugi e  non aveva alcun interesse ad accettarli.

 Inoltrandosi nel racconto, la voce del capitano Grimaudo si era persa pian piano in un sussurro, ma l`accenno ai Fatimiti rinfocolò la sua rabbia. - Così ci piombarono addosso tutti insieme. Tutti amici! Tutti fratelli! Perché Fatimiti, Saraceni, Mauri  sono della medesima razza - urlò di nuovo. - Predoni da ricambiare col ferro, non con l`argento!

Dopo quella sfuriata, la sala piombò in un silenzio colmo di imbarazzo. Soltanto Leonardo si mosse, avvicinandosi  a Grimaudo. Ancora immerso nei ricordi, il capitano fissava un punto davanti a sé e non prestava attenzione a quanto aveva intorno. Allora il giovane lo prese gentilmente sotto braccio e, con delicatezza, lo riaccompagnò al suo posto.

Aleramo attese che si fossero seduti. Quindi  si girò verso Restaldo, perché era arrivato il momento delle decisioni e  tutto quello che c’era da dire era stato detto. – Eminenza – cominciò – vedete anche voi che il pericolo è grave. Soltanto se saremo uniti  avremo la forza di affrontarlo. 

Il vescovo lo osservò pensoso e ascoltò con attenzione. Poi annuì lentamente.

- Allora – proseguì Aleramo, rincuorato dal consenso dell’altro – converrete con me che io non posso sottrarmi ai miei obblighi. Come rappresentante del re, ho il dovere di difendere la città, non di venderla ai suoi nemici.

- La città, avete detto? – fece Restaldo.

Difendere la città…intera è impossibile – replicò subito Aleramo. Poi gli sfuggì un sorriso. – Ci vorrebbe un miracolo, ma quello è più di vostra competenza, mi pare.

- State pur certo che il Signore degli eserciti non vi abbandonerà! -  lo interruppe Restaldo. Quindi, allungò una mano e strinse convulsamente il  braccio del conte. – Intanto, avrete gli uomini, le armi, i cavalli. Tutte le risorse di cui Aquae dispone. Voi tenete alto lo scudo, come fece Giosuè, e i pagani non prevarranno!

Aleramo guardò la mano che gli serrava il braccio e sentì la nota di urgenza nella voce dell’altro. -  E sia – disse. –  Vi prometto che, almeno, ci proverò. Voi, però, dovrete rassegnarvi ad abbandonare la chiesa.

A quest’ultima osservazione, il viso di  Restaldo s`incupì di nuovo.  – Abbandonare?! - ripeté tristemente. - Abbandonare?! 

Eminenza – proseguì Aleramo con calma – vi ho appena assicurato che ci proverò.  Ma voi sapete bene quanto la vista delle nostre cose più sacre scateni quegli infedeli.

Restaldo assentì vigorosamente. – Avete ragione, purtroppo! – disse in tono tetro. Poi proseguì infervorandosi: – Gli arredi, le reliquie, le ampolle…Niente! Niente deve essere lasciato a quei demoni! Solo zolfo e fuoco!

- E noi glieli daremo – confermò Aleramo.

Restaldo lo scrutò dubbioso ancora per un momento, poi scrollò le spalle e si alzò. – Il Signore dà e il Signore prende – sospirò, allargando le braccia. -  D’altronde, se le cose stanno così, il mio dovere è quello di preservare gli oggetti della Sua casa, custodendoli in un luogo più sicuro.

- Senza dubbio -  confermò Aleramo, alzandosi a sua volta.

- Dove pregherò l’Onnipotente perché  vi dia la forza di respingere il male – concluse Restaldo.

- E Lui vi ascolterà - rispose Aleramo compunto, facendosi il segno della croce. Poi offrì il braccio al vescovo e lo accompagnò cerimoniosamente all`uscita, con il suo seguito.

Quando tornò nella sala, l`aria compunta era sparita. - Almeno ha smesso di fregarsi le mani - commentò con un sorriso. Quindi si  rivolse a Leonardo che sorrideva a sua volta. - Ti ringrazio per l`aiuto, messer Leonardo – disse -  ma credo che con questa mossa tu ti sia giocato il posto.

L`altro alzò le spalle. - In tempi come questi, un uomo d’armi fa comodo - osservò con noncuranza – e, per il momento,  credo che me la caverò. Voi, piuttosto, avete fatto una promessa impegnativa…

- Già – disse Aleramo, tornando subito serio. – Molto impegnativa. Eppure, non mi sembra che ci fossero tante alternative.

Leonardo ci pensò su un poco. Poi sorrise ancora. – No, mi sembra di no – disse, scrollando il capo.

Aleramo guardò quel volto aperto che lo osservava e si rilassò.  Da quando era arrivato ad Aquae, Leonardo era stata uno dei pochi a mostrargli amicizia e l`unico che lo aveva realmente aiutato. Purtroppo, la milizia ai suoi ordini era poca cosa. Alcune decine di armigeri, più avvezzi a trattare con gli ubriachi che ad affrontare un combattimento contro nemici veri, e qualche rinforzo mandato dal contado. Gente coatta, spedita ad assolvere un obbligo, armata alla meglio e ansiosa di tornare a casa.

Per resistere ad un assalto di quel genere, ci voleva ben altro. Ora, però, le cose sarebbero cambiate e, col beneplacito del vescovo, lui avrebbe potuto contare su forze ben più cospicue. In mezzo ai profughi e agli Aquesi c`erano parecchi tipi tosti. Montanari  robusti, abituati a vivere tra quei monti e a menar le mani. Insieme ai suoi uomini e agli arcieri arrivati da Genua, avrebbero  rappresentato un bell`osso da rodere anche per i Saraceni più arrabbiati.

Il pensiero degli arcieri lo portò a voltarsi verso l`altro suo ospite. Grimaudo aveva ancora l’aria un po’ sofferente, ma, all`occhiata di Aleramo,  alzò il viso.  - E pensare che molti vescovi affrontano il nemico sui bastioni - commentò scuotendo la testa.

Aleramo si strinse nelle spalle. - E` vero, capitano  - disse - ma non il nostro. Lo avete visto, non è il tipo.

- Voi, però,  non gli avete detto proprio tutto.

- E cosa gli ho taciuto, di grazia?

Grimaudo si arricciò i baffi, scoprendo i denti in un sogghigno. - Beh, ad esempio, che per cercare di salvare la chiesa dovremo distruggere tutto il resto. I miei arcieri hanno bisogno di spazio per i loro tiri.

Aleramo rise di gusto. Quell`uomo gli piaceva e il suo aiuto era giunto a proposito. Perciò guardò il capitano con rinnovata simpatia. - Qualche pianta in più o in meno - disse con noncuranza - che volete che sia?

- Piante, magazzini, depositi, granaglie… - elencò Grimaudo, contando sulle dita.

- Tabula rasa, insomma - intervenne Leonardo.

Aleramo  guardò entrambi e sorrise. - Dopo l`Assunta, però - disse con aria candida. - Lasciamogli almeno il conforto della celebrazione.

 

29/08/2006 12:00:00
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18.12.2009
Giancarlo Patrucco
I Era notte fonda e la città di Papia dormiva, distesa sul suo pianoro accanto al fiume, raccolta fra le mura. Come spesso accadeva in quelle zone, l’inizio della Quaresima di quell’anno del Signore 951 aveva coinciso con un tempo incerto, bizzoso, sospeso tra le avvisaglie di un acquazzone che non arrivava...
 
18.12.2009
Giancarlo Patrucco
II Quando era in attesa di Emma, Adelaide aveva preferito traslocare verso la zona interna del palazzo, che aveva il pregio di essere più appartata. Lì si era sistemata in una grande camera, comunicante con un locale più angusto, ma caldo e luminoso, che era stato destinato alla bambina. In quel...
18.12.2009
Giancarlo Patrucco
III La porta Marinca apparve quando ormai Adelaide non ci sperava più. La prima parte di quella nottata infernale l’aveva passata districandosi nel cunicolo sotto la cappella, e non era stata la parte peggiore. Infatti, appena arrivata a san Colombano, non aveva avuto neanche il tempo di riprendere...
 
18.12.2009
Giancarlo Patrucco
IV Adelaide era sicura che prima o poi sarebbero andati a sbattere contro qualche pianta, oppure il carro sarebbe sprofondato in una delle tante rogge che le ruote bordeggiavano pericolosamente. Ne era così certa che si teneva con tutte due le mani al sedile, pronta a saltare giù al primo urto o al...
18.12.2009
Giancarlo Patrucco
VQuando la carretta si mise in marcia per lasciare la casa di Taso, il sole si era levato da un pezzo. Soltanto il giorno avanti Osmund avrebbe sbuffato, recriminato e sbraitato ordini, lamentandosi del ritardo. Quel mattino, invece, aveva manifestato un umore completamente diverso. Si era aggirato...
 
18.12.2009
Giancarlo Patrucco
VI Il pettirosso arrivava sul torrione ogni mattina, subito dopo l’alba. Con un fruscio leggero si posava sulla grata della finestrella, serrando l’unica sbarra orizzontale fra le sue zampine. Poi si rassettava le piume delle ali e guardava dentro. Un’esplorazione breve, condotta più per abitudine che...
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