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Letture
Adelaide (7)
Giancarlo Patrucco

VII

 

Poche ore dopo già rimpiangeva quelle parole avventate. Quando Martino le aveva accennato alla palude, lei se l`era immaginata come gli acquitrini che circondavano a tratti il lago di Ginevra. Pozze d’acqua melmosa, invase dai canneti ma circoscritte e dunque  facilmente aggirabili anche a piedi. La foce del Garda, però, non era la stessa cosa. Lì, le acque del Mincio si allargavano quasi subito sulle terre basse di pianura, mischiandosi con le propaggini estreme del lago, con le acque reflue e con quelle di sorgiva. Ovunque arrivasse lo sguardo si vedevano curve, anse, gomiti, canali. E acqua, sempre acqua, all’infinito. Prima rapida e guizzante, increspata da piccole onde di brezza e gonfia di spuma cristallina. Poi sempre più lenta, stanca; opaca e  smorta come senza vita.

Anche il paesaggio intorno si adeguava al cambiamento. Sulla lingua prospiciente il lago file di ontani orgogliosi puntavano le loro cime come frecce aguzze contro il cielo. All’imboccatura del fiume si ergevano maestosi salici con le radici affondate nella terra nera e le chiome che scendevano a lambire l’acqua delle rive. Poco più avanti, però, tutto si mescolava, si sovrapponeva, come se una mano gigantesca volesse confondere gli incauti viaggiatori. 

Man mano che la barca s’inoltrava lungo la corrente, la sua corsa rallentava. Il fondale si faceva sempre più basso e l’acqua diventava sempre più limacciosa. Il fiume iniziò a disperdersi in un reticolo di canali stretti, punteggiati da isolotti invasi da una vegetazione bassa e intricata. Dalle sponde cominciarono a spuntare siepi di canne, grumi di tife e cespi di carice che si protendevano nell’acqua torbida e sfioravano i bordi dell’imbarcazione come se volessero arrestarne definitivamente l’avanzata.

Rannicchiata a prua, Adelaide osservava la scena sbalordita. Sotto i suoi occhi la barca fendeva un’acqua maleodorante, su cui galleggiavano tappeti di ninfee pallide e di ibischi smorti, dimentichi dei loro accesi toni d’amaranto. Qua e là s’intravedevano tronchi abbattuti, arresi alla putredine e immersi  in pozze stagnanti dal colore verdastro. Ma era l’odore quello che colpiva di più. Sopra quella cloaca a cielo aperto stagnava un puzzo nauseabondo che prendeva alla gola e faceva lacrimare gli occhi. Quello doveva essere lo Stige e quella la palude nera che portava all’Inferno!

Adelaide si rannicchiò ancor più sul fondo dell’imbarcazione e abbassò i lembi del velo che le copriva la testa, per ripararsi dai tafani che non cessavano di tormentarla. Da quel riparo improvvisato si girò a sbirciare il barcaiolo, ma Romualdo non aveva affatto l’aria di un Caronte.  Dopo essere entrato nella palude aveva riposto i remi e si era munito di un lungo palo che stava sul fondo dello scafo. Con quello ora guidava la barca, immergendolo nell’acqua  e spingendolo con scioltezza. Nonostante il caldo e i tafani sembrava a suo agio e, anzi, vedendo che lei lo guardava, le rivolse un sorriso.

- Non temete – disse Martino che aveva colto gli sguardi. – Romualdo sa quello che fa.

- Lo spero – rispose lei tra le pieghe del velo. Poi allungò un braccio. – Ma questo… questo…è un luogo infernale. Tutto sembra morto qui. L’acqua, le piante, i fiori. Avvolti in un sudario per l’eternità.

- Credete? – disse Martino. – Eppure la marana brulica di vita.  Guardate – riprese indicando il folto di un canneto. – Vedete quel grumo che sporge appena? Lì ha il suo nido il germano reale. E più in là s’intravede una tana di gallinelle. Sotto quell’albara, dove senz’altro il cuculo ha stabilito la sua dimora.

Adelaide si sforzò di guardare nella direzione che Martino le indicava, ma non vide altro che canne, tife ed erbe palustri. -  Sarà – osservò dubbiosa – però nessun essere umano potrebbe viverci.

Martino scrollò la testa. – All’interno no, ma ai margini ci sono molti centri abitati – obiettò sorridendo. – Entrando nel fiume abbiamo lasciato a mancina il borgo di Pescaria. Voi non lo avete visto perché era schermato dalle piante. E, davanti a noi, ci sono i villaggi di Ponti, Valeggio, Godio. Sparsi lungo le alzaie, giù giù, fino a Mantua e più in là ancora.

- Ma come campano? Non è certo posto da coltivi, questo.

- No. Per lo più sono cacciatori, o pescatori come Romualdo. Anzi, ben presto saremo ospiti a casa sua.

- A casa sua?! – esclamò Adelaide trasalendo. – Ma non possiamo fermarci. Dobbiamo proseguire, andare avanti…

- Non ora – l’interruppe Martino. Poi indicò il cielo che andava scurendosi. – Fra poco sarà buio e non è consigliabile girare la palude di notte. Il crepuscolo radunerà sciami di moscerini e nugoli di zanzare. Meglio farci un buon sonno al coperto e proseguire col sole.

Adelaide fissò il diacono. – Volete dire che dovrei dormire qui in mezzo? – esclamò con una punta di apprensione nella voce.

Martino liquidò quell’obiezione con un gesto. – La capanna di Romualdo non è certo una reggia, però  voi avete bisogno di ristoro. Sarete certo affaticata per la fuga, il trambusto e…il resto.

Solo allora, sentendo quelle parole, Adelaide si rese conto di essere sfinita. La lunga prigionia e il tempo passato sulla rocca le avevano fiaccato non solo lo spirito, ma anche il corpo. Non capiva ancora com’era riuscita a calarsi dalla rupe, spenzolandosi in quel vuoto orrendo, ma ora il suo fisico reclamava una sosta. Aveva i palmi delle mani spellati dalla corda, le ginocchia doloranti e la schiena a pezzi. In quelle condizioni anche una capanna in mezzo al fango sarebbe stato comunque un rifugio accogliente.

Così, un po’ più rilassata, si raccolse al suo posto e osservò la palude sfilarle davanti. Obbediente ai colpi esperti di Romualdo, la barca avanzò ancora per un tratto. Poi, quando il cielo ormai stava volgendosi al violetto, giunsero alla meta: una capannuccia di fango che sorgeva ai bordi di un isolotto.

Mettendo piede a terra Adelaide squadrò la costruzione e arricciò il naso per il disgusto. Dentro, però, l’ambiente sembrava pulito e spazzato di fresco. C’era anche una finestra, protetta da un’impannata di canne che Romualdo si affrettò a sollevare per intercettare l’ultima luce del giorno. Adelaide vide un tavolo con accanto due panchetti, alcune reti ripiegate  e numerosi oggetti appesi alle pareti o accatastati negli angoli. In un canto c’era un giaciglio di frasche, che odoravano di buono e sembravano tagliate di recente.

- Ecco, questa è la casa – disse Martino accompagnandola verso un panchetto mentre Romualdo, tutto emozionato, osservava dalla soglia. – Come vi dicevo, non è una reggia, ma vi permetterà di trascorrere ugualmente una buona notte.

- Dio sa se ne ho bisogno – disse lei sedendosi. – E’ stata una giornata difficile e domani potrebbe essere anche peggio.

- Non pensateci – fece Martino accomodandosi sul panchetto accanto al suo. – Dopo un buon pasto e un buon sonno, le cose sembrano sempre migliori di come stanno.

L’accenno al pasto sembrò scuotere Romualdo, che prese ad affaccendarsi per casa rovistando. Dal mucchio d’angolo trasse un orcio di terracotta e riempì alcune ciotole di acqua fresca. Poi, mentre i suoi ospiti bevevano, tirò fuori un altro orcio, più piccolo e sigillato da un coperchio.

- Braci – disse Martino posando la ciotola dell’acqua. – In queste lande il fuoco è prezioso e questo è il modo che i pescatori hanno per conservarlo.

Intanto Romualdo aveva rovesciato il contenuto del vaso in un buco sotto la finestra e lo aveva coperto con alcuni sterpi secchi, alitando. Adelaide vide le braci brunastre farsi sempre più rosse, finché gli sterpi si spezzarono con un crepitio secco. Allora Romualdo prese un lungo ramo diritto, da cui pendeva della carne, e lo mise sul buco, appoggiandolo ai bordi.

- Rane – spiegò Martino.

- Rane?! Come rane?! - esclamò Adelaide.

- Rane – confermò ancora il diacono. – Sentirete. La carne è buona e le cosce… Ah, le cosce sono una prelibatezza.

Adelaide stava per esprimere i suoi dubbi di fronte a tanto entusiasmo, quando un grido si levò dietro di lei. – Ah! La biscia! C’è la biscia nell’angolo! – urlò Ingorde abbrancandola  per le spalle.

Allarmata, Adelaide si sollevò di scatto, arretrando e travolgendo il panchetto su cui era seduta, mentre Ingorde continuava a gridare sbracciandosi. Stringendo gli occhi alla fioca luce che penetrava la capanna, riuscì finalmente a intravedere il motivo di tutto quell’allarme. Armato di un nuovo stecco, Romualdo stava infilzando altri pezzi di carne, disposti uno accanto all’altro su un tagliere, proprio come se venissero da un serpente.

- Ma è morto, sciocca! Non vedi? – urlò a Ingorde scrollandosela di dosso. Poi si girò verso Martino che rideva a crepapelle. – Quanto a voi, non vedo cos’avete da ridere tanto. Un serpente è sempre un serpente. Vivo o morto.

- Avete ragione domina – ammise Martino cercando di ricomporsi. – Quella è un’anguilla, però.

- E che differenza fa?

- Ecco, l’anguilla, pur avendo le sembianze del serpente, è un pesce. E prelibato anche. Si trova all’imboccatura del Mincio perché non ama le acque torbide come queste.

- E chi le ama – commentò Adelaide, ancora piccata per la risata di poco prima. – Comunque, pesce o no, non ne assaggerò un boccone. E neanche le rane. Dovrete mangiarvele da solo, le vostre prelibatezze!

Invece, come succede sempre in questi casi, prima assaggiò le cosce di rana, che trovò squisite, e poi un pezzo di anguilla, che le risultò grassa ma comunque gustosa. Alla fine, dopo aver bevuto un’ultima ciotola d’acqua, cominciò a sbadigliare senza riuscire a trattenersi. Anche il sonno le fu lieve, nonostante le frasche strusciassero ad ogni movimento. Dormì tutta la notte e all’alba si svegliò riposata come non si era sentita da molto tempo.

Gli uomini stavano già in faccende. Romualdo entrava e usciva trasportando oggetti; Martino lo seguiva aiutandolo e parlando fitto. Quanto a Ingorde, la servetta sedeva tranquillamente su un panchetto, attendendo che la sua signora si destasse. Quindi l’aiutò a  lavarsi, a rassettarsi l’abito tutto stazzonato e a riavviarsi alla meglio i capelli arruffati dal sonno. Adelaide constatò con piacere che la prigionia almeno una cosa, di buono, l’aveva fatta: stavano ricrescendo e già i boccoli si allungavano a coprirle le orecchie. Poi spezzò il digiuno con quel che restava della cena e recitò le preghiere del mattino. Stava finendo, quando il diacono la sollecitò. – É ora domina – disse comparendo sulla soglia con una bisaccia in mano. – Se siete pronta, dovremmo andare.

 La navigazione fra i canali riprese come il giorno avanti: Romualdo in piedi a mulinare il palo, le donne e il diacono sedute a prua, mentre a poppa erano raccolti gli orci della sera prima. Vicino a loro,  Adelaide vide alcune reti accatastate.

- Serviranno a mascherare il nostro viaggio  – disse Martino cogliendo il suo sguardo. – Non è insolito che un pescatore abbia dei viaggiatori a bordo, ma che non ci siano reti, questo sì. Così, nei posti che attraverseremo faranno meno caso a noi.

- Non possiamo evitarli? – obiettò Adelaide perplessa. – Se la palude è grande come dite, non sarà difficile trovare altre strade per attraversarla.

Martino scrollò la testa. – Non è possibile – rispose battendo la mano contro la fiancata dello scafo. – Vedete com’è affusolata? Non ha il fondo piatto come le barche da marana. Se ci addentrassimo nella palude finiremmo per incagliarci nei fondali. Invece noi seguiremo il Mincio, dove viaggeremo meglio e più veloci.

- Rischiando di essere scoperti, però – aggiunse Adelaide preoccupata.

Non temete domina – replicò Martino sorridendo – l’allarme non può essere arrivato sin qua. - Poi portò una mano alla borsa appesa alla cintura: - E io ho del buon conio, all’occorrenza – aggiunse soppesandola.

In effetti, le cose andarono proprio come il diacono aveva predetto. Progressivamente la barca imboccò canali sempre più larghi e sempre più profondi. Anche la vegetazione si fece più rada e l’aria meno opprimente finché, dopo un’ultima svolta, si infilarono in un alveo molto più esteso degli altri.

- Il Mincio – disse il diacono mentre Romualdo riponeva il palo e la barca prendeva d’infilata la corrente.

Adelaide osservò curiosa quel panorama nuovo che le sfilava davanti. A mancina la sponda era piatta e coperta da una vegetazione lussureggiante. La riva era invasa dai canneti ma, più indietro, si stagliavano le sagome snelle delle albare e quelle più robuste degli ontani, mischiate ai carpini dai tronchi ritorti. Qua e là, oltre la loro cortina, le pozze d’acqua della marana luccicavano al sole montante. Dall’altra parte, invece, la riva era più scoscesa.  Si sollevava gradualmente dall’argine, inerpicandosi tra macchie di rovi verso alcuni rilievi che si scorgevano in lontananza, come sospesi sul verde della boscaglia.

Un paesaggio ben diverso da quello della palude e Adelaide si meravigliò che  luoghi così differenti coesistessero. Questo, comunque, era decisamente meglio e lei si sollevò oltre il bordo dell’imbarcazione per cogliere il fresco della corsa e per guardare la prua fendere l’acqua bianca.

Il viaggio proseguì velocemente e senza intoppi. Sul loro cammino incontrarono soltanto una grossa chiatta che risaliva a remi e alcune barche di pescatori, ormeggiate a riva. Ogni volta, com’era d’uso, ci furono richiami rumorosi, accompagnati da un mulinare di cappelli. Al che Martino rispondeva sempre – Dio vi guardi! – mentre Romualdo si sbracciava sorridendo.

Soltanto a Valeggio persero del tempo con le chiuse. Ci volle un po’ perché Romualdo ci passasse in mezzo e ancor di più a Martino per pagare la gabella. Ma quella fermata fruttò anche pane fresco, formaggio e una cappellata di prugne dalla polpa zuccherosa, che i viaggiatori mangiarono di gusto lungo il tragitto.

 Nelle prime ore del meriggio il panorama cambiò nuovamente. Il Mincio descriveva un’ampia curva a mancina, quando davanti alla barca si profilarono alcune diramazioni.

- Di là si procede per Mantua e per i suoi laghi – disse Martino additando l’ansa del fiume. – Noi, invece, prenderemo da questa parte.

Intanto, Romualdo aveva deviato la prua dalla corrente e la barca scartò a diritta, rollando leggermente. Per un po’ tutto andò bene, ma il braccio secondario si rivelò ben presto molto più angusto di quello principale. Le rive si andavano progressivamente restringendo e l’imbarcazione prese a procedere con sempre maggior lentezza, nonostante Romualdo avesse messo in acqua i remi. Poi la chiglia toccò il fondo e la barca si arrestò.

- La siccità! – bofonchiò Martino con un gesto di rabbia. – Senza pioggia, ecco i risultati. – Quindi raggiunse Romualdo e si mise a confabulare con lui.

- Mi dispiace domina – disse tornando indietro – pensavo di arrivare più in là, ma non è possibile. Dovremo proseguire a piedi.

- Dove avevate intenzione di andare, perché?

- Al Po – rispose brevemente il diacono, scavalcando la fiancata. Poi, sciaguattando nell’acqua bassa del fondale, le fece segno: - Venite – disse. – Vi porto io.

In quel modo Adelaide e Ingorde traghettarono a riva: una in braccio a Martino e l’altra  trasportata da Romualdo. Quindi il monaco aiutò il pescatore a disincagliare la barca e Romualdo ripartì dopo aver fatto ad Adelaide un bell’inchino.

- Va via così?! – disse lei sedendosi su un sasso della riva.  – E noi adesso, come faremo?

- Non preoccupatevi domina – la consolò Martino avvicinandosi. – Il fiume è vicino. Forse a nemmeno tre miglia da qui.

Le miglia, invece, furono un po’ di più. O, almeno, così sembrò ad Adelaide, che cominciò presto a patire il sole e il gran caldo. Il diacono si sforzava di confortarla e di sostenerla ad ogni passo. Per incoraggiarla arrivò anche a cantare alcuni inni con una voce da falsetto e, esaurito il repertorio, si mise a salmodiare le preghiere del vespro. Fu così che, un po’  cantando e un po’ pregando, arrancarono verso meridione.

“Dei guitti” pensava Adelaide sconsolata. “Sembriamo dei guitti, senza  nemmeno un carrozzone che ci faccia da riparo.” Eppure era arrivata fin lì e non voleva cedere. Così proseguiva ostinatamente, un passo dietro l’altro, lungo quel cammino che sembrava senza fine.

Quando arrivarono al Po ne fu persino sorpresa. Non ci aveva creduto e, invece, eccolo lì. Il padre di tutti i fiumi scorreva lento davanti ai suoi occhi, descrivendo una curva sinuosa tra le piante delle rive. Da sponda a sponda, l’alveo doveva misurare più di un miglio, ma la siccità aveva colpito anche lì e l’acqua scorreva lenta, lasciando larghe pozze immote ai lati.

Martino era così sollevato che prese a saltellare e a gesticolare intorno. – Vedete domina – strepitò con gli occhi accesi dalla contentezza. – Ve lo avevo detto che ci saremmo arrivati. Eccolo qui, il nostro caro, vecchio fiume.

Adelaide era stanca, sudata e le facevano male i piedi. – Dite bene voi – osservò  irritata. – Eccolo qui. Ora, però, ci vorrebbe davvero il mantello di san Martino per passare dall’altra parte.

– San Martino?! – le fece eco distrattamente il diacono. – Ah sì! Ma non lo vedo, da queste parti. 

- Allora sostituelo voi – lo rimbeccò lei seccata, indicando il fiume. – C’è giusto bisogno di un santo qui.

Il tono asciutto non scosse il buonumore di Martino. – Lo farei volentieri – disse sorridendo – ma sono soltanto un povero diacono. Però – aggiunse indicando una casupola che s’intravedeva da lontano – là vive qualcuno e senz’altro ci aiuterà. - Quindi  sistemò la bisaccia a tracolla e si avviò salmodiando lungo la scarpata.

- Dell’argento. Ha voluto dell’argento – bofonchiò uscendo dalla casupola con gli occhi che mandavano lampi. – Un pezzo di buon conio solo per  ripararci questa notte e trasportarci l’indomani.

- Dio sia lodato – sospirò Adelaide, che non s’intendeva granché di denari, ma ormai si trascinava appena. – Almeno avremo un posto dove riposare.

- Sì, ma è comunque una rapina – replicò lui ancora rabbuiato. Quindi, borbottando, fece strada verso un capanno poco discosto dalla riva.

Sembrava un deposito di barche, ma in quel momento era quasi vuoto. C’erano soltanto dei remi, una rete tutta sbrindellata e alcuni attrezzi ammucchiati alla rinfusa. In un canto, però, erano riposti dei velacci e Ingorde li recuperò subito, facendone un giaciglio per la sua padrona. Adelaide se ne mostrò soddisfatta, Martino invece insorse di nuovo. – Del buon argento per una vela polverosa – si lamentò scrollando il capo.

Nel compenso doveva comunque essere compresa anche la cena perché, di lì a poco, il pescatore si affacciò all’entrata con un tagliere in mano. Sopra c’era un pesce enorme, lessato con un po’ di erbette a fare da contorno.

- Ha detto ‘storione’ – fece Martino portando dentro il tagliere. – Il miglior pesce del mondo – aggiunse con una smorfia.

A dispetto del suo malumore, il diacono mostrò comunque di gradirlo. Anche le due donne fecero la loro parte, ristorandosi con quelle carni tenere e con le prugne avanzate da Valeggio. Poi, mentre fuori scuriva, i viaggiatori si abbandonarono al sonno.

Il giorno dopo, il cielo accolse il loro risveglio, corrucciato. Nubi scure si addensavano verso occidente e una brezza tesa batteva il fiume, sollevando piccole onde che schiaffeggiavano le rive. Il pescatore aveva già la barca in acqua e sembrava impaziente. Additando la nuvolaglia sempre più vicina, fece salire in fretta i passeggeri e  si mise subito ai remi.

Fu un viaggio breve, condotto un po’ bordeggiando e un po’ remando di buona lena. All’approdo non persero tempo nei saluti. Inseguiti dal temporale, i viaggiatori s’inerpicarono sulla scarpata e s’infilarono subito lungo una carreggiata che si perdeva nei boschi. Il pescatore, intanto, virava di bordo e prendeva la via del ritorno.

Tra le piante perdurava ancora l’afa dei giorni avanti, ma il sentiero era agevole e il morale della comitiva alto. Avevano superato molte prove e avevano percorso molte miglia. Ora, però, la meta era vicina e questo pensiero rendeva più leggeri i loro passi.

Martino sembrava addirittura avere l’argento vivo addosso. Un po’ stava davanti alle due donne, un po’ tornava indietro; quindi le affiancava, superandole un’altra volta. E parlava, parlava continuamente. – Ormai ci siamo domina – diceva gesticolando. – Di qui ha inizio la Silva degli Arimanni. Fra poco troveremo una casa di taglialegna, fittavoli dell’episcopato, dove potrete fare sosta mentre io proseguirò per Reggio. Il vescovo Adelardo sarà felice di ascoltare le nuove che gli porto.

In effetti, sembrava che il diacono conoscesse bene i posti. Di lì a non molto, infatti, il sentiero si perse in una piccola radura, occupata quasi per intero da una casetta di tronchi circondata dalla selva.

- Brava gente, vedrete – disse Martino facendosi avanti.

E ad Adelaide sembrò brava gente davvero, quando la famigliola uscì ad accoglierli. L’uomo era giovane, vigoroso, un po’ impacciato dalle presentazioni, ma gentile e ben disposto. La donna osservò con occhio critico le due viaggiatrici, ma le blandizie del diacono sciolsero ben presto il suo riserbo. C’era anche una bimbetta in fasce e Adelaide, quella sera, si addormentò intenerendosi al ciangottio della bimba che la madre cullava nella stanza accanto. Fuori, intanto, scoppiava il diluvio.

Era passata da poco l’alba quando un rumore la svegliò. Aveva smesso di piovere e nel silenzio della foresta si sentivano dei tonfi lontani. Una serie di colpi ritmati,  come di zampe che battessero l’erba.  Poi i colpi si fecero più vicini e risuonò un richiamo che si perse nel bosco.  Adelaide  saltò giù dal giaciglio con gli occhi sbarrati e la testa in tumulto. “Ecco, è Martino di ritorno. Vengono a prendermi” diceva il cuore sussultando. Ma la mente avvertiva: “Attenta. Potrebbe non essere lui. Non fidarti.” E le gambe si rifiutavano di muoversi, come se fossero inchiodate sul posto.

Fu così che, all’improvviso, la porta si spalancò e un uomo vigoroso entrò, inginocchiandosi. – Mia regina – disse abbracciandole i piedi – sono Adalberto Atto e sono venuto a scortarvi. – Dietro, la testa del diacono fece capolino sorridendo.

Ci volle un po’ perché Adelaide riordinasse le idee e si riavesse dallo stordimento. Non riusciva a capire bene chi fosse quell’uomo slanciato che si era precipitato a soccorrerla e nemmeno come avesse fatto il vescovo a radunare una scorta tanto numerosa in così poco tempo.  Guardava trasognata il drappello di armati raggruppati nella radura e stentava a credere ai suoi occhi.

Martino le parlava di Adelardo, di quella truppa pronta a ogni evenienza e di un rifugio sicuro sui monti. Lei faceva mostra di ascoltarlo, ma in realtà non sentiva niente. Dentro le rimbombava una parola sola: “Libera! Libera, finalmente!” Finalmente, Dio aveva avuto pietà di lei e l’aveva ripagata di tutte le sue pene e di tutti i suoi sforzi! Dello strazio per la morte di Lotario; delle volgarità di Willa; delle minacce di Berengario; della separazione da Emma; delle umiliazioni patite in quei lunghi mesi di lacrime. Quell’uomo l’aveva chiamata regina! Era ancora la regina di qualcuno, dunque.

Quel pensiero ne provocò un altro. E se Berengario avesse saputo? Se fosse riuscito a intercettarla in quella foresta? Lui aveva armi e armati in abbondanza; molti più di quanti non ne avesse lei in quel momento. Improvvisamente, la schiera che l’attorniava le sembrò poca cosa. Una truppa troppo misera e sparuta per far fronte a un nemico tanto potente. Si acquietò soltanto quando Adalberto Atto diede l’ordine di partire e lei si trovò in groppa a un buon cavallo. Ma percorse la foresta con sguardo attento, sobbalzando ad ogni più piccolo stormire delle fronde.

Per fortuna i suoi timori non si avverarono. Nessuno li attendeva fuori della selva degli Arimanni e nessuno li importunò lungo la strada che portava a Reggio. Anzi, la gente che incrociavano si faceva di lato al loro passaggio e gli uomini si toglievano rispettosamente il cappello. Lei, però,  si mantenne vigile finché furono ben oltre e la via cominciò a inerpicarsi sui monti.

A metà della salita Adalberto Atto l’avvicinò, cavalcandole accanto. – Ecco. Quella lassù è Canossa, il nido dell’aquila – disse additando una rupe in lontananza. Poi spostò il braccio più in basso, dove ai lati del sentiero sorgevano due torrette. Sulla loro cima il sole si rifrangeva come sul metallo  – Vedete – disse ancora l’uomo. - Ci hanno avvistati e fanno segno alla rocca. Nessuno l’ha mai presa e nessuno la prenderà mai – aggiunse orgogliosamente.

Adelaide seguì le indicazioni del suo protettore e osservò le fortificazioni in basso. Poi il suo sguardo si alzò verso la rocca. Canossa stava lassù, appollaiata in cima a una falesia bianca come il gesso, splendente e inaccessibile come la Terra Promessa. Allora la tensione l’abbandonò e lei si lasciò andare sulla sella, dando sfogo a tutte le sue lacrime.

 

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