Ogni anno, in questo giorno dove la luce riprende vita dalla
tenebra non posso non sentire, accanto a questa gioia, anche i molti
contrastanti sentimenti, partecipanti anch’essi di quel Presepe che è la nostra
umana (e- ahimè - pare sempre meno divina ) Vita. ( Ma questo è un altro
discorso che non intendo in questa sede iniziare).
Gli ultimi intensi articoli di Claudio Magris sul “Corriere
della sera”, per la morte di due dei suoi amici più cari, Tito Perlini e Giovanni
Gabrielli, e in particolare l’ultimo, quello di domenica 8 dicembre, “Siamo
liberi ma non padroni della nostra vita” - una profonda riflessione sulla
libertà, anche della nostra morte - mi sono molto vicini, così vicini che più
volte li ho riletti, come se la difficoltà che insolitamente trovavo nella
lettura, mi richiamasse ad una ben più profonda verità, certamente faticosa da
accettare e vivere, ma che libera dall’inutile zavorra di tutta quella “pappa
misticheggiante” che troppo spesso ci portiamo dietro, imprigionandoci.
Arrivare “poveri, in Spirito” non è un traguardo, ma quel
passo quotidiano che ci permette di stare
sulla soglia, sorpresi e spaventati anche di quel che siamo, alla Vita,
l’altra faccia della Morte che non è né più brutta né più bella: E’ ... e, più
che complementare alla Vita, è “implementare”.
Ma perché un cancro
dovrebbe commuovere più di un’ossessione che occupa la mente sino alla
disperazione?
Quale verità in quel che Magris scrive, e lo si può scrivere
( e lo si può leggere tra le righe) solo se si porta addosso il buco di quella
disperazione - che non è un soprabito che si può togliere o cambiare, ma è un
organo straziato del nostro corpo con cui dover convivere, nella buona e nella
cattiva sorte, nessun divorzio è possibile e, senza ombra di dubbio, a volte
solo la morte ne è la cura.
Senza togliere dignità a nulla e a nessuno, a volte non ci
sono parole né pillole, non ci sono medici né terapie, né miracoli né magia,
anche ogni Dio è paralizzato di fronte a quel che non ha nome, ma è sostanza,
viva e “inter-in-dipendente” e che dà a una vita una Vita dove la resurrezione
è in esilio.
Siamo comiche comparse
nel teatro del mondo, scrive sempre Magris, sì, e a volte afferriamo
“qualcosa” che squarcia aprendo il cielo del teatro e il nostro, a volte anche
l’ironia, che pur ci acquieta e ridimensiona, ci appare anche in tutta la sua
verità e voracità: credevamo di cantare insieme, credevamo di essere amati,
credevamo di avere compreso, “credevamo”, ma sono “senza oggetto alcuno” sia la
Fede che la Vita, si possono solo vivere, fino a quando ce la si fa, e non
tutti ce la fanno.
Ecco, l’augurio che faccio ad ogni Donna e Uomo di buona
volontà è di poter arrivare a quel momento con la naturalezza che ha il fiore
che è fiorito, non importa se in un giorno o in cento anni, e si lascia cadere,
leggero e s-finito, dove non si sa e nemmeno se lo chiede.
Altrimenti capita che anche la morte, stufa della nostra
incorreggibile inettitudine, ci dica:
Dame qua, dame qua,
fazzo mi. !