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Letture
Saraceni ad Acqui (III)
Giancarlo Patrucco

Capitolo III

Era stato Sagitto ad avere l’idea di marciare di notte, in ordine sparso. Con questo, non è che confidasse in un arrivo di sorpresa. Sapeva benissimo che ad Aquae stavano sul chi vive e che molti occhi avrebbero spiato le loro mosse. Tuttavia,  sperava di confondere almeno un po` gli infedeli e disorientarli sulla vera entità delle forze che avevano di fronte.

 Durante il consulto dei capi che si era tenuto prima della spedizione,  tutti avevano prontamente accolto la sua proposta. Era costume dei Saraceni, d’altronde, colpire all’improvviso, apparendo  e scomparendo nel nulla. In territori ostili quello era un buon modo di combattere e, soprattutto, di uscirne vivi. Gli unici a recalcitrare erano stati i Fatimiti, che non ne vedevano lo scopo; ma i Fatimiti  erano stranieri in quella terra e avevano già dimostrato altre volte di capirci poco. Così i Saraceni lì avevano lasciati  sulla costa, a pavoneggiarsi davanti alle loro navi, mentre le bande risalivano come il vento lungo le montagne.

Sagitto aveva scelto un percorso che gli era ben noto, puntando decisamente a nord, attraverso il colle di Cadibona fino a Cario, per poi deviare a est, passare da  Crixia e  scendere verso la piana dove si trovava Aquae. Era una strada lunga e difficile, fatta di piccoli sentieri che si perdevano in una vegetazione intricatissima. Però era sicura e, soprattutto,  permetteva di arrivare in vista di Aquae sbucando proprio dalle alture che sovrastavano la città, lontano dalle principali vie di comunicazione e al riparo da occhi indiscreti.

Il piccolo berbero non si era mai spinto tanto avanti nelle sue scorrerie. Fino ad allora aveva visto soltanto villaggi: poco più che manciate di baracche, sparse sul mare o abbarbicate in collina.  Questa volta, invece, si trattava di un’urbe vera e propria e Sagitto fremeva dalla voglia di vedere i palazzi, i templi e le statue di cui aveva  soltanto sentito  raccontare davanti ai fuochi dei bivacchi.

Man mano che la pista s’inoltrava, la sua impazienza crebbe, spingendolo a viaggiare anche in pieno giorno. Poi, quando la vegetazione cominciò a diradarsi  annunciando la fine del bosco, lasciò addirittura le redini di Farad  e raggiunse quasi correndo la cresta. Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi gli strappò un  grido di meraviglia.

Sotto di lui c’era una piccola valle, chiusa tra il verde delle colline. A sud correva il Borbore, con il suo nastro scintillante che s’incuneava sinuoso tra i pioppi delle rive. Poco sopra, il nastro più scuro della via Aemilia si snodava lungo il fiume, mentre un tratto piegava a nord, salendo verso le alture. In mezzo, come cullata in quell’abbraccio, stava Aquae baciata dal sole.

Sagitto si accoccolò sull’erba della cresta e la rimirò a lungo, riparandosi gli occhi con le mani. In vita sua, mai aveva visto una città più grande e mai una più bella di quella che si stendeva ai suoi piedi. Le case che aveva saccheggiato, o quelle dove si era fermato la notte, erano per lo più capanne in argilla, con i muri di cannicciato e il tetto di stoppie.  La sua stessa torre, a Garexio, di cui menava vanto, era fatta di rozzi blocchi di pietra tenuti insieme con la malta e gli sembrava, ora, del tutto indegna delle costruzioni che vedeva sotto. 

Specialmente nella parte orientale, molte case sembravano fatte di mattoni veri, a più piani, con i tetti ricoperti da nere lastre di ardesia o da scandole di legno. C’erano piazze, vie, mercati e s’indovinava un certo movimento nelle strade. Anche se la furia delle guerre aveva lasciato molti segni, c’erano ancora i vecchi templi, di cui si scorgevano qua e là alcuni colonnati. Il sole giocava sui loro marmi bianchi e quel riflesso arrivava fino a Sagitto, prendendogli il cuore.

Quella città doveva essere sua! Se la sentiva dentro, mentre un nodo di bramosia gli stringeva le viscere e un alito caldo  gli faceva pulsare forte il sangue nelle vene. Lui era Sagitto,  rais dei Saraceni. Non c’era villaggio intorno in cui la fama delle sue imprese non corresse di bocca in bocca. E non c’era città, come Aquae, degna di accoglierlo e di inchinarsi nel suo nome.

Subito, però, un altro pensiero s’insinuò nella sua mente. Un brivido freddo, che gli prese la nuca e la strinse in una gelida morsa. Come poteva, un misero pastore del Riff, stare alla pari con tanta opulenza? E come poteva pretendere che quella civiltà così antica si prostrasse ai suoi piedi? Mentre il brivido scendeva, gelido, lungo la sua schiena, al piccolo berbero sembrò che la città, là sotto, ridesse silenziosa. Allora, per la prima volta dopo molto tempo,  si sentì inerme e indifeso, come quando era sbarcato su quelle coste, tanto tempo prima.

Accovacciato sui talloni, ai margini dell’altura,  strinse gli occhi, riducendoli a due fessure. Quindi scrollò le spalle, si girò di scatto e tornò dai suoi, gridando ordini perché mettessero il campo al coperto, ai margini della radura.

Anche gli uomini erano eccitati per l’azione imminente. Il brusio delle loro voci correva intorno al bivacco, mentre masticavano le razioni di formaggio di capra e galletta dura. Sagitto si sforzava di ascoltarli e di scambiare qualche battuta, ma aveva l’aria distratta di chi pensa ad altro, lo sguardo puntato verso la cresta davanti a sé. Poi, appena scese  il silenzio, attraversò nuovamente la radura e tornò a guardare la città che dormiva  al chiaro della luna.

Sentiva fremere in lui l’istinto del cacciatore e non vedeva l’ora di scendere nella valle per rimirare ancora più da vicino la sua preda. Così allo scoperto, però, avrebbe corso troppi rischi e c’erano ancora molte cose che doveva sapere, prima di tentare l’avventura. Impiegò la notte intera a passarle in rassegna tutte, calcolando ogni mossa e cercando di prevederne i risultati. All’alba, finalmente, fu soddisfatto e chiamò i compagni intorno a sé per spiegare il suo piano.

A gesti, prima indicò la via Aemilia e poi una strada che partiva dalla città e puntava dritta verso nord. Soltanto da quelle parti potevano arrivare soccorsi ad Aquae, perché le strade permettevano spostamenti rapidi, anche di grossi contingenti. Dunque, bisognava perlustrare attentamente quelle zone e risalirle per un buon tratto, ma senza dare nell’occhio. 

Sagitto fu particolarmente insistente su questo punto. La sorpresa era vitale per la riuscita dell’attacco. Le pattuglie dovevano marciare al coperto, al riparo dei boschi e, soprattutto, evitare qualsiasi razzia ai danni di fattorie o di viandanti. Agl’infedeli tutto doveva sembrare come sempre e la minaccia saracena restare non più di un filo di fumo, destinato a perdersi nell’aria. Ci sarebbe stato tempo dopo per il bottino e nessuno avrebbe avuto di che lamentarsi.

Questa rassicurazione piacque agli uomini, che assentirono e sogghignarono rumorosamente. Poi, dopo la preghiera e il pasto del mattino, il gruppo si divise in due: una metà, guidata da Bakthiar tornò sui suoi passi per risalire al nord; l’altra, al comando di Sagitto,  piegò dalla parte opposta, cercando un passaggio che permettesse di accedere alla valle. Al campo furono lasciati soltanto due uomini, con il compito di montare la guardia e attendere l’arrivo delle altre bande.

Anche se era il primo mattino, faceva già caldo. Sagitto e i suoi cominciarono a scendere lungo un canalone, con le tuniche incollate al corpo e i sandali che sollevano piccoli sbuffi di polvere,  scivolando sulla ghiaia. Man mano che il fondo si avvicinava, i cavalli, forse per il richiamo del fiume vicino, presero ad agitarsi nervosamente. Poi, a un gomito del sentiero, i Saraceni sentirono il mormorio dell’acqua che scorreva davanti a loro. Lungo la sponda cresceva un bosco di albare. Al loro riparo il gruppo riunì gli animali e cercò di calmarli, mentre Sagitto s’inoltrava nel folto.

Facendosi schermo con le piante, arrivò al greto del Borbore. In quella posizione il suo sguardo poteva spaziare fino alle mura meridionali  della città. Si accorse subito, così, che tutto il tratto oltre l’altra sponda era completamente nudo, ripulito da qualsiasi traccia di vegetazione. Senza piante, cespugli e forre per nascondersi, nessuno poteva sperare di avvicinarsi non visto. In più, nessuno poteva appiccare incendi per snidare gli Aquesi col fuoco.

Sagitto era un guerriero e non poté fare a meno di rivolgere un silenzioso complimento a chi aveva avuto quell’idea. Lui, però, restava  con il problema di proseguire. Così, rimuginando tra sé, tornò sui suoi passi e diede il segnale di partenza, cominciando a scendere il fiume.

Il gruppo avanzò tra le albare per un buon tratto, finché si trovò la strada sbarrata da un altro corso d’acqua. Era un piccolo torrente che scendeva dalle alture alle loro spalle per gettarsi nel Borbore. Gli uomini ne approfittarono per rinfrescarsi e far bere i cavalli, prima di passare oltre.

Dall’altra parte, il sottobosco cresceva così rigoglioso che faticarono non poco a farsi largo in quell’intrico. Fu così che vennero colti di sorpresa quando videro improvvisamente un muro gigantesco svettare oltre le piante davanti a loro. Le mani corsero subito alle armi, perché i Saraceni pensavano di essere giunti per sbaglio sotto i bastioni. Sagitto, però, sapeva che era impossibile e li tranquillizzò. Poi si fece avanti per investigare.

Il muro si rivelò essere un pilone. Ce n’era una fila che si allungava a intervalli regolari verso il greto del Borbore, in direzione della città. In alto, appena a tiro di freccia, i piloni erano collegati da lunghe arcate regolari. Qualcuna, però, aveva ceduto e il terreno intorno era ingombro di macerie.

Sagitto si lambiccò il cervello a lungo, aggirandosi tra i piloni e tentando di comprenderne il significato. Quella era una costruzione troppo grande per essere soltanto un ponte e il Borbore un fiume troppo piccolo per richiedere  un’opera di tali dimensioni. Persino nei periodi di piena. Tra l’altro, a pochi passi da lì, in mezzo all’acqua affiorava un isolotto che formava un guado naturale. Quindi, perché darsi tanta pena?

Poi ricordò che, una volta, aveva sentito parlare di qualcosa di simile. Si diceva che gli antichi Rumi facessero volare l’acqua su quei ponti e che fossero lunghi miglia e miglia. Sagitto aveva riso, perché nei campi si raccontano molte storie e l’acqua, lui l’aveva sempre vista sotto, non sopra. Ora, però, davanti a quei piloni giganteschi, non ne era più tanto sicuro. Così scrutò a lungo all’insù, quasi si aspettasse di vederne cadere una goccia. Quindi sorrise della sua dabbenaggine, si ricompose e tornò indietro a chiamare gli uomini per riprendere la marcia.

Il camminò proseguì a lungo, senza intoppi. Ogni tanto, Sagitto s’infilava tra le piante e raggiungeva la riva per controllare se si poteva passare non visti. Dall’altra parte, però, c’era sempre lo stesso terreno piatto, senza nascondigli. Così sbuffava e tornava indietro, scuotendo la testa insoddisfatto.

Il gruppo aveva compiuto ormai un ampio giro e il sole era già molto alto nel cielo quando il piccolo berbero intravide una possibilità. Oltre il Borbore, a ridosso della via Aemilia, si vedevano in lontananza alcune case: una frazione di Aquae, probabilmente quella che aveva visto dalla cresta, proprio dove la strada si biforcava prima di entrare in città. Erano poche capanne basse, a un piano, ma nessuno aveva pensato di abbattere le piante intorno e la loro ombra copriva una vasta porzione  di terreno.

Sagitto ci pensò sopra. L’unico tratto in vista  era quello del fiume. Però, se avessero attraversato in fretta, il rischio sarebbe stato minimo. Restava la possibilità che qualcuno li vedesse dalla frazione, ma, per quanto aguzzasse lo sguardo, non riusciva a scorgere alcun movimento. Le case stavano lì, ferme sotto il sole, e sembravano vuote. Il piccolo berbero scrutò l’abitato a lungo, poi decise di tentare. Si fece portare Farad, gli salì in groppa e s’inoltrò lentamente nel fiume, dopo aver raccomandato ai compagni di fare meno rumore possibile.

L’acqua non era molto alta e la traversata fu agevole, anche se gli zoccoli dei cavalli tendevano a sdrucciolare sui ciottoli del fondo. Sagitto trattenne il respiro per tutto il tempo,  temendo  che qualcuno, da un momento all’altro, potesse dargli la voce e mettersi a gridare. Ma non ci fu alcun allarme. Così i Saraceni poterono risalire sull’altra sponda e guadagnare il riparo delle piante, indisturbati.

A quel punto avevano una base sicura da cui partire per allargare la loro ricognizione. Sagitto mandò un gruppo a battere i boschi lungo la via Aemilia, per verificare se c’erano truppe in avvicinamento. Gli altri li dispiegò verso le colline a nord, con il compito di completare l`aggiramento della città e controllare qualsiasi movimento sospetto. Quanto a lui, guardò le case dietro di sé  e sorrise. Da una posizione simile avrebbe avuto un’ottima vista di Aquae e delle sue fortificazioni orientali. Proprio quello che cercava. Così  mise l’arco a tracolla e si avviò, lasciando l’unico uomo rimasto a far la guardia ai cavalli.

La frazione era deserta, proprio come aveva pensato. Gli abitanti dovevano essere andati via in fretta e furia, portandosi dietro soltanto l’indispensabile. Infatti, davanti alle case, nei cortili e nei recinti c’era un’indescrivibile quantità di masserizie di ogni tipo: ciotole, secchi, otri, paioli, tratti di corda, vecchi finimenti da bestiame. E, ancora: vanghe, rastrelli, sacchetti di sementi, lettiere di paglia, gabbie per gli animali.  Persino una logora tunica grigia, che pendeva da una stecca di legno sopra un paio di calzari tutti sfondati.

Sagitto capì subito che cosa era successo. La frazione era così vicina alla città che i suoi abitanti non l’avevano abbandonata del tutto. La notte dormivano sicuramente ad Aquae, ma durante il giorno dovevano fare qualche scappata ogni tanto,  per controllare le loro case e, magari, prendere qualcosa nell’orto. Quel pensiero lo preoccupò, non per i contadini, ma perché potevano arrivare con qualche guardia di scorta. Quindi riprese ad avanzare con maggior prudenza, attento a ogni movimento e a ogni minimo segnale di pericolo. Fu così che non rimase affatto sorpreso quando, davanti a sé, udì una voce.

Era quella di un uomo, bassa e raschiante come di chi ha il respiro affannoso. Gli rispose subito un’altra voce, più sottile e quasi querula.

- Ehi! Rico! Ehi, dico a te – fece la prima voce.  – Maledizione! Molla quel sacco e vieni a darmi una mano.

- Accidenti a te, Baldo! – rispose la seconda voce. – Sei proprio un buono  a nulla. Mai che tu faccia qualcosa da solo.

Nascosto dietro il muro di una capanna, Sagitto stava ad ascoltare. Nessun’altra voce, però, si unì alle prime due e, man mano che l’alterco proseguiva, il piccolo berbero si rilassò, sollevato. Quelli non erano certo soldati. In più, potevano avere qualche notizia utile e lui era intenzionato a spremerli per bene.

Il primo a vederlo, quando svoltò l’angolo, fu quello grosso che rispondeva al nome di Baldo. Era piazzato a gambe larghe davanti a una casa e prendeva a bastonate l’uscio. Quando si accorse di Sagitto, rimase col bastone sospeso per aria, deglutì vistosamente e arretrò sbattendo contro il muro. Poi, con la voce quasi rantolante, disse: - Ehi, Rico! Rico! Guarda cosa c’è qui!

L’altro, un piccoletto segaligno con una gran zazzera di capelli rossi, non se ne diede per inteso. In mano aveva una gallina che starnazzava furiosamente e cercava di infilarla in un sacco,  steso ai suoi piedi. Tutto preso da quell’operazione, non alzò neanche la testa. – Lì c’è uno stupido! – urlò di rimando. – Non ho bisogno di vedere. Lo so già.

 A Sagitto scappò un sorriso. Dunque, non erano neanche contadini, ma miseri ladri di polli che approfittavano della situazione per fare una razzia. Il piccolo berbero li squadrò con disprezzo, poi sfilò l’arco e prese una freccia dalla sacca che portava a tracolla.

Vedendo quel movimento, il grosso si lasciò scivolare contro il muro e cadde ginocchioni. – Gesù, Giuseppe e Maria! – biascicò, facendosi il segno della croce.

Il rosso, allarmato da quell’invocazione disperata, alzò finalmente la testa. Quando vide Sagitto fece un salto, s’imbrogliò con i piedi nel sacco e cadde a terra rovinosamente, mentre la gallina che teneva in mano svolazzava lontano.

Il piccolo berbero incoccò la freccia, avanzò di un passo e capovolse un secchio che era lì vicino. Poi ci si sedette sopra e guardò tranquillamente i due, sempre tenendoli sotto mira.

- Tu…tu sei… - disse il rosso che stava riprendendosi dallo stupore. – Tu sei mica… - Poi le parole gli finirono e restò con la bocca spalancata, come un pesce.

- Un diavolo! – continuò l’altro, segnandosi ancora – Ecco cos’è, Rico. Un diavolo nero, vomitato dall’inferno!

Sagitto si guardò. In effetti, tutto intabarrato di scuro e con la corta barbetta a punta che gli ornava il mento, poteva sembrare proprio una creatura infernale. Così fece di sì con la testa. – Beh, sembra proprio, eh? – disse, mentre un piccolo ghigno gli increspava le labbra.

Ma il rosso aveva ormai recuperato il fiato e voleva dire la sua. – Stai zitto, stupido! – sibilò al compagno. – Questo è un…un…nemico – concluse incespicando sull’ultima parola.

- Si potrebbe dire anche così – fece Sagitto che si divertiva un mondo. – Un diavolo di nemico.

Il grosso lo guardò disorientato. L’altro, però, non si lasciò fuorviare. – Scusa – disse – ma tu cosa ci fai qui?

Perché, dove siamo? – s’informò Sagitto.

- A…ad Aquae. Al borgo di san Lazzaro – fece il rosso ancora stupito. – Ma tu non dovresti esserci. In città dicono... – proseguì. Poi tacque di botto.

Sagitto aguzzò le orecchie e si sporse in avanti. – In città? – ripeté. – Cosa dicono in città, allora?

Il rosso si strinse nelle spalle. – Beh…In città dicono che siete ancora lontani.

- E ti sembra vero?

Il rosso si grattò la testa, pensieroso. – No. Direi di no – rispose. Poi gli occhi ebbero un guizzo: - Comunque, tu sei qui da solo – aggiunse con un sorrisetto storto.

- Non sono proprio solo – ribatté Sagitto. Quindi mostrò l’arco, mentre l’altra mano andava al pugnale alla cintura.

- Ehi, Ehi – fece il grosso allarmato, allargando le braccia. – Guarda che noi siamo disarmati!

- Peccato – osservò Sagitto prendendolo di mira. – Ma io sono il nemico. L’avete detto voi, prima.

- Beh, sai, si dicono tante cose – intervenne il rosso che non sorrideva più. – Si fa presto a parlare. Però, noi non ce l’abbiamo con te.

- Ah no? – disse Sagitto.

- No davvero! – fece il rosso, scrollando vigorosamente il capo. - Anzi, caso mai, ce l’abbiamo con quelli là. – E accennò con il pollice dietro le sue spalle.

- Con quelli della città, dici? – s’informò Sagitto gentilmente.

- Già, proprio con loro -   li interruppe il grosso. – Da quando è arrivato il nuovo conte, ne abbiamo passate di tutti i colori.  E taglia le piante qui e porta le pietre lì. E scava la terra e scalza i mattoni. Tutto il giorno, dall’alba al tramonto, solo con una scodella di zuppa e un pezzo di pane. Vedi – continuò toccandosi la pancia. – Ormai, sono ridotto pelle e ossa.

Sagitto represse a stento un sorriso. Il grosso era vestito con una corta tunica di tela grezza, come il suo compagno. Dei due, però, quello più magro era senz’altro il rosso, tanto che aveva girato due volte la cintura in vita. La cinta dell’altro, invece, gli tirava sulla pancia, a malapena trattenuta da un nodo.

Al piccolo berbero, comunque, interessava farlo parlare. Così, chiese in tono affabile: - Pane e zuppa davvero, eh? Ma perché: in città non c’è abbastanza da mangiare?

Il grosso si agitò ancora di più, diventando rosso d’indignazione: - Macché! Scherzerai! Da mangiare ce n’è in abbondanza! Ma quel maledetto conte ha fatto chiudere tutto nei magazzini e chi prende qualcosa viene appeso in piazza. Per i piedi.  Pensa un po’: appendere dei disgraziati, invece di quei diavoli… - Poi s’interruppe di colpo, roteò gli occhi e deglutì vistosamente, guardando Sagitto, spaventato.

Il piccolo berbero fece finta di niente. – E i magazzini dove sono? – chiese con calma.

- Come dove sono?! – ripeté il grosso senza capire. – Ma sono in città, sono.

- Vuol sapere il posto esatto, stupido – intervenne il rosso con un gesto sprezzante verso il compagno. Poi strinse gli occhi e riprese il suo sorrisetto astuto. – Questa, però, è un’informazione importante.

- Potrebbe – disse Sagitto senza sbilanciarsi.

- Allora vale qualcosa, vero?

- Forse.

Il rosso soppesò la risposta, poi scrollò le spalle. – E va bene – disse. – Per quello che ti può servire. Tanto, sono tutti nel centro della città e sono ben guardati.

- Allora ci sono molti uomini. Molti soldati…

Il rosso lo guardò di traverso.  – Soldati?! – ripeté, sputando quella parola con evidente disgusto. – Uomini ce ne sono sì, ma soldati…Prendono tutti quelli che trovano e gli mettono in mano qualcosa…

- Pensa – lo interruppe il grosso, raccattando il suo bastone – che a me hanno dato questo. A me, che non mi reggo in piedi!

- Vedo – disse Sagitto brevemente. Poi riportò la sua attenzione sul rosso che, dei due, sembrava quello più informato. – Dunque hanno intenzione di combattere…Di resistere.

- Ci puoi scommettere – confermò subito l’altro, facendo di sì con la testa. – Il conte gira notte e giorno come un indemoniato. Gli altri, poi, non sono da meno.

- E dove girano, eh? Dove hanno messo le difese? – continuò Sagitto.

A quel punto, però, il racconto del rosso cominciò a farsi nebuloso. Lui aveva visto gli scavi, i terrapieni, le palizzate, ma non aveva alcuna idea d’insieme delle fortificazioni. Sapeva soltanto che c’erano, così come c’erano uomini armati dietro le mura.

Quanto al resto, le domande di Sagitto non fecero che aumentare la sua confusione, finché il piccolo berbero si accorse che, ormai, era disposto a dire qualsiasi cosa. Allora si riscosse, si alzò e allontanò con un calcio il secchio dove stava seduto.

Il rosso riprese subito un’espressione vigile. – E adesso? – fece con gli occhi spaventati. – Tu ci hai promesso la vita…

Sagitto si aggiustò la tunica e si sistemò la fascia. Poi alzò lo sguardo. – No. Io ho detto solo ‘forse’.

La faccia del rosso divenne paonazza. Il suo compagno si contorse e si mise di nuovo ginocchioni. – Come ‘forse’? – fece in un rantolo. –‘Forse’ non vale.

Il rosso protestò debolmente. – Scusa – disse – ma noi ti abbiamo detto tutto…tutto quello che sapevamo…

- Appunto – fece Sagitto. – Quello che sapete non è granché.

- Sì ma…ma noi... – riprese il rosso quasi strangolandosi con le parole. – Noi siamo stati ai patti.

- È vero! – proseguì il grosso, con gli occhi che gli roteavano nelle orbite. – Noi siamo stati ai patti. Così non è leale!

Sagitto li guardò e si passò una mano sulla barba. Lasciarli andare, non poteva. Quanto ad ammazzarli, avrebbe dovuto prendersi la briga di seppellirli o, almeno, di nasconderne i corpi. Un problema in più, che gli fece aggrottare la fronte e scrollare la testa con fastidio.

Vedendo quel gesto, i due compari si ritrassero atterriti. - No! No! - urlò il rosso, agitando le mani davanti a sé in modo frenetico. – Guarda che noi siamo dalla tua parte! Se ci lasci andare, spariremo a gambe levate…

- E non torneremo più indietro! – aggiunse il grosso che si era messo a strisciare carponi.

- Parola! – concluse il rosso, portandosi una mano al petto.

  – Beh, forse avete ragione – disse Sagitto. Poi, squadrò a lungo i due.  – Ma se vi vedo ancora… - aggiunse, e si passò un dito lungo la gola.

A quel gesto, il grosso rabbrividì. Poi indietreggiò precipitosamente, fino a raggiungere il compagno. Quindi, senza mai perdere di vista Sagitto, i due cominciarono ad arretrare insieme, aiutandosi con i piedi e con le mani.

Il piccolo berbero li fermò subito. - Non da quella parte – disse, sollevando l’arco. – Di qua, verso il fiume.

Baldo si arrestò di botto, con lo sguardo perso. Rico, invece, afferrò subito. Si alzò al volo, strattonando il compagno e cominciando a correre.  L’altro, arrancando, gli andò dietro.

Sagitto li osservò sfilare accanto a lui e buttarsi lungo il viottolo che portava al Borbore. Quando furono a trenta passi di distanza, incoccò, inspirò profondamente e tese la corda. Poi,  quasi di malavoglia, la rilasciò.

La freccia partì ronzando e s’infilò nella gola di Rico, trapassandola da parte a parte. La violenza del colpo lo proiettò in avanti, facendogli fare una specie di capriola, prima di fermarlo al suolo, per sempre.

Il grosso, che seguiva, vide il compagno cadere e si fermò di botto, osservandolo come se non potesse capacitarsi di quanto era successo. Quando si girò verso Sagitto, la seconda freccia lo colse in pieno petto, togliendogli il fiato e facendolo barcollare. Le sue mani si abbassarono a sfiorare l’asta che sporgeva e la strinsero convulsamente, come se volessero strapparla via. Poi,  lentamente, si rilassarono, mentre gli occhi si riempivano di stupore e il  corpo massiccio scivolava pesantemente al suolo.

Il piccolo berbero rimise l’arco a tracolla e si avviò con calma lungo il sentiero. Arrivato all’altezza dei due, recuperò le frecce, le ripulì nell’erba e le rimise nella sacca. Quindi trascinò i corpi al riparo della boscaglia, cercando di nasconderli meglio che poteva.

Risalendo, passò  accanto al sacco del rosso e lo tastò col piede. Sembrava pieno. Allora,  se lo caricò in spalla. Quella sera ci sarebbe stata carne al campo, si disse sorridendo. In fondo, se l’era proprio meritata.

 

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