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L'associazione
Alcune considerazioni sul futuro dell'associazione e sulle prospettive locali e nazionali
Alfio Brina

Considerazioni a margine del documento di Beppe Rinaldi su Crisi politica e ruolo dell’associazione  “Città Futura”
Personalmente sono contrario ad ogni concezione pessimistica, da disastro imminente, da fine della storia, che alcuni politologi, danno della situazione politica, economica e sociale dell’Italia, dell’Europa e del mondo. E’ un pensiero che nasce da una cultura minoritaria e settaria, molto superficiale, in base alla quale la causa di tutti i mali che vengono avvertiti o percepiti sono da imputare ad altri: al sistema economico capitalistico, alla Dc, al PCI, a Berlusconi, alla Merkel, ai Sindacati, alla Casta, ed ora al PD perché forza di governo. Di un governo di larghe intese che comprende uno spezzone del PDL, il nuovo partito di Alfano.
Viviamo una tumultuosa fase di trasformazione economica, politica e sociale che ha cambiato la vita di ognuno di noi, determinata dalle grandi innovazioni tecnologiche che hanno portato alla globalizzazione, che significa poi nuova suddivisione della produzione e del lavoro a livello internazionale.
La globalizzazione non nasce da un disegno perfido del capitalismo mondiale, Giorgio Ruffolo ha già spiegato nel suoi libri “Il capitalismo ha i secoli contati” e Testa e Croce” e Mario Deaglio nei suoi “Rapporti”, i fattori che hanno portato al determinarsi di questo fenomeno: un’enorme disponibilità di risorse finanziarie derivante in parte dai petrodollari e in parte dagli enormi profitti sorti attorno all’affermarsi sui mercati di nuovi prodotti tecnologici, informatici e sanitari.
Questa massa di capitali, sin dagli anni ’80, sono andati alla ricerca di sbocchi in nuove aree geografiche del globo e si sono indirizzati verso i paesi più arretrati con masse di mano d’opera a basso costo, senza grossi vincoli giuridici per ciò che riguarda i diritti sindacali e la difesa dell’ambiente.
Senza l’apertura della Cina di Deng Siao Ping ai capitali stranieri ed americani in particolare, la globalizzazione, forse, non sarebbe decollata.
La globalizzazione ha determinato una redistribuzione dell’aumento del reddito e spostato il centro di gravità dell’economia da ovest verso est. Il tasso mondiale di povertà dal 1950 al 2004 si è ridotto dal 54,8% al 17,7%.
La fine della guerra fredda ha favorito questo processo.
Lo scambio tra tecnologia e forza lavoro ha privilegiato i paesi economicamente più arretrati come la Cina, l’India, il Brasile, gli ex Paesi socialisti, la Russia, il Sudafrica e i Paesi del Nord Africa.
L’Europa, continente ricco e sviluppato, ha subito un rallentamento rispetto alla tradizionale spinta propulsiva che per secoli ha egemonizzato il mondo.
La presenza di tanti Stati europei in competizione tra loro, ha impedito all’Europa di raggiungere quella integrazione politica, economica e finanziaria tipica degli Stati Uniti, della Cina e in parte della Russia e dell’India.
Globalizzazione e processo di integrazione europeo hanno fatto evaporare – come dice De Rita - i confini nazionali all’interno dei quali era stato costruito il Welfare dei paesi europei e si erano consolidati i partiti e i sindacati.
L’Unione Europea ha significato per i suoi cittadini un rafforzamento dei diritti giuridici, civili e delle libertà individuali. La crisi finanziaria e l’indebitamento dei singoli Stati ha compromesso invece parte delle conquiste economiche proprie del Welfare.
La delocalizzazione produttiva di molte industrie nazionali ha ridotto la base produttiva, aggravando la disoccupazione.
I nuovi spazi professionali creati dal diffondersi delle nuove tecnologie e dalla nascita di nuove professioni non sono stati e non sono in grado di assorbire la crescente disoccupazione.
Crisi, sfiducia e malessere sociale dilagano. Lo Stato a sua volta, compreso il settore pubblico allargato, imprigionati in una situazione debitoria asfissiante e oppresso da esuberi di personale, stenta a mettere in campo politiche di ripresa, consistente in una riduzione della pressione fiscale e in un rilancio delle opere pubbliche: scuole, strade, banda larga, difesa del suolo, infrastrutture ferroviarie e viabili.
Siamo al punto in cui, sotto l’incalzare della crisi, alcune forze populiste come Lega e M5Stelle propongono l’uscita dall’euro e dall’Europa, il ritorno alla sovranità nazionale e l’introduzione delle vecchie monete, nell’illusione di risolvere la crisi, che è di sistema strutturale e di competitività, ricorrendo allo strumento della svalutazione monetaria.
Le responsabilità per il determinarsi di questa situazione sono molteplici. C’è in primo luogo il fallimento dell’esperienza dei paesi socialisti, il cui sistema non è stato in grado di competere sul piano tecnologico, scientifico e democratico con il sistema capitalistico. Il fallimento dell’esperienza del socialismo reale ha trascinato nella crisi anche il modello socialdemocratico a causa degli alti costi economici dello Sato sociale che ha portato alla crisi del sistema fiscale, incapace di alimentare la crescente spesa pubblica, al punto da sconfinare nel dilagante indebitamento.
In questo turbinio l’Italia ha avviato un processo di privatizzazioni dell’industria di Stato, seguito - da parte degli imprenditori – da un deleterio processo di de-localizzazione degli impianti produttivi dall’Italia verso i paesi dell’est, nell’Africa del nord, in Turchia, in Cina ed in India.
Più che le responsabilità, si tratta ora di individuare il bandolo della matassa per uscire dalla stagnazione che colpisce l’Italia e l’Europa.
Il governo Renzi tenta un approccio riformatore: soppressione delle Province (?), superamento del bicameralismo perfetto, trasformazione del Senato, taglio del CNEL, Riforma costituzionale, riduzione del numero dei parlamentari, taglio degli stipendi ai manager di Stato, riduzione delle pensioni d’oro, ecc. Pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione. Riforma del lavoro, Riforma della giustizia. Lotta alla corruzione e lotta alla mafia.
Tutto questo per portare alla normalità il nostro paese. Creare un clima di fiducia nei nostri confronti  da parte degli investitori internazionali per indurli ad investire in Italia, rilanciare i consumi interni e convincere anche i nostri imprenditori a concentrare i loro impegni a livello nazionale puntando con maggior determinazione sull’innovazione nei processi produttivi e nel lancio di nuovi prodotti in modo da garantire la crescita dell’occupazione.
Diversamente, sappiamo che oggi non è proponibile il rilancio di una nuova IRI con lo Stato che apre fabbriche e stabilimenti per creare lavoro e garantire occupazione.
Gli imprenditori debbono tornare a fare gli imprenditori e i sindacati gestire la fase del cambiamento con maggiore flessibilità, giocando con maggiore coraggio la partita del coinvolgimento dei lavoratori nella co-gestione aziendale, sul modello tedesco.
Rinaldi nel suo documento, tra le cose interessanti, affronta alcuni punti non sempre condivisibili. In particolare, al punto 3) scrive che la sinistra non ha saputo approfittare elettoralmente della crisi della Lega e del Partito di Berlusconi.
Al punto 4) la sinistra ha permesso la nascita di una forza di opposizione come quella di Grillo (e questo significa che non ha saputo fare l’opposizione.)
Ora, se fossero vere queste asserzioni, vale a dire attaccare con maggiore aggressività il leader del PDL, Di Pietro, che ha vissuto politicamente in funzione antiberlusconiana, avrebbe dovuto fare il pieno dei voti, invece è scomparso dalla scena politica italiana.
Identico ragionamento vale per Rifondazione Comunista di Bertinotti e Ferrero prima e di SEL di Vendola alle ultime consultazioni politiche. Quando esprimiamo sentenze di questo tipo su quali basi si fondono?
“L’Italia – dice Massimo Giannini nel suo ultimo libro - L’anno zero del capitalismo italiano – ha un tragico problema di classe dirigente. E’ un problema in politica, e lo è in economia. Il nostro è un capitalismo di rendita, che accumula e non investe, che depreda e non paga dazio”.
“ Oggi che i profitti delle multinazionali tornano a salire, il nostro paese resta impantanato nella recessione. I poteri della grande industria svaniscono sacrificati al mito dell’italianità (Alitalia), svenduti alla concorrenza estera (Telecom, decapitati da inchieste ed arresti (Eni e Finmeccanica) o salpati direttamente oltreoceano (Fiat). Non va meglio ai poteri storti dell’alta finanza, che negli scandali Montepaschi e Fonsai hanno saputo aggirare anche la vigilanza della Consob e di Bankitalia. In questo stato di decomposizione, l’opinione pubblica ha trovato il capro espiatorio nella casta politica. In realtà stiamo vivendo l’eclissi di un’intera filiera di potere, che nel pubblico come nel privato non ha saputo né voluto affrontare il cambiamento e cavalcare la modernità”.
Il populismo e l’antipolitica, nonché i fenomeni di dilagante corruzione hanno fatto ricadere sulla politica colpe e responsabilità che sono anche e soprattutto dell’economia, del mondo industriale e finanziario.
La politica, evidentemente, è una materia molto più complessa non sempre riducibile a slogan. Non solo, ma essa ha il compito di trovare sempre il bandolo della matassa per uscire da ogni difficile situazione. E deve trovare la via d’uscita utilizzando le forze in campo. La politica, in democrazia, si fa con le forze che sono in campo. seguendo il criterio “dell’Ottimo Paretiano”: modificare l’utilizzo dei diversi fattori in modo da migliorare le condizioni di qualcuno senza peggiorare le condizioni di qualcun altro. Poi c’è il secondo Best di Nicholas Kaldor: togliere qualcosa a qualcuno, senza comprometterne il livello di vita, per migliorare le condizioni di quelli meno fortunati. La sinistra dovrebbe attenersi a questo secondo criterio, ma le larghe intese lo impediscono.
Al 7° capoverso si esprime un giudizio negativo, il termine è ”fallimentare circa l’esperienza della nostra Associazione”. “Non siamo stati capaci di battere politicamente il berlusconismo e non siamo stati capaci di costruire una sinistra nuova, unita e capace di vincere”.
Falliscono coloro che si propongono obiettivi astratti o velleitari, sproporzionati in rapporto alle loro forze e alla loro capacità di realizzarli. Noi non avevamo tutte queste ambizioni. Abbiamo il senso del “buon senso, della misura e della modestia” non ci siamo mai posti l’obiettivo di cambiare il mondo attraverso “Città Futura”, le nostre ambizioni erano più modeste. Volevamo essere un centro politico culturale di stimolo per la sinistra alessandrina per aiutarla a pensare in grande anche per affrontare e risolvere i problemi più pratici e semplici che sorgono nella gestione della cosa pubblica. Una sinistra che da anni ha abbandonato i dibattiti culturali sui grandi sistemi degradando verso la pratica della spartizione dei posti e del potere.
Abbiamo consolidato la presenza sul territorio del “Giornale ON LINE”. Con grandi sacrifici ed ottimi risultati. Organizzato nel corso di questi anni diversi Convegni, Seminari, Conferenze. Assicurando una nostra presenza sui temi di attualità, con articoli pubblicati anche sui giornali locali.
Abbiamo criticato la giunta leghista della Calvo e quindi operato per la sua caduta e la ripresa del Comune da parte della sinistra.
Sostenuto nella fase iniziale e poi criticato la giunta Scagni appena abbiamo intravvisto deviazioni gestionali, autoritarie e personalistiche che andavano dall’incremento numerico delle aziende partecipate, alle assunzioni clientelari a fronte di un personale in esubero, alle promozioni in massa dei dipendenti ai livelli apicali, all’uso distorto del territorio per gli insediamenti industriali, civili e commerciali, oltre alla vendita del patrimonio .
Abbiamo fatto un’opposizione ferma alla giunta Fabbio, contestando il modo disinvolto con cui procedeva alla cementificazione del territorio comunale, attraverso il ricorso alle continue varianti al PRG che hanno compromesso le stesse aree  collinari. Alla proliferazione delle aziende (salite a 36 dalla 5 originali), all’assunzione clientelare, all’indebitamento del Comune, all’alienazione di buona parte del patrimonio.
Abbiamo sostenuto con forza ed entusiasmo le elezioni di Rita ROSSA a sindaco di Alessandria, anticipato e poi sostenuto l’opportunità di dichiarare il ”Dissesto Finanziario del Comune”, contro l’atteggiamento fuorviante dall’opposizione e quello più strumentale dei sindacati che con il loro atteggiamento hanno impedito una gestione più flessibile del personale in esubero in rapporto al “Dissesto finanziario” medesimo. Abbiamo successivamente evidenziato forti dubbi e perplessità sui criteri seguiti dal Sindaco per le varie nomine, sia di Giunta che nelle Partecipate, scelte rispondenti più a criteri premianti il sostegno elettorale ricevuto da qualcuno, che improntate alla qualità, alla competenza e alla responsabilizzazione dei partiti che sostengono l’Amministrazione. Tant’è che, nonostante il susseguirsi di rimpasti, il clima di staticità e di immobilismo continua a permanere. Il malcontento in città è  dilagante, i disservizi sono palpabili. I motivi di critica sono molti, essendo la giunta Rossa dopo due anni dall’investitura, sostanzialmente ferma attorno al tema del “Dissesto” che tutto giustifica e tutto paralizza. Lo stesso numero delle partecipate stenta a diminuire, alcune sono ancora gestite da uomini di Fabbio.
Ci sono molte cose che si possono fare a costo zero, cominciando col coinvolgere e sollecitare il ricorso al volontariato attorno a stabili forme di partecipazione nei sobborghi e nei quartieri (i Consigli di Quartiere).
Dalla crisi finanziaria dobbiamo uscire con un’Amministrazione più snella ma rafforzata nello stesso tempo da un più diffuso coinvolgimento dei cittadini nella gestione di attività e spazi pubblici (Musei, Biblioteca, lo stesso Teatro quando sarà agibile).
Ultimamente ci siamo astenuti dal produrre interventi di critica all’Amministrazione per non ingrossare il coro dell’antipolitica e per evitare di fare il gioco dell’avversario. Le tematiche comunali vanno naturalmente riprese dopo l’appuntamento elettorale per le regionali e le europee.
Concordo con le tesi sostenute Rinaldi nei paragrafi 9° e 10°. Anch’io sono contrario alla personalizzazione della politica, ad un uomo solo al comando che, in una fase di smarrimento generale come l’attuale, può apparire utile e necessario, ma a lungo andare spegne il gusto per il confronto, restringe i margini di partecipazione democratica riducendo i cittadini a tifoserie a sostegno di questo o quel dirigente senza poter concorrere su un piano di fertile collegialità alla determinazione delle scelte.
Sulle scelte organizzative, (Paragrafo 11°) son aperto ad ogni proposta migliorativa.
Sono comunque per mantenere separati i due momenti: quello della redazione del giornale, più concreto ed operativo facente capo al Direttore e quello più politico delle riunioni settimanali dell’Associazione facente capo al Presidente. Se eliminiamo il secondo nel giro di poco tempo cade anche il primo.
                           
06/04/2014 01:20:34
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