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Cartoline da...
Ai tempi di Maico
Marina Maranetto

La metamorfosi ha avuto inizio un sabato mattina ritirando la posta.

Accadono così le cose, infilandosi nella normalità come una lisca di pesce nella gengiva: non te ne accorgi e dopo due giorni si forma un ascesso.

Sembrava una lettera da cestinare con le altre che intasano le cassette postali, ma il logo azzurrognolo, inoffensivo, chissà perché invitava a cadere nella trappola della lettura. Maico e null’altro. Chi sei? Dopo le prime parole ormai ero spacciata: l’offerta di una visita audiometrica gratuita, con annesso il mese di prova dell’ultima novità in fatto di protesi per sordi, m’aveva ghermita. La riga rossa dell’ira era salita dai visceri alla testa. Questi vogliono rubarmi il futuro quando mi sento in piena crisi d’onnipotenza.

Ci sento benissimo. Il più flebile sospiro, il battito del cuore, il sussurro di una foglia. Sono giovane, ancora. Già… ma perché sento il bisogno di affermarlo con tanta emotività? E’ quell’ “ancora” a destare il sospetto di non esserlo più. Rabbrividendo mi scruto, mi spio, e avverto il malessere come un tormento di mosca. Mi chiedo quale Cia d’informatori voglia trascinare anche me, soggetto passivo, nella malevola visione di montascale, pannoloni, cataratte, plantari, e similari inconvenienti dell’età di Maico.

La fuga da un futuro prossimo, nel quale ero andata a strofinare la faccia, parve risolversi nel gesto di annientare la lettera nella spazzatura e nulla di ciò che era accaduto sembrava destinato ad affiorare. I giorni apparivano quelli di prima, i passi altrettanto lievi. Ma non è stato così. Ho tagliato i capelli cortissimi, abbandonato i tacchi bassi e le tonalità sobrie. Ho accantonato l’ultimo briciolo di saggezza per inciampare in scemenze quotidiane, elaborando teorie assolutorie. Ho mangiato distanze in treno e in aereo. La vita prendeva la forma di una continua vacanza e il conto in banca arrossiva. Stavo diventando adoratrice di me stessa, ma la solitudine, un tempo amica e confidente, pesava come un macigno di malinconia.

La cupola di notte africana pareva circoscrivere il luogo per salvare dal nulla stelle tanto grandi da sentirle addosso. Passeggiando lungo la spiaggia, stanca di raccontarmi uno stupore  che si avvitava nella mia testa, avevo preso la direzione di una musica in lontananza. Non ricordavo d’essere entrata in un locale, ma la voce che intonava canzoni della mia giovinezza, tra i classici intramontabili come aspiravo ad essere anch’io, fece da esca.  In giro quasi nessuno. La voce sovrastava il brusio di lingue diverse: pochi prestavano attenzione oltre la prima fila di tavolini. A colpo d’occhio, potevo essere la più giovane. La luce soffusa faceva il resto.

Bene, faccio ancora la mia figura qui dentro, ma sedermi al tavolo in veste di adescatrice intenzionale disturba il mio senso estetico. Così mi arrampico sul trespolo presso il bancone del bar ben calcolando che, pur diversamente alta, avrei conquistato la vetta conservando l’onore. Prendo un caffè e me ne vado, mi dico accorgendomi all’istante di essere a tre metri dal cantante. Non mi pare educato svignarmela subito, così m’impongo d’attendere la pausa.

Inevitabile che lo guardassi. La faccia da americano era passata indenne attraverso burri d’arachide e sciroppi d’acero delle loro colazioni fritte. Niente maniglie dell’amore né stomaco da bevitore. In aggiunta, una testa folta di capelli striati di biondo come non se ne vedono dalle nostre parti. Cantava per sé, assorto nella musica che accarezzava sulle corde, portandomi a piccoli passi dentro la sua passione. Non riuscivo a distogliermi per un’emozione che lo corrispondeva al punto da fargli volgere la testa dalla mia parte.

Ora cantava anche per me. Non mi accorgevo di nulla, nemmeno della signora seduta accanto che doveva sentirsi  fuori  tempo e fuori luogo. Non provando il mio stesso rapimento, fissava il suo pessimo caffè tenendosi pronta, col portafoglio in mano, a cogliere l’attimo della fuga, incurante del minuetto di sguardi e di applausi in pieno svolgimento vicino a lei, né io la sentivo trafficare con le monete, tra decimi, centesimi e cambio di valuta nel quale si era  imbozzolata.

Il silenzio arriva improvviso. Scivolo dal trespolo con la gola strozzata dall’ansia. Non so cosa fare, il tempo mi manca. Con tre passi s’accosta al bancone afferrando il bicchiere già pronto per lui. E’ troppo bello per me anche da vicino. Toppo vicino. Accenna un inchino e un baciamano. Le sue luci di posizione sono accese e lampeggiano sorrisi e parole. Non ho più saliva mentre stento una conversazione in Inglese, ignorando la mia mano ancora trattenuta. Mi fingo monca perché mi sto perdendo nella naturalezza seducente di chi sa di essere ciò che è. Le mie gambe di gelatina non reggeranno un passo, si scioglieranno sul posto: “ritratto di una mezzo-busto con moncherino”… e mi porteranno via così. Ma ecco che ad altezza di naso una mano con spiccioli taglia di netto il foto-dramma.

“Scusi, Signora, le sembra giusto il resto?” mi chiede la vicina nella mia lingua. Sarà dalle scarpe che gli Italiani all’estero si riconoscono a colpo sicuro.

“Immagino di sì”, rispondo attonita. In pochi istanti lampi di pensieri da riempire pagine scritte, arrivano a coscienza tutti insieme. La bolla di sapone si è frantumata in volo.

Provo vergogna. La mia mano ancora nella sua già freme nella fretta del commiato e ritorna al suo posto. Le gambe mi trasportano fuori. Sono di nuovo intera.  Mi attende la risacca, col suo tonfo cadenzato che è il battito del mare, mentre il mio ancora infuria. Guardo la cupola della notte senza più sentire le stelle su di me, così lontane adesso. Mi sento stanca come un binario su cui siano transitati troppi treni. Il logo azzurrognolo di Maico ha acceso la sua flebile luce.

Voglio tornare a casa.

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