Certo non è mai stata bella come altre, ma la fontana di Piazza Gramsci, progettata e costruita insieme ai box molti anni fa, ha cantato per una notte sola.
Più che una fontana pareva una piccola piscina dondolante e riflettente onde azzurre, un'umile profondità che risuonava armonica, accompagnando i giochi dei bimbi, le chiacchere dei vecchi seduti sulle panchine, il suono della campana della chiesa vicina, il canto degli uccelli e l'abbaiare di un cane, tante piccole tessere a formare il suo grembo che accoglieva gioioso quell'argentino zampillio, pareva un ruscello di montagna, una danza d'acqua subito fatta zittire dagli abitanti della piazza perché "troppo rumorosa".
Detto fatto, quel povero grembo fu violato e tradito, trasformato in quello che non era, "usato" come ricettacolo di tutti quegli avanzi che gli uomini lasciano a terra, scia della loro incuria, incapaci ormai di godere delle forme e dei canti della Dea della bellezza.
Ora si chiede di toglierla, la si denigra come se fosse colpa della fontana lo scempio che ne abbiamo fatto.
La mancanza d'amore si paga sempre cara, perché manca di quello sguardo che non è nel futuro, ma nell'invisibile, nel fare bello il presente in cui si vive, danzando nel suo Ritmo. Se avessimo saputo amarlo da subito quel canto, se fossimo stati capaci, alla sera nel letto, chiusi nelle nostre stanze, di farci accompagnare nel sonno da quel canto, invece che maledirlo, se fossimo ogni giorno capaci di ritornare bambini, come quando sulle rive di un ruscello scoprivamo il mondo e la sua armonia di cui noi siamo parte costitutiva e costruttiva, beh, allora quella fontana sarebbe stata la nostra fontana di piazza Gramsci, amata per la gioia che lei ci dava, ma che noi, ingrati, non abbiamo mai saputo benedire.
E' così che si spendono male i danari e le forze comuni, è così , semplicemente per mancanza d'amore. Se davvero amassimo la nostra Milano, se davvero amassimo, come io amo, la nostra piazza Gramsci, dovremmo chiedere scusa alla nostra fontana e aiutarla ad essere quello che lei è, non quello che noi vorremmo.
Quello che dovremmo fare con i nostri figli, con ogni persona che sta affogando e che lasciamo morire, per mancanza d'amore, in pozze d'acqua marcia, in stagni dove nemmeno le ninfee osano più la loro bellezza, dove tutto è rumore, un rumore talmente assordante che necessitiamo di un capro espiatorio, incapaci di assumere su noi la responsabilità di una nuova consapevolezza: una nuova innocenza.
Questa volta è la fontana di piazza Gramsci. Domani cosa o chi sarà?
Il ruscello
di Angiolo Silvio Novaro
C'era una volta un giovane ruscello
color di perla, che alla vecchia valle
tra molli giunchi e pratoline gialle,
correva snello;
e c'era un bimbo che gli tendea le mani
dicendo: "A che tutto cotesto foco?
Posa un po' qui: si gioca un caro gioco
se tu rimani.
Se tu rimani, o movi adagio i passi,
un lago nasce e nell'argento fresco
della bell'acqua io, con le mani, pesco
gemme di sassi.
Fermati dunque, non fuggir così!
L'uccello che cinguetta ora sul ramo
ancor cinguetterà, se noi giochiamo
taciti qui".
Rise il ruscello e tremolò commosso
al cenno delle amiche mani tese;
e con un tono di voce cortese
disse: "Non posso!
Vorrei: non posso! il cuor mi vola: ho fretta.
A mezzo il piano, a leghe di cammino,
la sollecita ruota del mulino
c'è che mi aspetta;
e c'è la vispa e provvida massaia
che risciacquar la nuova tela deve
e sciorinarla sì che al sole neve
candida paia;
e v'è il gregge, che a sera porge il muso
avido a bere di quest'onda chiara,
e gode s'io lo sazio, poi ripara
contento al chiuso.
Lasciami dunque" terminò il ruscello
"correre dove il mio dover mi vuole".
E giù pel piano, luccicando al sole,
disparve snello.
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"I Semi della gioia"