Insieme alla sua gente, sperduta nelle foreste dello Jutland in fondo a destra, PiccolafigliadiThor apparteneva a questo secolo per errore. L’eco del mondo trafelato aveva raggiunto quei luoghi con una voce molto flebile, risparmiando la popolazione dal frastuono del cattivo gusto, dei bisogni indotti e delle mode. La vita della comunità si svolgeva serenamente in una sorta di autarchia, dove tutto il necessario veniva prodotto e consumato seguendo ritmi e abitudini antiche, appena segnate dalle innovazioni: nel corso della Storia le grandi migrazioni di genti diverse avevano preso altre strade, lasciando intatto quel territorio dimenticato e i suoi abitanti, biondi giganti resistenti alla fatica e alle intemperie.
PiccolafigliadiThor era dotata della stessa forza sovrumana che aveva consentito ai suoi avi, guerrieri e navigatori, di compiere le epiche imprese di conquista che conosciamo. Già dai primi vagiti aveva cominciato a rompere culle: non una che resistesse allo slancio gioioso dei piedini e delle braccine finché, di materiale in materiale, e da artigiano ad artigiano, il carpentiere del villaggio non costruì per lei una piccola nave vichinga rinforzata, amorevolmente adattata a giaciglio da mamma e papà. A tre anni schiacciava le noci con le mani; a sei, menava fendenti all’aere roteando martelli, sua intima passione, giusto per convogliare energie che mai e poi mai avrebbe sfogato su qualcuno; a dodici, mostrava uno straordinario talento nel costruire oggetti di pubblica inutilità, assorta in esuberanti slanci creativi; a venti, era in grado di portare a termine qualsiasi manufatto in legno, pietra o mattoni, che impastava a mano con metodi originali.
Nessuno avrebbe mai supposto che una pena profonda si fosse insediata tra le pieghe della forza positiva che emanava, scaldando i cuori più refrattari al sorriso: odiava il suo nome che l’aveva segnata dalla nascita, limitando il suo sviluppo. A sostegno del concetto di relatività, PiccolafigliadiThor, alta e possente ai nostri occhi, era tra i suoi simili poco dotata. Per tenere a bada i cattivi pensieri, s’impegnava quotidianamente in prove fisiche estenuanti, sperando che la sua forza, divenuta leggendaria, le procurasse un nome più adatto.
Niente da fare.
Durante la celebrazione dei riti invernali, spettava a lei il ruolo della Piccola figlia di Thor in una sorta di presepe, simbolo della relazione che accomuna i misteri e le fiabe necessarie a diffondere ciascun credo: la nascita, i miracoli, la morte e l’ascesa degli dei. Dai tempi di Harald Dente Blu, convertitosi non per fede ma per necessità con gli uffici del vescovo Poppone, ogni successivo rivolgimento era scivolato sulle antiche credenze senza scalfirle, con il disincanto tipico di coloro che sanno usare la testa e riservare alla pancia le sue proprie funzioni.
Nel generale tripudio di canti, invocazioni, clangore di umboni e spade, lance ed asce, veniva spupazzata da un gigante all’altro, fino alle braccia di Thor, tale Gardar detto “lo Svedese” che, al grido di “Poppone! Poppone!”, la sollevava al Ginnungagap, il grande vuoto del Principio, appigliandosi alla meraviglia delle rigogliose mammelle, in una delirante commistione di sacro e profano evocata dal nome vescovile. PiccolafigliadiThor tratteneva a stento la rabbia che le formicolava nelle mani, offrendosi alla misericordia degli dei in cambio di un po’ di riguardo per il suo intimo desiderio, ora che le sembrava di aver guadagnato il diritto ad un nome meno umiliante.
Si era svegliata all’alba con un confuso presentimento, le ossa dolenti e il mal di testa per la troppa birra bevuta ma, affidandosi al pragmatismo che la distingueva, decise di godersi la giornata di vacanza andando a pescare. Dopo un’immersione nell’abbeveratoio-lavanderia costruito davanti a casa, con un sistema di secchi rotanti che attingevano acqua in successione, si vestì in fretta senza dimenticare il collare con il ciondolo a martello da cui non si separava mai: se dopo la cristianizzazione i suoi avi avevano associato alla croce quell’utensile, simbolo di Thor, lei preferiva attenersi soltanto al martello, di provata utilità in ogni circostanza, tanto che a lungo era stato associato alla falce in altri paesi più evoluti del suo, per una sorta di residua affezione. Così aveva sentito dire.
Più che di canna da pesca, si trattava di un cannone in legno pesantissimo di sua invenzione, con parti a scomparsa l’una dentro l’altra, adatto ai pesci di grandi dimensioni cui era interessata. Non aveva previsto che poco più tardi avrebbero abboccato in due.
La nebbia sul lago si levava portandosi appresso il chiarore opalescente del primo mattino mentre la natura, finalmente libera, si riappropriava della luce e dei suoni del risveglio tra cui, dominanti, erano le scudisciate a pelo d’acqua che PiccolafigliadiThor inferiva col cannone da pesca per aggiustare il tiro. In quell’impeto romantico, fu colta dallo strappo improvviso di un grosso salmone che si era trovato per caso a passare di lì: sprofondata nella mota, l’acqua alla cintola, s’incitava a resistere gridando al vento imprecazioni propiziatorie fino all’ultimo strattone, tanto energico che il pesce, libratosi in aria con un’ampia rotazione, planò alle sue spalle rimandando un tonfo anomalo e distante.
In lontananza, due erano i corpi privi di sensi: il salmone ed un omino di nome OhMino, tuttattaccato, che giaceva tramortito sotto il pesce nell’immagine apocalittica di tutte le sue cose sparse intorno. Era giunto a piedi da un lontano paese del Sud in cerca di tranquillità, per coronare il sogno della sua vita: leggere e studiare in santa pace. Un carrettino pieno di libri ed uno zainetto con le poche cose di stretta utilità erano tutta la sua ricchezza che, unita alla sensazione inebriante di libertà, costituiva per lui un tesoro inestimabile. Quando riaprì gli occhi sventagliando debolmente le lunghe ciglia, si vide sovrastato da una gigantessa bionda odorosa di muschio e di foresta, di salmastro e di lago, che lo stava misurando palmo a palmo, incredula per quell’essere così carino, tanto più piccolo li lei.
S’incontrarono con gli sguardi e lei gli sedette accanto, prendendolo dolcemente in braccio; poi lo nascose tra i seni candidi massaggiandolo e accarezzandolo senza stancarsi mai, come a consolarlo di tutta la fatica compiuta nella ricerca di quel momento. Così facendo, consolava anche se stessa. Più tardi, compresero entrambi che non c’è limite alla felicità. Nel loro mondo di bellezza, in cui si comprendevano senza capire, permaneva in lei il desiderio struggente di sentirsi chiamare per nome: uno diverso, pronunciato da chi con quell’atto sancisse formalmente la sua rinascita. Nell’attesa, si dedicava a OhMino con tutta se stessa, nominandolo in continuazione quando spariva nel bosco ad abbattere gli alberi necessari a costruirgli una capannuccia dove potesse sistemare i suoi amati libri e godere dei necessari momenti di solitudine.
“Per OhMino, sto facendo proprio un bel lavoro!”, esclamava soddisfatta.
“Per OhMino, chissà la sorpresa quando vedrà come gli ho sistemato i libri!”. Lo invocava come Odino senza riflettere, per una curiosa assonanza con il grido di battaglia dei suoi avi.
E la sorpresa fu davvero stupefacente, un insieme di gioia e d’orrore. La capannuccia era deliziosa, provvista di mobili e utensili prodotti dalle mani magiche di PiccolafigliadiThor, finché lo sguardo di OhMino non si posò sulla libreria. Tutti i suoi amati libri erano stati foderati con multiformi copertine colorate di legno intagliato: pigne, casette, uccelli, ananas, stelle, palme, lune, barche, soli, pesci, una varietà infinita di rappresentazioni fantastiche cui era stata sacrificata l’integrità delle pagine, mozzate al centro o ai lati nel rispetto dell’estetica e non della grammatica… insomma, un disastro irrimediabile.
“Bruttaputtana!” fu il grido che sfuggi a OhMino in tutta la sua devastante tragicità, nitido e irrevocabile.
“Broetapoetana??….Broetapoetana! Broetapoetana! Ja, Ja, Broetapoetana!“
Finalmente il nome tanto atteso, il suono più dolce che mai avesse accarezzato le sue orecchie, era stato pronunciato: ora era davvero sua per sempre.