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L'associazione
Grazie di tutto, caro Delmo ...
Redazione

Un caro amico se ne è andato. Uno di noi. Una persona a cui potevi telefonare alle dieci di sera, anche per una sciocchezza, e si faceva in quattro per assecondarti. Se poi avevi il privilegio di entrare in casa sua, oltre alla cortesia non formale che era solito usare, incrociavi nella miriade di libri, testi fascicolati, fotocopie, stampe, quadri, soprammobili qualcosa di impalpabile che ti faceva (ti fa ancora) credere alle muse.

In qualsiasi angolo fosti andato a mettere il naso, mentre ti preparavano un buon caffe’, trovavi Dante, Petrarca, Bembo e Giraldi Cinthio, ma anche Dostojevski, Tolstoj, Kerouac e Steinbeck, fino ai più recenti nostri Fenoglio e Luzi. “Una selva oscura” per chi non aveva il lume della “virtù” e della “conoscenza”. E in questo Delmo era impareggiabile “duca”.

E’ così che vogliamo salutarlo, andando a riprendere uno dei suoi (molti) amori: Niccolo’ Machiavelli. Anche noi esprimiamo tutto il nostro dolore per la scomparsa di Delmo e siamo vicinissimi a moglie e famiglia.

Grazie di tutto.

(Il testo su Machiavelli è preceduto da una breve scheda fornitaci dalla locale UNITRE Alessandria).

 

 

DELMO MAESTRI. Laureato in Lettere moderne, Università degli Studi di Torino: 28/11/1952; è stato assistente volontario Università di Torino, Facoltà di lettere, cattedra letteratura italiana, Prof. Getto dal 16/12/1952 al 31/10/1957; ha insegnato Lettere Italiane, Storia, Educazione civica negli Istituto Tecnici – corso superiore: 1/10/1954 – 30/09/1991: consigliere comunale per il PCI: 1964 – 1972; assessore alla P.I., cultura e teatro, Comune di Alessandria: Marzo 1972 – Ottobre 1973; coordinatore del Centro comunale di cultura di Valenza: 1/10/1976 – 20/12/1985; consigliere e poi presidente della commissione amministratrice dell’Azienda teatrale alessandrina: 1977 – 1990. Ha pubblicato saggi su Niccolò Machiavelli, Matteo Bandello, Giovan Battista Gelli, Giovan Battista Giraldi Cinzio, Beppe Fenoglio, Guido Morselli, Achille Campanile, letteratura sulla Resistenza italiana. Ha curato: Agnolo Firenzuola, Opere; Giovan Battista Gelli, Opere; Matteo Bandello, Le Novelle; Baccio Tinghi, Zibaldone; Giovan Battista Giraldi Cinzio, Orbecche; Orazio Navazzotti poeta, l’antologia Resistenza italiana e impegno letterario. E’ presidente del Centro Studi Matteo Bandello e la cultura rinascimentale di Castelnuovo Scrivia: da 2003. E’ stato presidente della Società alessandrina di Italianistica dall’anno 2003. Ha tenuto conferenze e curato la sezione di letteratura italiana all’Università della Terza età di Alessandria.

 

 

Dalla “Vita di Castruccio Castracani” alle “Istorie Fiorentine”: l’ultimo Machiavelli

Machiavelli scrisse la Vita di Castruccio Castracani nel suo breve soggiorno di Lucca nel 1520: il 9 luglio partiva da Firenze per recarvisi appunto e occuparsi del fallimento di Michele Guinigi e qui, fra documenti e conti, ebbe anche modo si concentrarsi sulla costituzione della città, scrivendo il Sommario delle cose della città di Lucca, e sulla figura di Castruccio Castracani, leggendo la Castrucci Antelminelli lucensis ducis vita di Nicolò Tegrimi (Modena: Tipografia Domenico Rococciola, 1494) e altre cronache, da cui trasse la sua Vita. 

Mentre tuttavia il Sommario è interessante per le puntuali osservazioni su di un concreto problema costituzionale, ma è povero di articolate relazioni con lo sviluppo del contemporaneo pensiero del Machiavelli, ben diversa è la sua indagine sulla figura di Castruccio. 
L'operetta era finita prima del 20 agosto, quando la inviò ai dedicatari Zanobi Buondelmonti e Luigi Alamanni. Zanobi gli rispose con una lettera del 9 settembre, anche a nome degli amici degli Orti Oricellari, con osservazioni soprattutto sui detti attribuiti a Castruccio, ma riscontrabili in autori e vite precedenti, e sul carattere di modello ο saggio per scrivere una più ampia storia. 
Successivamente gli amici degli Orti Oricellari si interessarono alla lingua dell'operetta. Incominciava di qui il lavoro critico sulle fonti e l'interpretazione della Vita come modello di indagine storica per le future Istorie Fiorentine, l'opera commissionata dal Cardinale Giulio de' Medici, motivo per cui Machiavelli fu assunto dagli ufficiali preposti allo Studio fiorentino l'8 novembre 1520 (ma di questo progetto si fa cenno fin dall'aprile). 
La tesi della Vita come "modello di storia" fu sostenuta, in particolare, dal Ridolfi, dal Gilbert e dal Gaeta. (1 )
Il Gaeta tuttavia esce da questa impostazione troppo riduttiva per collegare la Vita soprattutto con i Dialoghi dell'arte della guerra: L'ultimo Machiavelli _ (129)
Resta certo ancora nel Castruccio del Machiavelli qualche tratto del Valentino, del Principe <1513>, ma il minuzioso soffermarsi sulle battaglie [...], secondo i dettami teorizzati nell'Arte della guerra, rendono Castruccio anche stretto parente di Fabrizio Colonna: cioè un simbolo di quel che sarebbe dovuto essere il principe resuscitatore [...]. 
A quest'opera, ci sembra va più direttamente che ad altre collegata La Vita ("Introduzione," p. 5). Questa tesi presuppone un Machiavelli sulla soglia degli anni venti nostalgico ancora di un principe che avrebbe potuto risolvere i problemi d'Italia e ancora paragonabile al Valentino del Principe, ma rivolto al passato come il Fabrizio Colonna dell'Arte della Guerra ο il Teodorico delle Istorie Fiorentine (Ibidem, p. 5). 
Lo stesso Gaeta nella "Nota introduttiva" alle Istorie Fiorentine (Milano: Feltrinelli, 1962) rende più chiaro questo giudizio su Castruccio e Fabrizio ormai figure del passato: Crollato il sogno del principe [con la morte di Lorenzo di Piero e di Giuliano duca di Nemours], al Machiavelli non rimaneva che trasferire al passato quella ch'era stata l'aspettativa d'un imminente futuro. 

Nacquero cosi il Castruccio della Vita e il Fabrizio Colonna dell'Arte della guerra (pp. 51-2). In questo modo il Gaeta separa le due opere non solo dal Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze, dedicato a Leone X nello stesso 1520, e dalle Istorie Fiorentine, ma dagli stessi Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio che egli stesso, sulla scorta dell'analisi del Gilbert, (2) ritiene rielaborati e arricchiti fra il 1515 e il 1519, a specchio di un'evoluzione repubblicana del Machiavelli e di un deciso allontanamento dalle tesi del Principe, nate intorno agli anni 1512-1513 dalla speranza di una vigorosa iniziativa italiana dei giovani Medici (Lorenzo di Piero e Giuliano duca di Nemours) sotto la guida del cardinal Giovanni, poi divenuto Leone X. (3)
È infatti improbabile che Machiavelli, avvicinatosi alla cerchia degli amici degli Orti Oricellari nel 1515, inseguisse nostalgie ο speranze in un principe redentore fino alla morte di Lorenzo di Piero. Più probabile invece che Leone X e il cardinal Giulio, divenuto reggente dello stato fiorentino, potessero prospettare anche soluzioni repubblicane entro una supervisione medicea, di cui Machiavelli e i suoi amici erano informati: "Parlerò della repubblica; si perché Firenze è subietto attissimo da pigliare questa forma, si perché s'intende la Santità vostra [Leone X] esserci (Delmo Maestri 130) dispostissima (il corsivo è mio)." (4)

E questo spiega la franchezza con cui espone le sue idee repubblicane a Leone X nel Discorso. Ma qual è il legame fra la Vita e il Discorso scritti a pochi mesi di distanza nello stesso 1520? Gennaro Sasso scorge nel pensiero dell'ultimo Machiavelli un precipitare verso conclusioni sempre più pessimistiche circa il rapporto virtù-fortuna in generale e le sorti di Firenze e dell'Italia in particolare, sicché nella Vita di Castruccio questo rapporto va ben oltre le conclusioni dei Discorsi e prelude alle Istorie Fiorentine: "Una dichiarazione questa [a proposito degli inizi della Vita sulla potenza della fortuna], che suona certo parecchio nuova e inconsueta in una pagina del Machiavelli [...] Persino in quel XXIX capitolo del II libro dei Discorsi che tra i testi 'fatalistici' del Machiavelli è, senza alcun dubbio, quello più denso di sfiducia, nelle concrete possibilità della virtù umana, [...] la conclusione sottolinea poi, con significativa mancanza di rigore, la possibilità di una libera affermazione umana." (5) E nella conclusione dello stesso capitolo: "Un senso di sfiducia e di rinuncia percorre quest'ultimo documento del pensiero politico machiavelliano (la Vita), più oltre; le Istorie Fiorentine offriranno nuovi problemi, nuove prospettive, le linee di una grande interpretazione di certi momenti della storia italiana. Ma al fondo di queste pagine, la nota dominante sarà ancora una volta quella della rinuncia pratica, il senso della conclusione definitiva di tutta una fase della storia italiana." (6) 
Mentre la tesi del Gaeta spezza il nesso fra la Vita e le opere successive e trascura il rapporto fra Vita e Discorso, quella del Sasso stabilisce una traiettoria rettilinea dai Discorsi alle Istorie Fiorentine senza fissarne le articolazioni e le svolte ben differenziate ed egli pure senza concentrarsi sulla Vita e sul Discorso cosi vicini nel tempo, ma cosi diversi da potersi considerare l'una il definitivo tramonto di un'ipotesi politica, l'altro l'ultima proposta positiva basata su di un'ipotesi ben diversa. Né la Vita è infatti un modello di come si scrive una storia umanistica di una città poiché questa, soprattutto indagata nelle sue tensioni interne e nel suo svolgimento continuamente instabile, non può essere esemplificata dalla biografia di un principe nuovo: vi è troppa differenza fra il tessere storia sulla gran variazione di governi e sul continuo insorgere di "umori" interni nuovi e di fatti esterni inaspettati e il concentrarsi sulla virtù progettatrice di uno solo che piega a sé avvenimenti e forze politiche. La Vita non è nemmeno un omaggio nostalgico al sogno di un principe redentore ο d'Italia ο di Firenze, poiché poco senso avrebbe per un Machiavelli ormai orientato verso la L'ultimo Machiavelli, tanto da proporne la restaurazione proprio a Leone X. 
E neppure è soltanto un pessimistico definitivo messaggio sulla forza immodificabile della fortuna, proprio mentre lo scrittore tornava a proporre nel Discorso un suo progetto di riordinamento politico di Firenze. La Vita deve essere considerata sia come una indagine storicopolitica sulla estrema difficoltà di un principe nuovo a porre le fondamenta per la continuità dello stato con una soluzione assolutistica, cioè personale e rigorosamente accentrata, sia come la conferma dello spostamento del Machiavelli verso l'idea di "redentore" quale "savio, buono e potente cittadino da il quale si ordinino leggi." Il problema era già stato affrontato nei Discorsi da cui emergeva questa sentenziosa conclusione: Donde nasce che gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d'uno uomo sono poco durabili: perché quella virtù manca con la vita di quello, e rare volte accade che la sia rinfrescata con la successione [...]. Non è adunque la salute di una repubblica ο d'un regno avere uno principe che più prudentemente governi mentre vive, ma uno che l'ordini in modo che morendo ancora la si mantenga. (7) Più tardi nelle Istorie Fiorentine questa problematica si presenta più particolareggiata e meglio emerge la positività del politico istitutore di leggi e ordini: Vero è che quando pure avviene (che avviene rade volte) che per buona fortuna della città surga in quella un savio, buono e potente cittadino da il quale si ordinino leggi per le quali questi umori de' nobili e de' popolani si quietino e in modo si restringhino che male operare non possino, allora è che quella città si può chiamare libera e quello stato si può fermo e stabile giudicare; perché sendo sopra buone leggi e buoni ordini fondato, non ha necessità della virtù di uno uomo, come hanno gli altri [le città che "spesso i loro governi dallo stato tirannico a quello licenzioso, e da questo a quello altro hanno variato e variano"], che lo mantenga. (8) Nel Discorso questa nuova positività del politico viene attribuita come possibilità a Leone X in un forma di dissimulata perorazione, che richiama e bene si distingue dall'esortazione del capitolo XXVI del Principe: "Non è esaltato alcuno uomo tanto in alcuna sua azione quanto sono quegli che hanno con leggi e con istituti reformato le repubbliche e i regni [...] Non dà [...] il cielo maggiore dono ad uno  uomo né gli può mostrare più gloriosa via di questa." (9) Castruccio invece con le arti della golpe e del lione si è costruito un ampio dominio, ha piegato ο distrutto i suoi nemici interni, minaccia ed è temuto dai suoi nemici esterni, ma all'ampiezza di questo potere personale non rispondono i buoni fondamenti del suo stato. E l'errore di Castruccio non consiste solo nel non aver previsto di morire al culmine del successo, ma nel non avere saputo dare ordine e continuità al suo stato. Questo è il senso del suo discorso — testamento a Paolo Guinigi, quando lo esorta addirittura al rovesciamento della sua politica: "Io ti lascio pertanto uno stato grande: di che sono molto contento; ma perché te lo lascio debole e infermo, io ne sono dolentissimo," (11) prospettandogli una linea completamente nuova adatta alla situazione e al temperamento di Paolo: "È cosa in questo mondo di importanza assai cognoscere se stesso, e sapere misurare le forze dello animo e dello stato suo; e chi si cognosce non atto alla guerra, si debba ingegnare con le arti della pace regnare." (11)  Cerchi allora la pace coi fiorentini: "I quali, dove io cercavo di farmeli inimici, [...] tu hai con ogni forza a cercare di fartegli amici."(12) La vita e i comportamenti di Castruccio hanno ricordato sia al Gaeta che al Sasso la figura e l'interpretazione del Valentino nel capitolo VII del Principe. Il Gaeta coglie la differenza nel fatto che il Valentino è modello di principe nuovo da proporsi come imitabile. (13)  Castruccio invece è considerato al passato in una dimensione nostalgica (14) e su questo giudizio ho già esposto le mie riserve. Per il Sasso la differenza consiste soprattutto nella completa subordinazione del destino di Castruccio alla fortuna. Nessun momento della sua vita sfuggirebbe alle sue pressioni: Fin dall'inizio la vita di Castruccio è determinata dalla fortuna [...]. E com'era stata la fortuna a far si che il piccolo [Castruccio] esposto nell'orto di messer Antonio [Castracani] fosse accolto nella sua casa, allevato ed educato, cosi è ancora la fortuna che, dopo averlo esaltato, lo spinge ad una misera morte. (15)
Nel capitolo VII del Principe invece la traiettoria della "estraordinaria ed estrema malignità di fortuna" non sottrae interamente la responsabilità del Valentino per non aver saputo evitare l'elezione di Giulio II: "Qui [nella Vita di Castruccio] la fortuna è veramente padrona assoluta della situazione, dal principio alla fine: nel capitolo VII del Principe il suo intervento non copre interamente la responsabilità del L'ultimo Machiavelli 133 Borgia." (16) A me pare che per l'uno e per l'altro si osservi, pur nelle differenze, (17) un medesimo percorso: l'uno e l'altro sono principi nuovi giunti al potere per fortuna e armi altrui, ma capaci di mantenerlo per virtù e armi proprie, salvo perderlo per un inaspettato accadimento: una malattia che immobilizza l'uno e uccide l'altro. Ma questo non significa che essi siano stati in tutti i momenti della loro vita rigidamente sospinti dalla fortuna. Se essa infatti è sempre presente nelle cose umane ("ludico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà, ο presso, a noi," Principe, xxv), nello svolgersi degli avvenimenti vi è come una dialettica di pressione e di rilassamento entro cui può giocare l'iniziativa della virtù e comunque sono vari i modi con cui essa interviene. Determina rigidamente, ove non vi sia "ordinata virtù a resisterle," oppure in caso di "estraordinaria ed estrema malignità," ma altrove è occasione alle scelte della virtù ο addirittura provocatrice di queste scelte. Un conto infatti è il suo intervento nella fase iniziale del destino di Castruccio, un conto è il suo comportamento nella fase del suo successo, quando gli lascia governare l'altra metà delle sue azioni, un conto è il repentino, suo opprimere nella fase finale. Quale iniziativa potrebbe infatti avere la fortuna se non quella di provocatrice della virtù nelle parole iniziali della Vita: "E' pare [...] cosa meravigliosa che tutti coloro ο la maggior parte di essi che hanno in questo mondo operato grandissime cose [...] abbino avuto il principio e il nascimento loro basso e oscuro ο vero dalla fortuna fuori d'ogni modo travagliato." (18 ) Ove questa funzione "travagliatrice" della fortuna illumina e attenua il determinismo delle righe sottostanti: "Credo bene che questo nasca che volendo la fortuna dimostrare al mondo di essere quella che faccia gli uomini grandi e non la prudenza, comincia a dimostrare le sue forze in tempo che la prudenza non ci possa avere alcuna parte, anzi da lei si abbi a ricognoscere il tutto." (19) Non capirei altrimenti ciò che dice poco dopo: "La quale [vita di Castruccio] mi è parso ridurre alla memoria delli uomini, parendomi avere trovato in essa molte cose, e quanto alla virtù e quanto alla fortuna (il corsivo è mio) di grandissimo esemplo." E osserverei anche un parallelo fra l'errore del Valentino e quello di non aver provveduto Castruccio a rafforzare debitamente i suoi stati, evitando una politica di continua espansione e provocazione senza assimilarne i vantaggi entro ordini consolidati. L'uno sbaglia perché non prevede di cadere ammalato mentre muore suo padre, l'altro perché non provvede debitamente, non pensando di dover morire: "Se io avessi creduto, figliuolo mio [a Paolo Guinigi sul letto di morte] che la fortuna mi avesse voluto troncare nel mezzo del corso il cammino per andare a quella gloria che io mi avevo con tanti miei felici successi promessa, io mi sarei affaticato meno ο a te arei lasciato, se minore stato, meno inimici e meno invidia."(20
La differenza allora fra i due non consiste in una responsabilità del Borgia rispetto al suo destino e nella subordinazione completa alla fortuna per Castruccio, ma nel fatto che Castruccio può essere "grandissimo esemplo" in molte cose "quanto alla virtù e quanto alla fortuna," ma non in modo assoluto "imitabile a tutti coloro che per fortuna e per l'armi d'altri sono ascesi all'imperio." (21) E non lo può perché Machiavelli non ha più fiducia in una soluzione monarchica non solo del problema italiano, ma di quello fiorentino, tanto è vero che poco dopo nel Discorso a Leone X perorerà la causa di una nuova costituzione repubblicana per Firenze. Coraggioso discorso, in cui si riassumono i percorsi meditativi precedenti, dando un particolare giudizio sui governi fiorentini fra il '400 e il primo ventennio del '500 e concludendo con la proposta di una repubblica, di cui deve farsi promotore lo stesso Leone X. Qui il politico esemplare non si presenta più come il principe nuovo concentrato nel costruire esclusivamente per sé lo stato, ma "non è esaltato alcuno uomo tanto in alcuna sua azione quanto sono quegli che hanno con leggi e con istituti riformato le repubbliche e i regni." (22) Concetto questo che rivela una continuità dai Discorsi sulla Prima Deca alle Istorie Fiorentine e contemporaneamente l'abbandono del modello del principe nuovo in crisi fra il Principe e la Vita di Castruccio. Nei Discorsi un esempio di politico "riformatore" è Licurgo: "Intra quelli che hanno per simili constituzioni [miste di principato, ottimati, governo popolare] meritato più laude è Licurgo, il quale ordinò in modo le sue leggi in Sparta che, dando le parti sue ai Re, agli Ottimati e al Popolo, fece uno stato che durò più che 800 anni." (23) Nel libro IV delle Istorie Fiorentine nel cap. 1 già citato il concetto del "savio, buono e potente cittadino" riformatore è enunciato in generale e contrapposto alla "virtù" di uno solo e alla difficoltà sua di mantenersi. 

Nel Discorso questa funzione è attribuita a Leone X, ma qui non tanto mi preme il progetto dell'ottimo governo fondato su istituzioni che garantiscano l'equilibrio degli interessi delle varie categorie sociali fiorentine e insieme della casa Medici e dei suoi amici, oltretutto poi contraddetto dagli eventi italiani e fiorentini, quanto le motivazioni per cui Firenze doveva assumere una forma repubblicana. Queste motivazioni sono ritrovate con lapidari giudizi L'ultimo Machiavelli  nelle forme politiche di Firenze dai Medici del '400, al gonfalonierato di Pier Soderini, alla restaurazione del 1512. È l'instabilità politica di queste forme che si mette in rilievo. Firenze non è mai stata vero principato ο vera repubblica: Perché non si può chiamar quel principato stabile, dove le cose si fanno secondo che vuole uno e si deliberano con il consenso di molti: né si può credere quella repubblica esser per durare, dove non si satisfa a quegli umori [desideri, appetiti delle parti sociali] a' quali non si satisfacendo le repubbliche rovinano. (24) Cosi lo stato di Cosimo e di Lorenzo, pur essendo governato con il favor del popolo e retto con la prudenza: Non di meno gli arrecava tanta debolezza lo aversi a deliberare per assai quello che Cosimo voleva condurre, che portò più volte pericolo di perderlo: donde nacquono gli spessi parlamenti e gli spessi esilii che durante quello si feciono; e infine di poi, in sull'accidente della passata del re Carlo, si perde. (25) E sul gonfalonierato di giustizia: "Ed era tanto manco e discosto da una vera repubblica che un gonfaloniere a vita, s'egli era savio e tristo, facilmente si poteva fare principe; s'egli era buono e debole, facilmente ne poteva esser cacciato." (26)

Franca è poi l'indicazione del perché questa costante minaccia di instabilità: "La cagione [...] è che le riforme di quegli [i governi] sono state fatte non a satisfazione del bene comune ma a corroborazione e securtà della parte: la quale securtà non si è anche trovata, per esservi sempre stata una parte mal contenta, la quale è stata un gagliardissimo instrumento a chi ha desiderato variare." (27) E se afferma di non voler discorrere dello stato del 1512, cioè della restaurazione medicea, tuttavia ne discorre subito dopo, quando allega i motivi per cui non è conveniente ritornare allo stato di Cosimo: "perché se lo stato di Cosimo aveva in quelli tempi tante debolezze quante di sopra sono allegate, in questi tempi un simile stato le raddoppia, perché la città, i cittadini e' tempi sono difformi da quello che egli erano allora." (28) Ed elenca le "difformità": i nuovi Medici non hanno avuto per amico l'universale; Firenze non può sostenersi contro Francia e Spagna e deve stare ο con l'una ο con l'altra; i cittadini non sono più abituati a sostenere gravezze; preferiscono un capo pubblico, cioè eletto, piuttosto che un capo privato. Si deve allora instaurare ο un vero principato ο una vera repubblica e Machiavelli è per la seconda, perché: "In tutte le città dove è grande equalità di cittadini [cioè dove non vi sono classi privilegiate], non si può ordinare principato se non con massima difficultà, e in quelle città dove è grande inequalità di cittadini non si può ordinare repubblica." (29)

Il Discorso a Leone X rappresenta l'ultimo sforzo di Machiavelli per affrontare la situazione fiorentina in modo positivo e vi emerge la preoccupazione di arginarne la tradizionale instabilità con una soluzione durevole. Il corso degli avvenimenti sarà destinato a deluderlo: si sta delineando un nuovo scontro tra Francia e Spagna, in seguito all'incoronazione di Carlo V a imperatore, e Firenze sarà costretta a prendere posizione e i progetti di riordinarla in senso repubblicano, se mai vi furono, vanno in fumo. In questo clima Machiavelli ha la commissione dal cardinal Giulio di scrivere le Istorie Fiorentine. Nella dedica a Clemente VII nel 1524 [il cardinal Giulio diventato nel frattempo papa] Machiavelli sintetizza le due direzioni della sua storia, quella italiana e quella fiorentina: "Leggendo adunque quelli [i tempi della sua storia fino a Lorenzo de' Medici], la V.S. Beatitudine vedrà in prima, poi che lo imperio romano cominciò in occidente a mancare la potenzia sua, con quante rovine e con quanti principi per più seculi la Italia variò li stati suoi [...]; vedrà come la sua patria, levatasi per divisione dall'ubbidienzia degli imperadori, infino che la si cominciò sotto l'ombra della Casa sua a governare, si mantenne divisa." (30)
Questa impostazione è approfondita in Ibidem., Istorie V, 1, pp. 219-21, secondo queste tesi: 1) Dopo la fine dell'impero romano l'Italia non è più stata unificata da un "virtuoso principato"; 2) I nuovi stati che sorsero furono tuttavia capaci di liberarla e di difenderla dai barbari; 3) Tra questi i fiorentini "non erano d'autorità né di potenza minori"; 4) Questi stati vissero in un instabile equilibrio di non pace e non guerra; 5) A lungo andare queste condizioni indebolirono le armi: "Quelle guerre in tanta debolezza vennono che le si cominciavano senza paura, trattavansi senza pericolo e finivonsi senza danno. Tanto che quella virtù che per lunga pace si soleva nelle altre provincie spegnere, fu dalla viltà di quelle in Italia spenta, come chiaramente si potrà cognoscere per quello che da noi sarà da il 1434 al '94 descritto; dove si vedrà come alla fine si aperse di nuovo la via a' barbari e riposesi la Italia nella L'ultimo Machiavelli 137 servitù di quelli." (31) Ma se lo sfondo di questa storia è il generale disgregarsi del sistema politico italiano, l'interesse e la passione si concentrano su Firenze, perché Firenze è come il microcosmo in cui meglio si riflette la crisi dell'intero sistema, non tanto provocata, fino almeno alla catastrofe finale, dagli interventi esterni, quanto dalle continue mutazioni interne che rendono instabile la condizione generale e portano l'uno stato a essere vittima dell'altro con continue alternative e rovesciamenti. È probabile invenzione il discorso del cittadino autorevole in San Piero Scheraggio, mentre si preparava lo scontro fra la "setta" dei guelfi, guidati da Benci de' Buondelmonti e Piero degli Albizzi e quella guidata dai Ricci, ma rende bene il pensiero dello scrittore: La comune corruzione, di tutte le città d'Italia, magnifici signori, ha corrotta e tuttavia corrompe la vostra città, perché, da poi che questa provincia si trasse di sotto alle forze dello imperio, le città di quella, non avendo un freno potente che le correggesse, hanno non come libere ma come divise in sette, gli stati e governi loro ordinati [...] E se le altre città sono di questi disordini ripiene la nostra ne è più che alcuna altra macchiata; perché le leggi, gli statuti, gli ordini civili, non secondo il vivere libero ma secondo la ambizione di quella parte che è rimasa superiore, si sono in quella sempre ordinati e ordinano. (32) Nasce cosi l'articolazione complessa delle Istorie: non solo la diramazione dell'interesse tra la crisi fiorentina e quella italiana, per l'instabilità interna e le pressioni esterne, ma ora la meditazione sulle costanti che reggono la storia, sulle cause generali degli accadimenti e delle svolte, la volontà di suggerire i rimedi e di biasimare le storture, ora il ritmo narrativo che registra il fluire dei fatti, l'insorgere incontenibile degli "umori," l'inaspettato delle svolte, i rovesciamenti delle attese, gli spostamenti inquieti delle scelte, con le rese lucide e drammatiche dei fatti e il concentrarsi sui rari momentanei equilibri politici. Generalmente le considerazioni sono concentrate a modo di principi ο "degnità" nei capitoli primi di ogni libro, ma fa eccezione il primo perché le considerazioni sono anticipate nella dedica a Clemente VII e nel Proemio. Nella dedica si fissa la condizione generale: le variazioni continue dell'Italia dopo la caduta dell'Impero romano. Nei libri seguenti sono indicate le cause della crisi italiana nella politica dei papi, nell'uso delle milizie mercenarie, nelle lotte di classe malintese, quelle cioè che generano le sette che, giunte al potere, escludono completamente i privilegi e i diritti dei vinti. Un interesse particolare è rivolto alle costituzioni degli stati. Quelli fondati su buone leggi e buoni ordini non hanno bisogno della virtù di un uomo solo, quelli instabili si, ma precario è il suo potere. Sono funzionali alle repubbliche le divisioni, ma queste non devono portare alle sette. Il capitolo I del libro VIII considera invece negativamente le congiure. E il capitolo I del libro V affronta il problema della ciclicità nel processo storico, riallacciandosi ai Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, e sembra inquadrare l'intero esame delle Istorie entro quest'ordine. Nei Discorsi, I, 1, p. 98 dell'edizione citata, Machiavelli parafrasa distesamente il libro VI delle Storie di Polibio fissando l'ordine dell'anaciclosi [ciclicità] in sei fasi: principato-tirannide, aristocrazia-oligarchia, democrazia-oclocrazia (demagogia): "Quelli che sono buoni sono e' soprascritti tre [Principato, Ottimati, Stato popolare]: quelli che sono rei sono tre altri i quali da questi tre dependano, e ciascuno d'essi è in modo simile a quello che gli è propinquo [perché i primi sono facili a corrompersi'], che facilmente saltano dall'uno all'altro." E anche da Polibio trae il rimedio dell'inarrestabile ciclicità: "Avendo quelli che prudentemente ordinano leggi conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per se stesso ne elessero uno che partecipasse di tutti, iudicandolo più fermo e più stabile, perché l'uno guarda l'altro."  (33) In Polibio tuttavia la ciclicità è sospinta da una propulsione deterministica e inarrestabile e i governo misto rappresenta solo un momentaneo equilibrio.  (34) Per Machiavelli invece raramente uno stato percorre l'intero ciclo e ritorna al primum: "Ma bene interviene che nel travagliare una repubblica, mancandogli sempre consiglio e forze, diventa suddita di uno stato propinquo che sia meglio ordinato di lei."  (35)  Introduce cioè un elemento di lotta tra stati, che rompe lo svolgimento rettilineo di ciascuno di essi, crea un reticolo di azioni e reazioni, spinte e contro-spinte, che fa della ciclicità solo una forza tendenziale e apre la possibilità di allentarla nel proprio stato ο di accelerarla in altri, con più spazio per l'iniziativa politica e il governo misto. Nelle Istorie Fiorentine si coglie anche un più libero movimento di sviluppo ed evoluzione più adatto alla diversità dei destini di stati e popoli: "Sogliono le Provincie il più delle volte, nel variare che le fanno, dall'ordine venire al disordine e di nuovo di poi dal disordine  all'ordine trapassare; perché non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come le arrivano alla loro ultima perfezione, non potendo più salire conviene che scendino; e similmente [...] non potendo più scendere conviene che salghino." (36) Il Sasso pensa tuttavia ad una possibilità di arresto stabile di questo processo naturalistico, se prevale il governo misto, (37) ma per il Machiavelli è piuttosto sempre presente la preoccupazione dell'instabilità e fragilità dello stato e la ricerca accanita di come possa stare unito. Anzi nelle Istorie l'intero corso delle vicende italiane rivela il prevalere delle mutazioni e le spinte delle ambizioni e dei desideri egoistici. Nel Principe il rapporto fra il politico e le circostanze entro cui doveva agire assumeva i tratti dello scontro epico di virtù e fortuna, nelle Istorie il moto delle forze e delle scelte contrapposte si configura soprattutto come l'insorgere degli "umori," mentre mancano quasi sempre le capacità politiche di contrastarli, arginarli, comporli. Gli umori: ne tratta in Principe, 9, Tutte le opere, op. cit., I, p. 31 e in Discorsi sulla prima deca, IV, 4, ibid., p. 71, identificandoli con le passioni e i desideri delle due classi che si scontrano nelle repubbliche, l'aristocrazia e il popolo. Nelle Istorie Fiorentine li ritroviamo nella stessa accezione: "Le gravi e naturali nimicizie che sono intra gli uomini popolari e i nobili [...] sono cagione di tutti i mali che nascono nelle città; perché da questa diversità di umori tutte l'altre cose che perturbano le repubbliche prendano il nutrimento loro." 3 8 Ma in quest'opera l'umore è anche causa di più articolate e complesse contese. I "maligni umori" possono destarsi tra diverse fazioni della nobiltà, come a Roma tra Colonnesi e Orsini, 3 9 oppure in una città, come Prato oppressa dai fiorentini, (40) ο fra politici guide di stati, come i sospetti e la diversità di umori del papa, del re di Napoli, dei veneziani e dei fiorentini. 4 1 In una stessa città gli umori possono essere vari e non coincidenti con le due classi contrapposte: Firenze, dopo la cacciata dei Bianchi: "Non solo [...] da uno umore ma da molti era perturbata, sendo in essa le inimicizie del popolo e de' grandi, de' Ghibellini e Guelfi e de' bianchi e neri." (42)  Ancora: "E perché la città era piena di diversi umori, ciascuno vario fine aveva e tutti, avanti che l'armi si posassero, di conseguirgli desideravano." (43) La nozione di umore deriva dalla teoria medica classica dei temperamenti costituiti dai quattro umori fondamentali e la loro mescolanza starebbe alla base dei caratteri individuali.  Machiavelli la applica naturalisticamente al corpo sociale, attribuendo ai vari gruppi inclinazioni contrastanti che solo l'ordine politico può acquetare. Le leggi infatti fanno si che "questi umori de' nobili e dei popolani si quietino ο in modo si restringhino che male operare non possino." (44) La società è cioè essa pure un corpo vivente e gli umori sono i suoi flussi vitali contrastanti che insorgono, si espandono, s'acquietano, defluiscono. Ad esempio: "crebbono in modo gli umori che ogni piccolo accidente [...] gli poteva fare traboccare," "ribollivano [...] i maligni umori delle parti di dentro," "da questa così divisa città fu fatta la impresa di Lucca nella quale si accesono gli umori delle parti non che si spegnessero." (45)
Se poi si dovesse indicare il significato di umori direi, traendo dallo stesso Machiavelli, "desideri," ο "appetiti," in genere attribuiti a gruppi sociali. Ma talvolta anche indicano i moventi individuali. Ad esempio: "Questi [Tommaso Soderini] cognosciuto l'umore del fratello come egli desiderava [il corsivo è mio] solo la libertà della città [...]." 4 6 Spesso sono specificati come passioni, ma si tratta di una indicazione psicologica non descritta ο analizzata attraverso specificazioni e sfumature individuali, ma subito collegata alle azioni in una chiara e schematica indicazione di causa ed effetto e quindi capace di elevare quel comportamento a modello di azione e di conseguenza politica. Ecco una concatenazione di causa-effetto fra "brutti costumi," avarizia, appetiti, odi e disordine e corruzione: tutto in Italia è corrotto: "I giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso e ogni età è piena di brutti costumi, a che le buone leggi, per essere dalle cattive usanze guaste, non rimediano. Di qui nasce quell'avarizia che si vede ne' cittadini, e quello appetito non di vera gloria ma di vituperosi onori dal quale dependono gli odi, le nimicizie, i dispareri, le sette; dalle quali nasce morti, esilii, afflizioni di buoni, esaltazioni di tristi." 4 7 In questo esempio invece il nesso passione-movente, avvenimento- conseguenza è semplificato: "Questa guerra, per ambizione del legato [pontificio] cominciata, fu dallo sdegno de' Fiorentini seguita." (48)  Le passioni possono essere moventi d'azione di ceti sociali: dei "grandi": "Ogni giorno nasceva qualche esempio della loro insolenzia e superbia"  (49); dei Ciompi, che temevano di essere puniti per le violenze commesse: "A che si aggiugneva un odio che il popolo minuto aveva con i cittadini ricchi e principi delle arti, non parendo loro essere soddisfatti delle fatiche loro secondo che giustamente credevano meritare" (50); delle "parti": "Dopo questa esecuzione [di Piero degli Albizi] rimase la città piena di confusione, perché i vinti e i vincitori temevono." (51) Nelle singole persone una passione assume predominio esclusivo e accoglie in sé tutta la tensione e la spinta dell'agire: Eudossa, costretta da Massimo romano a sposarlo, "desiderosa di vendicare tale ingiuria," chiama in Italia Genserico; Narsete, "ripieno di sdegno," persuade Alboino ad occupare l'Italia; Giusto volterrano è "acceso per se medesimo di odio per la ingiuria pubblica e per la privata contro a' fiorentini" e Dietisalvi Neroni agisce "come quello che più lo strigneva la propria ambizione che lo amore di Piero ο gli antichi benefizi da Cosimo ricevuti."52 Ove si osserva un più complesso gioco di passioni nel motivare l'azione. Altrove invece questa nasce dall'urto e dal "crescendo" di opposte passioni tra due individui e gruppi: "Da qui [perché non erano concessi loro gli onori che si attendevano] nacque ne' Pazzi il primo sdegno e ne' Medici il primo timore, e l'uno di questi che cresceva dava materia all'altro di crescere." 5 3 Se tuttavia è comune a tutta l'opera di Machiavelli questa rinascimentale spiegazione naturalistica delle scelte umane, nelle opere precedenti, a cominciare dai Discorsi, questi aveva mostrato di aver fiducia in una soluzione repubblicana e nella funzione positiva della grande personalità, ma nelle Istorie Fiorentine la spinta degli "umori" non viene che saltuariamente arginata e ordinata dalla forza dello stato, ne deriva cosi la rappresentazione appassionata e amara di un flusso di energie vitali variato, contraddittorio, disordinato e il prevalere e il premere di forze inaspettate e disgregatrici, né emerge un esempio di ottima repubblica, né di "savio, buono e potente cittadino" che sia in grado, non di guidare per sé lo stato, ma di porre le condizioni della sua durata. Anzi se lo scontro sociale è naturale e necessario in una repubblica, ben diversi sono stati i modi e le conseguenze a Roma e a Firenze: "Nelle vittorie del popolo la città di Roma più virtuosa diventava; perché, potendo i popolani essere alla amministrazione de' magistrati, degli eserciti e degli imperii con i nobili preposti, di quelle medesime virtù che erano quegli si riempievano; e quella città crescendovi la virtù, cresceva potenza; ma in Firenze, vincendo il popolo, i nobili privi de' magistrati rimanevano e volendo racquistargli era loro necessario [...] simili ai popolani non essere, ma parere [...]; tanto che quella virtù dell'armi e generosità di animo che era nella nobiltà si spegneva, e nel popolo dove la non era non si poteva raccendere." 5 4 Abbondante è poi Delmo Maestri 142 la galleria dei politici incapaci ο inconcludenti ο incoscienti. Si pensi all'instabile arcivescovo di Firenze Agnolo Acciaiuoli, alle esitazioni di Rinaldo degli Albizzi, al giudizio sprezzante su Giovanni d'Angiò che non sa conquistare Napoli e cogliere la vittoria, all'inconcludenza di Niccolò Soderini nominato gonfaloniere; all'inadeguatezza di Galeazzo Sforza infine invitato dai fiorentini ad andarsene, ai giudizi sulle congiure: di Stefano Porcari, di Giovannandrea Lampugnani, dei Pazzi, poco realistiche nel progetto e nei modi, guidate da inesperti, ingenui, incoscienti. 5 5 Sono poche, a contrasto, le figure dei politici virtuosi, nessuno dei quali inoltre riesce a fondare uno stato capace di continuità. Neppure Teodorico, spesso interpretato dalla critica come modello di principe legislatore entro una prospettiva nostalgica. 5 6 Ma nonostante il suo regno durasse trentott'anni, dopo la sua morte si dissolve esso pure per una "estraordinaria ed estrema malignità di fortuna": "Venuto quello [Teodorico] a morte, e rimaso nel regno Atalarico, nato da Amalasunta sua figliuola, in poco tempo, non sendo ancora la fortuna sfogata [il corsivo è mio], negli antichi suoi affanni si ritorno." 5 7 A ben guardare una stessa caratteristica unisce Teodorico agli altri politici "virtuosi"; la fortuna del loro governo dura quanto la loro vita. Il cardinale Egidio di Albornoz con la sua virtù "non solamente in Romagna e in Roma, ma per tutta Italia aveva renduta la reputazione alla Chiesa," ma "perché gli era ancora morto il cardinale Egidio, la Italia era tornata nelle sue antiche discordie." 5 8 E Michele Lando del quale Machiavelli tesse uno dei più notevoli elogi delle Istorie: "Il quale d'animo, di prudenza e di bontà superò in quel tempo [durante il tumulto dei Ciompi] qualunque cittadino, e merita di essere annoverato intra i pochi che abbino beneficata la patria loro [il corsivo è mio]; [...] la bontà sua non gli lasciò mai venire pensiero nello animo che fusse al bene universale contrario, la prudenza sua gli fece condurre le cose in modo, che molti della parte sua gli cederono e quelli altri potette con le armi domare." 5 9 Ma quando la parte dei popolani, dei nobili e dei guelfi riprende lo stato, viene confinato: "Né lo salvò dalla rabbia delle parti tanti beni de' quali era stato cagione la sua autorità, quando la sfrenata moltitudine licenziosamente rovinava la città." 6 0 Vi sono poi i Medici, ma se in apparenza da Cosimo a Lorenzo lo stato sembra svolgersi in un continuum di ordinamenti, nella realtà ognuno dei Medici costruisce un difficile equilibrio momentaneo e alla sua morte si riapre il problema dell'instabilità: "In tanta varietà di fortuna e in si varia città e volubile L'ultimo Machiavelli 143 cittadinanza tenne [Cosimo] uno stato trentuno anno, perché sendo prudentissimo cognosceva i mali discosto, e perciò era a tempo ο a non li lasciare crescere ο a prepararsi in modo che cresciuti non lo offendessero."61 Ma Firenze torna varia e volubile sotto Piero, che non sa comporre i contrasti: "In tanta pace Firenze era da' suoi cittadini grandemente afflitta, e Piero alla ambizione, dalla malattia impedito, non sapeva opporsi." 6 2 Neppure Lorenzo sfugge a questa delineazione del politico capace per sé di dominare la città, ma non a provvedere alla sua stabilità futura. Suonano allora significative su Lorenzo queste parole: "Perché Lorenzo, posate l'armi di Italia, le quali per il senno e autorità sua si erano ferme, volse l'animo a fare grande sé e la sua città." 6 3 Sottolineo sé e la sua città perché qui è fusa la vita della città con quella del principe. Aveva detto Machiavelli nella dedica a Clemente VII: "Vedrà come la Sua patria, levatasi per divisione della ubbidienzia degli imperadori, infino che la si cominciò sotto l'ombra della Casa sua a governare, si mantenne divisa." 6 4 Che la si cominciò a governare, ma non che continuò ad essere stabilmente governata. Le Istorie si chiudono con la morte di Lorenzo e le famose parole: "Subito morto Lorenzo cominciorono a nascere quegli cattivi semi i quali, non dopo molto tempo, non sendo vivo chi gli sapesse spegnere, rovinorono e ancora rovinono la Italia." 66 Che sembrano travolgere il destino di Firenze nel destino d'Italia. Ma che ne è delle vicende fiorentine dopo Lorenzo? Nella dedica a Clemente VII Machiavelli si schermisce, non tratterà della storia recentissima: "Avendo le cose che dipoi sono seguite, sendo più alte e maggiori, con più alto e maggiore spirito a descriversi." 6 6 Ma per Firenze queste cose le aveva, sia pur sinteticamente, descritte quando nella Vita di Castruccio aveva mostrato definitivamente i limiti del principato nuovo e aveva nel Discorso indicato per Firenze la forma repubblicana come la più adatta rifiutando come riproponibili le esperienze politiche dei Medici del '400, del gonfalonierato di giustizia, della restaurazione del '12. Nelle Istorie Fiorentine gli ulteriori avvenimenti chiudevano anche quest'ultima strada. Machiavelli tuttavia questo sconsolato messaggio, che non esaltava né la missione attuale della sua Casa, né prevedeva una qualche speranza di stabilità per la sua città, a Clemente VII proprio non poteva portarlo e per questo si ferma alla morte di  Lorenzo e all'indeterminato sfondo luttuoso delle sue conseguenze.

NOTE 1 Cfr. R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli (Roma: A. Benedetti, 1954), p. 272; F. Gaeta, "Nota introduttiva," alla Vita di Castruccio Castracani, in Machiavelli, Opere (Milano: Feltrinelli, 1962), Vol, VII, pp. 3-4. Nel Gaeta anche le informazioni sull'atteggiamento del Buondelmonti e degli amici degli Orti Oricellari e sugli inizi del progetto delle Istorie, p. 3; idem., "Machiavelli storico," in Machiavelli nel V Centenario della nascita (Bologna: Massimiliano Boni Editore, 1973), pp. 140-1; F. Gilbert, "Machiavelli's 'Istorie Fiorentine': An Essay in Interpretation," in Studies on Machiavelli, a cura di M. P. Gilmore (Firenze: Sansoni, 1972); idem., Machiavelli e il suo tempo (Bologna: il Mulino, 1977), pp. 294, nota 18, e 314. Dissente da questa tesi J. H. Whitfield, "Machiavelli and Castruccio," Italian Studies VIII (1953), 1-28. La frase che la Vita di Castruccio sarebbe "vostro [di Machiavelli] modello di storia" si trova nella lettera di Zanobi Buondelmonti a Machiavelli del 6 settembre 1520, in Machiavelli, Opere, op. cit., Vol. VI, pp. 394-5. 2 F. Gilbert, "Composizione e struttura dei Discorsi" in Machiavelli e il suo tempo, op. cit., pp. 223-52. 
3 F. Gaeta, "Nota introduttiva alle Istorie Fiorentine" in Machiavelli, Opere, op. cit., p. 50. 4 "Discorso sopra il riformare ecc.," in Tutte le opere di Niccolò Machiavelli, a cura di F. Flora e C. Cordié (Milano: Mondadori, 1950), Vol. II, p. 531. 5 G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico (Napoli: Istituto italiano per gli studi storici, 1958), p. 490. 6 Ibid., p. 496. 7 Tutte le opere, op. cit., Vol. I, Prima Deca, I, XI, pp. 127-8. 8 Ibid., Vol. II, Istorie Fiorentine, IV, I, p. 172. 9 Ibid., Vol. II, Discorso, p. 538. 10 Ibid., Vol. I, Vita di Castruccio, p. 668. 11 Ibid. 12 Ibid. 
13 Ibid., Vol. I, Principe, VII, p. 26: "Mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l'arme d'altri sono ascesi allo imperio." L'ultimo Machiavelli 145 
14 F. Gaeta, "Nota introduttiva," alla Vita di Castruccio, in Machiavelli, Opere, op. cit.. Vol. I, pp. 4-5. 
1 5 Sasso, op. cit., p. 491. 16 Ibid., p. 493. 
1 7 Cesare Borgia viene visto come costruttore del suo stato, intento a porvi le fondamenta sia assicurandosi il controllo delle milizie mercenarie, sia riducendo la Romagna in pace e unita. Castruccio invece è presentato soprattutto come capo militare e conquistatore. 
18 Tutte le opere, op. cit., Vol. I, Vita di Castruccio, p. 647. 
19 Ibid. Si tratta comunque di un'esibizione prepotente e vanitosa della Fortunadonna, perché poi la prudenza avrà la sua parte. 
20 Ibid., p. 667. 
21 Ibid., Vol. I, Principe, VII, p. 26. 
22 Ibid., Vol. 
II, Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze a istanza di Papa Leone, p. 538 
23 Ibid., Vol. I, Discorsi sulla Prima Deca, p. 100 
24 Ibid., Vol. II, Discorso sopra il riformare [...], p. 526. 
25 Ibid., p. 527. 
26 Ibid.
27 Ibid., pp. 527-8. 
28 Ibid., pp. 528-9. 
29 Ibid., p. 531. 
30 Ibid., Vol. 
II, Istorie Fiorentine, p. 3. 
31 Ibid., V, 1, pp. 219-21. 
32 Ibid., III, 5, pp. 128 e 129. Un giudizio simile si trova in Proemio, pp. 5-6, particolarmente: "E se di niuna repubblica furono mai le divisioni notabili, di quella di Firenze sono notabilissime." 
33 Ibid., Vol. I, Discorsi sulla Prima Deca, p. 100. 
34 Cfr. R. Cantarella, Storia della letteratura greca (Milano: Nuova Accademia Editrice, 1962), p. 841: "La costituzione mista e perfetta rappresenta un momento contingente, storicamente attuato in Roma [...]; mentre l'anaciclosi è il processo non soltanto storico ma cosmico nel quale ogni cosa si inserisce, con le sue vicende di origine, progresso e decadenza, in perpetuo rinnovellarsi." 
35 Tutte le opere, op. cit., Vol. I, Discorsi sulla Prima Deca, I, 2, p. 100. 
36 Ibid., Vol. II, Istorie Fiorentine, V, 1, p. 219. 
3 7 Sasso, op. cit., pp. 308-14. 
38 Tutte le opere, op. cit., Vol. II, Istorie Fiorentine. III, 1, p. 122. 
Cfr. anche II, 12, pp. 73-4; IV, 2, p. 172. 
39 Ibid., III, 27, p. 418. 
40 Ibid., VII, 25, p. 363.
41 Ibid., VII, 31, p. 372.
42 Ibid., II, 21, p. 85. 
43 Ibid., III, 21, p. 158. Delmo Maestri _ 
45 Ibid., rispettivamente: II, 17, p. 79; IV, 26, pp. 204 e 205. 
46 Ibid., VII, 14, p. 349. 47 Ibid., III, 5, p. 128. 48 Ibid., III, 7, p. 132. 49 Ibid., III, 39, p. 116. 50 Ibid., III, 12, p. 141. 51 Ibid., III, 19, p. 155. 52 Ibid., rispettivamente: I, 3, p. 13; I, 8, p. 19; IV, 17, p. 191; VII, 10, p. 343. 53 Ibid., VIII, 2, p. 381.
54 Ibid., III, 1, p. 123, ma cfr. tutto il cap. 1, pp. 122-3. 
5 5 Ibid., rispettivamente: II, 39, p. 116; IV, 31-3, pp. 214-18; VI, 37, p. 326; VII, 14, p. 349; VII, 20, pp. 356-8; VI, 29, pp. 313-15; VII, 33-4, pp. 374-8; VIII, 2-9, pp. 180-92. 
56 Cfr., ad esempio, F. Chabod, Scritti su Machiavelli (Torino: Einaudi, 1964), p. 250. 
57 Tutte le opere, op. cit., Vol. II, Istorie Fiorentine, I, 6, p. 17; per Teodorico, cfr. I, 4, pp. 14-15. 
58 Ibid., I, 32, p. 50. 
59 Ibid., III, 17, p. 152. 
60 Ibid., III, 22, p. 159. 
61 Ibid., VII, 5, p. 336.
6 2 Ibid., VII, 23, p. 360. 
6 3 Ibid., VIII, 36, p. 431. 
64 Ibid., dedica, p. 3. 
65 Ibid., VIII, 36, p. 434. 
66 Ibid., dedica, p. 3.
...

RIVISTA DI STUDI ITALIANI
Anno XVI , n° 1, Giugno 1998 Contributi )pag. 128-146

DALLA VITA DI CASTRUCCIO CASTRACANI
ALLE ISTORIE FIORENTINE: L'ULTIMO MACHIAVELLI
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