Terza Pagina
Da Berlinguer a Renzi
Franco Livorsi
Quatto quatto, in Italia, sta
arrivando il cambiamento anche nella sinistra, e da sinistra. Finalmente. Non è
il cambiamento socialista e democratico di tipo franco-tedesco, che avevo
desiderato da circa trentacinque anni, ma comunque è epocale. Può portarci
fuori da un interminabile guado e comunque nella sinistra europea e
internazionale, non solo italiana. Era ora. Infatti la sinistra che è stata di
tipo maggioritario in Italia è stata in crisi d’identità - in modo prima
lentissimo, e poi sempre più forte - a partire dalla metà circa degli anni
Settanta in poi, con una speciale accelerazione negli ultimi sette anni..
La crisi d’identità del PCI iniziò negli anni Settanta
Tutto era cominciato quando il
Partito Comunista Italiano di Berlinguer, al culmine di un processo espansivo
del movimento operaio e della sinistra che era stato continuo dal luglio Sessanta, aveva proposto il “compromesso
storico”. Dal luglio 1960 c’era stata una lunga epoca, durata quindici anni
circa, in cui si erano verificate grandi e continue lotte sociali politiche e
culturali. Si era visto lo sgretolamento progressivo del moderatismo
democristiano (con i socialdemocratici come “variabile dipendente”). Infatti
dopo il Sessanta erano state imposte, tramite una forte dialettica tra lotte e
governi, grandi riforme civili e sociali. Tutto ciò aveva fatto diventare il
PCI quasi pari alla Democrazia Cristiana per voti. Ma allora il gruppo
dirigente del PCI, invece di prendere atto del fatto che propria in quella fase
di massima forza sarebbe stato necessario diventare socialdemocratici europei
“senza se e senza ma” per fare l’alternativa democratica di sinistra e mandare
a casa i “soliti ignoti” moderati (in primis democristiani), credé di poter semplicemente
aggiornare profondamente la linea della svolta di Salerno del 1944 e poi della
“nuova maggioranza”, sempre proposta da Togliatti, trasformandola in strategia
a tempo indeterminato. Allora Berlinguer
propose infatti un “compromesso storico”, ossia epocale - non solo contingente
e da “grande coalizione” eccezionale per un breve periodo di palese emergenza -
a “tutti” i democratici [1]:
compromesso di cui il governo monocolore democristiano del cinico Andreotti
scaturito dalle elezioni politiche del 1976, grazie alla forza rigeneratrice
attribuita leninisticamente al PCI - ossia all’astensione e poi appoggio
esterno del PCI stesso a quell’esecutivo - avrebbe dovuto essere addirittura la
genesi. Enrico Berlinguer era a mio parere un leader di una grandezza morale
senza pari, come tra i socialisti lo era il presidente della Repubblica di
allora, il vecchio socialista Sandro Pertini, che infatti alla morte
dell’Enrico lo pianse come un figlio (e giustamente), ma come leader storico
non volle la socialdemocratizzazione, neppure in senso europeo, del PCI. Il PCI
era per lui la comunità idealizzata, direi “etica”, con cui si era
identificato, anche criticamente, ma sempre empaticamente, e forse sempre più
empaticamente, dalla prima giovinezza, e Togliatti era stato il suo riferimento
anche dottrinario fondamentale. Berlinguer collocava tutti i suoi riferimenti
teorico politici, anche gli amati Marx e Lenin, in quel contesto. Probabilmente
riteneva l’idea e contesto del comunismo (e tanto più dell’”italocomunismo”)
irrinunciabili; e per tenersi fermo al comunismo nell’ora in cui la situazione
storica poteva finalmente portare il partito al potere –e per farlo senza
optare per la social democratizzazione accelerata del suo partito - cercò di
rassicurare l’ampio fronte moderato ed anticomunista proponendo a tempo
indeterminato l’alleanza di tutti i democratici (in teoria di un buon 90% del
parlamento, e a tempo indefinito, sino al cosiddetto “socialismo” ed oltre). Se
i non comunisti circondavano amichevolmente i comunisti da tutti i lati, perché
mai avrebbero dovuto attribuir loro intenzioni totalitarie, e reagire ad esse
con autoritarismo preteso uguale e contrario, ossia fascista? Era evidente che
l’alleanza “storica” non era più imperniata - prima ancora che lo PSI di Craxi
optasse per un anticomunismo viscerale - sulla relazione privilegiata con i
socialisti, che Togliatti aveva almeno politicamente mantenuto pur aprendo lui
pure al centro, bensì sulla relazione del
PCI con la DC. Dichiaratamente o di fatto. Cominciò, allora, specie dal
giugno 1976, ma con prodromi risalenti alla proposta del “compromesso storico”
del 1973, la lunga tragedia di una sinistra non più comunista “davvero”, e
infatti aderente alla NATO e pronta ad allearsi per tutta un’epoca innanzitutto
con la DC; ma neanche “davvero” socialista democratica, e infatti sempre
“comunista” nelle insegne, sempre centralista democratica come ogni comunismo
del mondo, sempre legata politicamente all’URSS o comunque - anche dopo lo
“strappo” del 1981 - in un rapporto “da compagni” con i sovietici, rapporto del
resto ridiventato piuttosto stretto al tempo di Gorbaciov. Iniziò insomma,
specie dopo le elezioni politiche del giugno 1976, la tragedia del “né né”,
ossia del partito non più comunista, ma neppure socialdemocratico. Un partito
socialdemocratico, anche in senso europeo, con “quel nome”, con
quell’unanimismo interno sostanziale, e
soprattutto con gli “amici” in politica internazionale in quel di Mosca, e
comunque in relazione “da compagni” con i sovietici sino alla fine dell’URSS,
era “fuori dal mondo”. Quel grande partito non era in grado di salire sul treno
del governo del Paese facendo scendere
le forze detestate da decenni alla sinistra e dai tanti milioni di lavoratori
che la votavano: forze sin lì governanti con cui il PCI voleva invece allearsi,
temendo il rinculo di destra come se l’Italia fosse stata il Cile e i
terroristi neri avessero potuto essere quel movimento reazionario, ma “con basi
di massa”, senza il quale a Occidente non
si governa, come avevano pur insegnato Gramsci e Togliatti [2], tra
l’altro in epoche in cui pure del neocapitalismo europeo “in Italia” non c’era
stato neanche l’odore, o c’era stato solo qualche sprazzo.
La crisi d’identità irrisolta nel post-comunismo
Dopo il crollo del muro di Berlino e poi dell’URSS (1989/1991) il
Partito perse il nome e il centralismo democratico (diventando Partito
Democratico di Sinistra, e Democratici di Sinistra). Più oltre, non solo non
raggiunse esplicitamente il socialismo europeo, ma rinunciò persino al
riferimento esplicito alla “sinistra”, per sposarsi agli amici democristiani di
sinistra facendosi Partito Democratico (2007). E tuttavia, anche senza
retroterra politicamente comunista, restava sempre la continuità
dell’organizzazione, e dei quadri centrali, tanto che i D’Alema, i Veltroni e i
Bersani, e persino i Fassino o Enrico Morando, per non dir di Napolitano, erano
stati “tutti” dirigenti comunisti, e funzionari, di primissimo piano, già al
tempo di Berlinguer. E moltissimi militanti del PD di oggi vivono ancora nella
convinzione di aver solo cambiato nome e colore esterno della “ditta”; e ciò
non solo quando siano vecchi (ex comunisti), ma pure quando siano militanti e
dirigenti “nuovi”, per altro spesso diretti discepoli dei “vecchi”. Del
comunismo non è rimasto niente nel PD, neanche il riferimento preferenziale al
mondo operaio, alle rosse bandiere e in una parola all’idea socialista,
comunque intesi (che neanche Craxi si era sognato di abrogare). Ma siccome le
idee marciano sulle gambe degli uomini, la continuità fisica o psicofisica,
talora con dirette “filiazioni”, dei gruppi dirigenti centrali come periferici,
ha avuto il suo peso. Per questo l’idea iniziale di Renzi di “rottamare” i
dirigenti inossidabili, in sella da decenni, invece di apparire come ovvia
logica europea e occidentale del ricambio, è parsa a lungo una forma di
parricidio. E forse lo era. Ma il cambiamento per sottrazione – “Aderiamo alla
NATO, ma siamo comunisti” (Berlinguer, 1974); “Rinunciamo al governo pur
democratico delle sole forze di sinistra d’ogni tipo, ma siamo comunisti”
(Berlinguer, 1974-1979); “Rinunciamo al nome comunista, ma non siamo
socialisti” (Occhetto, 1989/1993); “Uniamo tutti i democratici progressivi, ex
comunisti e ex democristiani, ma non siamo socialisti” (Veltroni, 2007) - alla
fine doveva produrre una spaventosa crisi di identità e di leadership. Infatti
il 95% del parlamento si dice “democratico”, e si barcamena tra economia
privatistica e intervento pubblico sia che a parole dica “Meno Stato e più
mercato” o “più Stato e meno mercato”, per cui dirsi “democratici” non vuol
dire assolutamente niente, è un essere “uno nessuno centomila”, al di là di
quel che “nel fondo” pensi chi l’abbia autorevolmente “inventato” (come
l’ottimo Veltroni). L’indebolimento progressivo dell’identità, ben al di là
dell’indebolimento imposto dalla storia a tutti gli “ismi” del XIX e XX secolo [3], si è
poi riflesso in leadership sempre più deboli. Già si era visto come il caro
Bertinotti, certo attratto dalla perenne idea gauchiste di spostare l’asse della politica italiana a sinistra -
idea forse accarezzata in assiduo dialogo con l’astuto post-togliattiano
D’Alema - fosse bastato a far saltare il primo e miglior governo Prodi
(1996/1998). Poi, quando Prodi tornò a battere Berlusconi, nel 2006, il suo
governo, oltre che molto indebolito dal “Porcellum” voluto dalla destra per
rendere ingovernabile il Senato alla vigilia della propria sconfitta, fu molto
danneggiato, nell’immagine, da forze ultraminoritarie interne (tipo Pecoraro
Scanio), e travolto da una minuscola forza neodemocristiana, e in specie dal
suo “leader”, il “grande politico” - si fa per dire - Clemente Mastella. Più
oltre ancora Bersani non riuscì a fare un suo governo o a promuovere un governo
amico (ad esempio diretto da Rodotà), dopo due mesi di stallo in seguito alle
elezioni del febbraio 2013, nonostante la maggioranza assoluta del PD alla
Camera e quella relativa al Senato. E dopo alcune grosse “grane” e tradimenti
interni, come il mancato voto a Prodi presidente della repubblica da parte di
oltre cento parlamentari del PD “nel segreto dell’urna”, appunto durante
l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, invece d’insistere come era
pur accaduto tante altre volte in occasione di elezioni di presidenti della
repubblica (con lo stesso candidato o con un altro), talora per diciotto
votazioni, dichiarò intempestivamente la crisi generale interna. Bersani
annunciò le dimissioni e condivise l’idea di rieleggere, per la prima volta dal
1946, lo stesso presidente della Repubblica: un presidente che pure non aveva
voluto mandarlo alle Camere, come candidato premier con un mandato ampio, senza
una maggioranza preventiva certa. Insomma, tutto dimostrava che la prima forza
della sinistra - prigioniera dei “soliti noti”, ossia di vecchi capi e modi di
fare politica rimasti imperanti a dispetto dei massimi mutamenti politici - era
giunta all’estremo della sua crisi storica. Il PD appariva ormai come un
giocatore di poker che riesca a perdere anche quando gli fiocchino poker d’assi
serviti in mano, per incapacità minima di battersi. Era un pugile suonato.
Dicendo ciò non vorrei assolutamente offendere né Bersani né alcun altro,
neanche in modo minimo, anche se forse mio malgrado lo sto facendo; ma so bene che
sto parlando di bravissime persone, di bravissimi quadri, nella fattispecie di
leader culturalmente a posto e che hanno dato buona prova di sé come
amministratori della cosa pubblica e statisti, nell’insieme migliori “in tutto” di quelli loro opposti; ma affermo
che nei momenti decisivi si sono dimostrati sempre più “indecisionisti” e
incapaci di governare le contraddizioni. Il problema riguardava l’insieme dei
quadri del PD, e non solo i massimi capi, essendo virtù e vizi, ivi, simili
“sopra” e “sotto”, ai livelli centrali come periferici, in contesti in cui non
bastava essere più onesti e più preparati, e persino molto più onesti e
preparati degli altri gruppi rivali, ma bisognava necessariamente essere tutti
raccolti attorno a leder forti ed autorevoli, in ogni ambito: in grado di
parlare per tutti; rappresentativi dell’insieme sociopolitico loro, come al
tempo di Togliatti e Berlinguer sebbene in altro contesto storico, e con poche
- o tante - decisive intenzioni in testa, ma da far valere ad ogni costo. Tra
l’altro la carenza di forte leadership era tanto più grave nell’epoca della
crisi storica delle identità collettive tradizionali, rimaste povere o prive
d’ideologia e con una base sociale necessariamente “liquida”, in cui in tutti i
partiti si davano leader “d’identificazione”, persino Sinistra Ecologia Libertà
(non certo, dunque, solo per volontà “demoniaca” di Berlusconi).
L’irruzione di Renzi
In teoria quest’andazzo avrebbe potuto proseguire magari per altri
decenni (in fondo dura almeno dalla morte di Berlinguer), con un indefinito
gioco della staffetta tra vecchi capi e loro epigoni (ad esempio con l’ottimo
Cuperlo al posto di D’Alema e infine Bersani), ma grazie a Dio la base dei militanti, e soprattutto
elettorale, del PD, proprio dopo aver “toccato il fondo” ha saputo reagire.
Ha potuto reagire proprio per quelle qualità socioculturali che la rendono
migliore dell’altra Italia in termini di molto maggiore moralità media (senza
per questo essere diversa in tutto, sia chiaro), di motivazioni politiche
(senza che gli altri siano tutti canaglie, sia chiaro), e di bisogno di
un’Italia democratica saldamente ed efficacemente governata (senza che abbia il
monopolio di tale bisogno, sia chiaro). Già aveva “a sorpresa” dato il 40% a
Renzi nel 2012 quando questi si era contrapposto a Bersani come candidato
premier nelle primarie, avendo – allora - il 90% degli attivisti e apparato del
PD contro. Ora, alle primarie per il congresso del PD del 2013, Renzi ha preso
il 46% dei militanti e quasi il 70% di tre milioni di elettori volontari del
PD. Una vera svolta storica. Erano anni che io, parlando con i miei amici, nel
mio piccolo e oscuro habitat, sostenevo che quando un sistema politico sia
totalmente inceppato - come mi pareva e pare quello italiano - o il Paese
precipita via via nel baratro di un’infinita decadenza istituzionale economica
politica e morale, oppure deve
intervenire per forza un fattore “altro” che scompagini tutto il gioco: perché
altrimenti la comune rovina “di tutte le classi in lotta” – come l’avrebbero
detta Marx e Engels nel Manifesto del
partito comunista del 1848 [4] - è
garantita. Ci vuole, specie in tali gravi frangenti storici (nostri), quello
che il grandissimo Vittorio Foa, dando il meglio di sé, tardivamente, nella
vecchiaia, scoprì ne Il Cavallo e la
Torre. Riflessioni di una vita[5], chiamandolo
“mossa del cavallo”. Egli allora scoprì, o comunque meglio precisò, che la
storia non è solo di masse (o classi) in competizione, bensì di capi (delle
masse o classi) capaci di muoversi sulla scacchiera delle lotte politiche e
sociali (anzi “in” esse”). Teorizzava una sorta di decisionismo di sinistra
“interno” alle forze sociali del mutamento (pur per se stesse decisive), forse
ricordandosi dopo tanti anni di venire dal volontarismo di Carlo Rosselli,
di “Giustizia e Libertà” e del Partito
d’Azione di Parri, oltre che da Marx e dal marxismo economico “scientifico”
pure suo. Sosteneva che in ciò era stato bravissimo il suo maestro nella vita
sindacale (che considerava esser stata la sua vita “ avant tout”), Giuseppe Di Vittorio. Questo (“mossa del cavallo”),
secondo me aveva pure fatto Togliatti nel 1944, quando aveva utilizzato la
tattica stalinista dello sparare tutti insieme contro il nemico comune
(nazifascista), per fondare una politica delle alleanze “cattocomunista” base
della Costituzione e di una nuova strategia, e soprattutto, “lemme lemme”, per
sostituire al solito partito dei militanti “rivoluzionari” di tradizione
leninista, ad esempio sempre vivo in Francia, il “partito nuovo”, inteso come
una grande comunità di popolo in espansione, certo persino troppo monolitica
(stalinista-leninista), ma comunque molto innovativa ed efficace storicamente.
Sempre qualcosa come la “mossa del cavallo” (lì mancata) era stato “nei voti”
anche di Saragat, quando nel 1947 aveva rotto il Partito Socialista Italiano di
Unità Proletaria, presto PSI, per rifiutare lo stalinismo (giustamente), ma
così aveva fatto suo malgrado un immenso favore agli stalinisti socialisti, che
solo allora avevano potuto incapsulare per dieci anni Nenni e compagni nel loro
gioco “leninista”. Un’altra “mossa del cavallo” mancata era stata, per me,
quella di Berlinguer, quando reagì alla grande crisi del moderatismo col
“compromesso storico”, invece che con la socialdemocratizzazione accelerata del
PCI. Pure una mossa del cavallo mancata era stata quella di Craxi, quando si
era illuso di poter fare una grande socialdemocrazia di massa anche in Italia
non già trascinando i comunisti, come già Mitterrand in Francia, con paziente politica
dell’incontro-scontro con loro, ma riprendendo, dopo i primi “niet”
berlingueriani, l’anticomunismo viscerale saragattiano. Una buona e anzi
geniale “mossa del cavallo” pare invece, ora, quella fatta da Matteo Renzi tra
il 2012 e il 2013 (e che certo proseguirà), scompaginando “finalmente” tutti i
giochi della sinistra tradizionale: iniziando l’era di una sinistra
post-comunista.
Renzi e il Demiurgo
Questa faccenda, in termini istituzionali, ha altri due referenti, a
tratti magari “imbarazzanti”, ma da richiamare perché essa possa essere
compresa a fondo: uno è un pensatore “minore ma non troppo” dell’elitismo,
ossia della teoria delle minoranze qualificate che farebbero la storia: il
liberaldemocratico, politologo e pure autorevole editorialista della “Stampa”
negli anni Quaranta, Filippo Burzio. Si chiama “teoria del Demiurgo” (con
particolare riferimento al suo libro l
demiurgo e la crisi occidentale[6]). Il termine
Demiurgo fa riferimento a un grande mito del “ Timeo” (IV secolo a.C.) dell’antico Platone, relativo al dio
(Demiurgo) che prendendo a modello l’eterno e perfetto mondo trascendente e
spirituale delle idee avrebbe dato forma alla materia eterna informe, generando
il mondo vivo (perciò imperfetto, ma non troppo) [7]. In
politica il “demiurgo” è un fattore che viene a razionalizzare una situazione
irrazionale, in cui tutto paia incepparsi, avvitarsi su se stesso, imputridire,
decadere. Naturalmente noi di cultura marxista, o comunque socialista, sappiamo
bene che il Capo senza le masse vale come il due di briscola. Quelli tra noi di
cultura non solo leninista, ma pure luxemburghiana e “foana”, sanno pure che le
masse hanno nella storia anche tendenze sociopolitiche loro proprie, che
sfuggono a qualsiasi indottrinamento e pesano sull’insieme, anche
politicamente, per se stesse; ma se l’elemento elitistico, con particolare
riferimento alla dimensione del capo storico, non sia considerato a sé, bensì
visto “nel contesto”, come una delle componenti necessarie del gioco generale
delle forze sociali e politiche in campo, è un dato di prima grandezza. E chi
non lo capisce - fermo magari alle teorie della storia “senza soggetto”, tutta
di massa e masse perché in primis economico-sociale, e persuaso col vecchio
Engels che tanto quando la storia lo richieda il capo arriva sempre [8] – non ha una posizione più avanzata, ma più
arretrata. Non ha saputo masticare le
osservazioni di Gramsci sulla contrapposizione tra cesarismo rivoluzionario e
reazionario [9] . Con ciò Renzi non è un
“Cesare”, come non lo era Berlusconi. Ma nell’irrompere di Renzi c’è un dato
demiurgico che finalmente arriva da sinistra. Riflette sempre l’arrivo o di una
forza o di un singolo, e sull’onda di tutto un vasto e poi articolato nuovo
gruppo dirigente, che scompaginino giochi politico-sociali ingarbugliatissimi, ormai
senza uscita con danno di tutti.
Tuttavia la faccenda del Demiurgo ha un referente molto più importante
di Filippo Burzio. È il
Max Weber di Economia e società[10]. Weber sosteneva che il “dominio”, in
senso sociologico, può essere di tipo tradizionale (si è sempre pensato e fatto
così), burocratico (razionale, come il burocratismo, che poi sarebbe pure il
parlamentarismo) o “carismatico”, in riferimento a una leadership che sembra
quasi segnata da investitura divina, come lo spirito profetico, o che investì
gli apostoli rimasti senza Cristo in forma di “Spirito Santo” (ossia in forma
di chàrisma). L’originalità
dell’elaborazione di Weber consisteva nel fatto che non era solo una variante
della vecchia teoria più o meno superomistica del “capo”, stigmatizzata da
Engels, da Plechanov, da Bordiga e infine da Althusser e altri [11].
Infatti Weber spiegava che il potere carismatico sorge solo quando una
situazione sia senza sbocco. In quella situazione ci sono dei signori nessuno
che la società investe del “carisma”. Non è, insomma, l’idea, tipicamente
fascista, per cui “ci vorrebbe un uomo”, eccetera eccetera. Significa “solo”
che quando una società tocchi il fondo, sicché le soluzioni intrasistemiche
facciano ormai sistematicamente fallimento, il motore batta sempre in testa, e
non se ne possa più del passato, e non si creda più in niente, e le cose
fondamentali non si riescano a fare o non riescano a durare, arriva il potere
carismatico. Quando arriva la cosa può essere estremamente sgradevole e
sgradita, deplorevole e deplorata, anche per i migliori del vecchio ceto
politico; o era stata sgradita sino a pochi anni prima agli stessi che ne sono
diventati fautori. Ma si determina comunque, come un fenomeno sociale che viene
dal profondo. Accade più o meno come quando una grande azienda in crisi si
affida a un grande manager. La società, per un impulso di vita, fa lo stesso.
Il gioco tradizionale deve essere scompaginato ad ogni costo, ed è
scompaginato, o almeno per quella via si prova e riprova a scompaginarlo, da
destra o da sinistra. I politici tradizionali ne hanno orrore, o comunque lo
temono per ragioni che possono essere anche molto buone, che io non vorrei
negare in nessun modo. “Abbiamo già dato!”. Si pensa subito a Mussolini e più
ancora a Hitler. Oppure a Berlusconi. Non è forse vero che Robert Michels, il
grande pensatore elitista autore del classico La sociologia del partito politico (1912) [12], era
stato uno stretto collaboratore di Weber? E che lo era stato pure Carl Schmitt,
poi teorico del führerprinzip? E non è forse stata la ricerca disperata di
una soluzione alle aporie della democrazia delegata, di partito e parlamentare,
che a un certo punto aveva spinto Michels, ex sindacalista rivoluzionario, a
enfatizzare il legame tra “un uomo e un popolo”, vedendo Mussolini come capo
carismatico che impersonava la “volontà del popolo” meglio dei vecchi burocrati
parlamentari? E non è stato un capo carismatico coi fiocchi Adolf Hitler, che
fu creduto da una Germania disfatta e in disfacimento, colui che poi, dopo una
ripresa economica e infine bellica “drogata”, la condusse ad un’assoluta
rovina, che coinvolse il pianeta, e portò razze pretese “nemiche”, ad un
abominevole sterminio? [13] E
non era già stato un bisogno carismatico a spingere tanti milioni di italiani,
in agguato persino oggi, nelle braccia di Silvio Berlusconi, sperato “diverso”
e “opposto” rispetto al vecchio ceto politico (di cui pure era figlio dagli
anni Ottanta, ma politicamente ai margini, già molto potente però quatto
quatto: benché il fenomeno del craxismo sconfitto da sinistra e tornato
dall’altra parte della barricata sia storicamente impressionante). Tutto vero,
ma “unilateralmente”, e per ciò falsamente, come nei ragionamenti
pseudoevidenti che Aristotele chiamava “paralogismi”. In realtà tutti i grandi
fenomeni della storia hanno una faccia di sinistra ed una faccia di destra.
Lasciamo ai cretini politici la visione per cui di notte tutte le vacche sono
nere. C’è un parlamentarismo di destra e ce n’è uno di sinistra. C’è persino un
liberalismo di destra ben diverso da quello di sinistra. C’è una dittatura di
destra e c’è una dittatura di sinistra: Metternich non era Robespierre,
Mussolini non era Lenin. E’ vero che su altri, come Hitler e Stalin, si
potrebbe discutere e si è discusso, ma solo sino a un certo punto. C’è elitismo
ed elitismo, come ci hanno spiegato Schumpeter come pure Bobbio [14]. E
c’è potere carismatico e potere carismatico. O, più prosaicamente, c’è
leaderismo forte e leaderismo forte, c’è decisionismo e decisionismo. Anche
Roosevelt è stato un evidentissimo caso di tipo carismatico, sorto dal bisogno
di uscire dalla crisi del 1929 e grazie al quale – ben inteso in seguito ai
talenti di migliaia e milioni di persone – l’America divenne la prima potenza
mondiale. Pure il fenomeno del gollismo è stato progressivo, anche se le sue
stigmate erano di destra (ma non fasciste). De Gaulle fu l’uomo che fondò la
Resistenza antinazista in Francia, portò la Francia fuori dall’Algeria e pose
fine ad una repubblica parlamentare pura e partitocratica che condannava quella
“ grande nation” – pur dall’ossatura
burocratico amministrativa più forte di quella italiana – alla stessa ingovernabilità
e indebolimento progressivi della nostra (lì durata dal 1944 al 1958): assetto
“gollista” cui almeno per il maggioritario di collegio a due turni, che di quel
sistema non è un piccolo accessorio, guarda da anni con favore il PD.
L’alternativa di sinistra di Mitterrand e poi di Jospin senza quel contesto
istituzionale dal 1958“gollista” sarebbe stata impossibile, almeno col minimo
di stabilità che la storia richiede quando cambi “tutta” la squadra di governo.
Ma prendiamo pure per buono l’esempio di “Silvio Berlusconi”. Supponiamo
pure che abbiano ragione quelli che vedono Berlusconi, Grillo e Renzi come tre
facce del populismo (ovviamente intercambiabili solo per i poverini che non
vedano differenze tra Forza Italia, il M5S e il PD, ossia tra i tre grandi
movimenti di cui i tre sono comunque filiazione e massima espressione “dall’inizio”).
Ciò posto che cosa significa mai questo rivolgersi degli italiani, dal 1994 in poi, a capi popolo
scelti fuori dal gioco politico tradizionale e tramite una sorta di investitura
da parte delle masse? Non significa forse che la vecchia repubblica - dei
partiti e a governo scelto dal parlamento e non dal popolo sovrano stesso - per
la gran massa dei cittadini italiani è ormai “in-credibile”, fallita, marcia,
irrecuperabile? Non significa forse quel che si è visto in Weber, ossia che il
senso del fallimento sistemico fa sorgere nelle grandimasse, a prescindere dai
nostri giudizi di favore o deplorazione, il bisogno insopprimibile di capi in
cui la popolazione possa riconoscersi vedendoli come irriducibili - o meglio “sperandoli”
irriducibili - al gioco politico tradizionale? E se il 40% dei cittadini crede
nei “suoi” sindaci, da esso stesso scelti, e solo il 4 ai partiti, che
pretendono di scegliere i governanti al postoloro, non vuol forse dire che si
fidano solo di leader da loro stessi investiti, cui poi, se li deluderanno, in
elezioni successive daranno un calcio nel sedere?
E infatti i cittadini stanno provando e riprovando, ma sempre su quel
terreno, scegliendo loro il leader a dispetto dei giochi deipartiti dominanti
nelle istituzioni. Prima hanno fatto emergere Berlusconi. L’hanno provato e
l’hanno trovato deludente (dimezzando i suoi voti nel febbraio 2013 e
assistendo alla sua caduta in gran parte infischiandosene sempre un po’ di più
di “lui”, nonostante la sua illusione di “rifondazione” forzitaliana: illusione
in cui probabilmente sta sperperando altri milioni). Poi hanno provato Grillo,
che resta una mina vagante, ma che con la sua tattica assolutamente
neobordighista dello “splendido isolamento”, se continuerà (il che a me pare
quasi impossibile, perché sarebbe un perseverare diabolicamente nell’errore) [15], può
solo pestare l’acqua nel mortaio. Infine stanno puntando su Renzi, non solo
come capo del PD, ma per il governo del Paese; anche se lo sarà (se durerà e ci
riuscirà, come credo) solo dopo le elezioni, abbastanza certe, del 2015. Non
s’illudano i “riformisti”, i tanti nostalgici del proporzionalismo e della
prima repubblica, sia pure con gli aggiustamenti del caso; non s’illudano i
Napolitano, i D’Alema, i Casini, e sotto sotto gli Alfano: se il ragionamento
che ho provato a fare è fondato dopo Renzi non c’è un Letta bis o qualcosa del
genere, ma solo il “grillismo” al potere. E di questo “grillismo” per ora non
si sa quale sia l’anima profonda (se è vero il ragionamento qui proposto).
L’idea, probabilmente di Napolitano, e già nella reazione di Berlinguer ai
“fatti del Cile”, di fermare le derive antisistemiche tramite tattiche unitarie
neogiolittiane, di “larghe intese” che mettano insieme destra e sinistra
costituzionali, era stata ed è perdente, nonostante la grandezza politica del
personaggio, specie sino alle elezioni del 2013.
Naturalmente è più che lecito l’interrogativo sull’inevitabilità,
ovviamente relativa, della via “carismatica”, democraticamente intesa, alla
Roosevelt o alla Blair, ossia ben più democratica che socialista.
L’altra strada non l’ha bruciata Renzi
Un’altra via era possibile, ma ormai solo con la storia dei se e dei ma.
In Inghilterra la dialettica è rimasta quella tra Conservatori e Laburisti, in
Germania soprattutto tra Democristiani e Socialdemocratici, in Francia tra
gollisti e socialisti. Da noi no. Da noi sarebbe pur stato assolutamente
possibile far evolvere ulteriormente in senso “francese”, anche senza pieno
semipresidenzialismo, il sistema nato col “Mattarellum” nel 1994 (ad esempio
rendendolo a due turni), e soprattutto trasformare il PCI, e poi il Partito
Democratico di Sinistra e i Democratici di Sinistra, non inPD, ma in un grande
partito socialista europeo. Non si volle farlo. In parte per la crisi
d’identità politica e morale dello PSI dopo trent’anni e più di potere a mezzadria
con la DC (dal 1962 al 1993), e in parte per il viscerale antisocialismo dei
comunisti, condiviso nel profondo da Bordiga a Occhetto e D’Alema, dal
segretario generale all’ultimo dei militanti “sempre comunisti”, sino a fare
dei socialisti addirittura l’alibi di
tutto quello che non andava, anche fatto in proprio, nei governi locali
socialcomunisti. Sarebbe stata assolutamente possibile la via di Mitterrand e
poi di Jospin, o se si preferiva quella del socialismo democratico tedesco o
del laburismo inglese, ma non si volle perseguirla (o ci si illuse di
perseguirne una, anzi “tutte”, senza dirlo in giro). E siccome dal 1994 sono
passati vent’anni, insistervi sarebbe vanità delle vanità. A me spiace molto,
ma mi pare inconfutabile che quella via èstata sconfitta dalla storia. Per me
vent’anni di prove bastano. Poi si deve cambiare. In alternativa restava solo
il modello della democrazia non-socialista, non socialdemocratica neanche in
senso europeo. Per complesse ragioni sembra che l’Italia, forse per la
profondità abissale della sua crisi interna di tipo politico e istituzionale,
stia emulando più l’America che i grandi paesi europei. Il PD ha preso a
modello il “clintonismo”, che però è
diversissimo dalla tradizione della sinistra italiana e del Paese (oltre che
dall’Europa occidentale a noi storicamente sempre vicina, francese e tedesca).
Forse in un Paese che a destra è stato fascista e a sinistra comunista, la fuoriuscita,
una volta fallito il centro, poteva essere solo americana. C’è una strana
americanizzazione della società italiana (con rischio di
“sud-americanizzazione”, per soprammercato). Fallita la democrazia imperniata
sui partiti nata nel 1948 (anzi, 1944), e il suo guscio istituzionale (che è il
parlamentarismo, che qui sarà sempre quello nostro e non quello “tedesco”), si
è dovuto scivolare nel presidenzialismo, già caratteristico nell’elezione del
sindaco, del presidente della Provincia e della Regione. Se fosse stata fatta, “almeno”
intorno al1990, una scelta socialista e democratica avrebbe potuto darsi uno
scenario o semipresidenziale (francese) o di “premierato” (inglese); non quello
tedesco, per tante ragioni profonde, ma anche perché il sistema del 1948-1993, a parte la foglia di
fico del voto di sbarramento, era già su quella lunghezza d’onda (solo che noi
non siamo tedeschi, e avevamo i comunisti e non i socialdemocratici come primo
partito della sinistra). In fondo lo scacco di Bersani è stato il fallimento
dell’ultimo, ma ahinoi troppo tardivo, in ritardo di circa vent’anni, tentativo
di svolta laburista “di sinistra”, che avrebbe potuto persino condurre,
sull’onda del potere a livello di governo da parte del leader, all’unificazione
tra PD e Sinistra Ecologia Libertà, che secondo me verrà realizzata ora da
Renzi come nuovo “Blair”, con un “New” PD.
Il carattere bifronte della democrazia imperniata sulla leadership
Va pure detto che il PD, proprio in quanto tanto povero di identità
ideologica, e in certo modo leninista alla rovescia, rappresenta il passaggio
dal partito dei militanti a quello dei simpatizzanti, imperniato sugli elettori
esterni e al più sui loro eletti (in specie sui sindaci)i. Sembra che si vada
verso il partito dei governanti eletti dal partito stesso e dai suoi elettori.
Come in America, gli eletti non sembrano più la “longa manus” del partito, ma
proprio il contrario. Non è, lì, l’”eligendo” o l’”eletto” ad essere
l’”eligendo” o “eletto” del partito, ma è il partito ad essere “dell’eligendo”
e “dell’eletto”. Per questo Renzi diventando segretario è diventato il
presidente “in pectore”, realizzando una sorta di diarchia rispetto a Letta,
per volontà dei “militanti ed elettori”. In termini ideal-politici e partitici
sembra che incarni la socialdemocrazia alla Blair, cui esplicitamente si
richiama (e il sottile Blair lo ha pure espressamente “ben visto”, “benedetto”).
Il tentativo di mantenere la continuità col passato è finito. E il bravo
Cuperlo è fallito perché persino suo malgrado l’ha impersonato. Nasce un “New
PD”, che subito Renzi ha detto di volere nel Partito Socialista Europeo. Renzi
sarà pur stato “popolare” a vent’anni, ma ora non lo è in nulla, a differenza
di Letta, democristiano antropologicamente. Personalmente avrei preferito la
“via Jospin”, ma ora la discontinuità può arrivare solo così (alla Blair), e
ben venga, perché finalmente si esce dalle sabbie mobili. E va bene. Tanto più
che sul piano decisivo della forma elettorale e di governo Renzi si gioca tutto
su un terreno di avvicinamento al modello francese: bipolarismo a due turni,
“sindaco d’Italia” (capo del governo indicato dagli elettori), governi per
legge di chi ha vinto per tutta la legislatura. L’idea – per contro - che una
ribollita di forme istituzionali proporzionaliste o prevalentemente tali, che
ci hanno regalato una sinistra maggioritaria esclusa per cinquant’anni dal
potere centrale, governi semestrali, connivenze continue tra maggioranza e
opposizione, egemonia o fortissimo condizionamento da parte di partiti di
centro, dissesto delle casse dello Stato, malaffare semilegalizzato in tanta
parte del Sud, valga a salvarci, pare a me strampalata. Quella progressiva è
l’altra. Finalmente ha trovato un forte leader e leadership, in un contesto di
crescente unità a sinistra interna e presto - credo io - con SEL. Da ciò si può
ripartire.
Certo anche Renzi potrebbe fallire, inghiottito dalle sabbie mobili di
una classe politica che vuol sempre cambiare tutto per non cambiare nulla. Ma
questa volta non è affatto detto, anche perché il leader ora emergente sa bene
che se non riuscisse a ottenere prestissimo almeno una nuova legge elettorale e
di governo nel senso anzidetto, e forti risultati di “dimagrimento dello
Stato”, sarebbe un gatto nato morto. Nel mio piccolo prevedo che tra poco
“tutta la sinistra”, a partire da quella che lo ha votato - cui però molti
altri soggetti strutturati e non potranno aggiungersi - lo seguirà con
convinzione: pur tra forti polemiche future, interne, in materia di diritto del
lavoro (su cui Renzi sembra pensarla come Pietro Ichino: il che però si vedrà
soprattutto quando sarà diventato presidente del Consiglio, credo nel 2015).
Comunque una cosa sembra a me chiara. Lo scacco delle soluzioni tradizionali in
termini di opinione pubblica è ormai irreversibile. La lotta è tra tre forme di
potere di tipo democratico, ma personalizzato e basato sul voto popolare
diretto: quella già di Berlusconi (o chi per lui), quella di Grillo e quella di
Renzi. Se fallirà Renzi, arriverà Grillo o un uomo (o donna) diBerlusconi. Ipotizzo
che arriverà, a sorpresa, Grillo. Ma che cosa celi quel pentolone “cinquestellato”
in ebollizione, nel fondo, non è chiaro. Potrebbe essere una nuova rivoluzione
democratica, e ancora non lo escludo affatto, ma anche una rivolta
neoreazionaria. Secondo me per ora non può saperlo nessuno, né tra i fautori né
tra gli avversari irriducibili. Renzi, comunque, è l’ultima “chance” di una
democrazia riformista o riformatrice in cammino.
[1] E. BERLINGUER, Riflessioni dopo i fatti del Cile,
Editori Riuniti, Roma, 1973. Contiene i tre famosi articoli interconnessi
pubblicati sui n. 38, 39 e 43 di “Rinascita” del 1973. Si confronti con la
raccolta di scritti dello stesso: La
questione comunista (1969-1975), Editori Riuniti, 1975.
[2] Tutto il discorso di
Gramsci sui blocchi storici alternativi e sulla differenza tra Oriente e
Occidente nei Quaderni del carcere,
edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, lo attesta bene. Ma si
confronti con: P. TOGLIATTI, Lezioni sul
fascismo (1935 ma 1970), a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, 1970.
Questo necessario rappresentare immense masse, sia pure d’opposto segno, è
proprio quello che estremisti e terroristi, di bande opposte, non hanno mai
capito (persuasi o di poterne fare a meno o di poterle rappresentare senza
verifica empirica di ciò in effettiva capacità di far votare o/e lottare per sé
immense folle.
[3] Ho cercato di analizzare
“Ragioni profonde e stato degli ‘ismi’
tradizionali nel mio libro: I concetti
politici nella storia. Dalle origini al XXI secolo, Giappichelli, Torino,
2008, pp. 181-360.
[4] Si veda l’edizione critica
a cura di Emma Cantimori del 1948, e poi con introduzione di B.Bongiovanni,
Einaudi, Torino, 1998.
[5] Einaudi, Torino, 1991.
[6] Bompiani, Milano, 1943.
[7] Lo si veda in: PLATONE,
“Opere”, a cura di G. Giannantoni, due volumi.
[8] F. ENGELS, Lettere sul materialismo storico (1890),
in: K. MARX – F. ENGELS, “Opere scelte”, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti,
1971, pp. 1239-1254.
[9] A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione
dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975 (in: Quaderno 13,
XXX, 1932-1934: “Noterelle sul Machiavelli”, al par. 27, alla voce “Il
cesarismo”, pp. 1619-1622, con interessante contrapposizione e definizione a p.
1619).
[10] L’opera, postuma, è
del1922, e a cura di Pietro Rossi, Comunità, 1969
[11] F. ENGELS, Lettere sul materialismo storico, cit.;
G. PLECHANOV, La funzione della
personalità nella storia (1899), Rinascita, Roma, 1956; (A. BORDIGA), Il battilocchio nella storia, “Il
programma comunista”, n.7, 3-17 aprile 1953, Superuomo, ammosciati!, ivi, n. 8, 16-30 aprile 1953, Fantasime Carlailiane, ivi, n. 9, 7-21
maggio 1953 (con attribuzioni in: Amadeo
Bordiga 1889-1970. Bibliografia, a cura di A. Peregalli e S. Saggioro, Colibri,
Milano, 1995, pp. 145-146); L. ALTHUSSER, Lenin e la filosofia (1969), Jaca
Book, Milano, 1972, con aperta teorizzazione della “storia senza soggetto”.
[12] R. MICHELS, La sociologia del partito politico nella
democrazia moderna. Studi sulle tendenze oligarchiche degli aggregati politici,
1912, e Il Mulino, Bologna, 1966. Si confronti, proprio per il passaggio alla
teoria del “capo” come espressione diretta del popolo sovrano in forma di folla
empaticamente a lui interconnessa, il libro del Michels fascista Corso di sociologia politica, Istituto
Editoriale Scientifico, Milano, 1927.
[13] Per questi aspetti di
Schmitt resta fondamentale: C. SCHMITT, Le
categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e
P. Schiera,Il Mulino, Bologna, 1972; per questo tratto di Hitler, si veda: A.
L. CARLOTTI, Adolf Hitler. Analisi
storica delle psicobiografie del dittatore, Angeli, Milano, 1984.
[14] J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia,
Comunità, Milano, 1955, sostiene tra l’altro che anche la democrazia è potere
pieno delle élites, però sottoposte a scelta da parte degli elettori. Ma si
veda: N. BOBBIO, Democrazia, in:
“Dizionario di politica”, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino,
UTET, Torino, 1983, pp.308-318.
[15] Ci sono strane analogie
tra tattica di Bordiga e del M5S nella relazione tra i partiti, che fanno
sospettare che G. Casaleggio, che potrebbe essere il vero ispiratore ideologico
e politico della compagnia, possa esser stato influenzato da tale visione.
L’idea che tenendo fermo alla propria assoluta diversità, senza contaminazione
con le altre forze politiche, in presenza di una crisi storica epocale il
partito sarebbe stato raggiunto dalle masse e perciò si sarebbe trovato nella
condizione di incassare il risultato dello scacco altrui, era bordighiana. Su
ciò naturalmente rinvio al mio vecchio libro: Bordiga. Il pensiero e l’azione politica. 1912-1970, Editori
Riuniti, Roma, 1976. Ma qui c’è ancor più immobilismo tattico, oltre che
assenza di una teoria rivoluzionaria altrettanto forte. Non escludo che il M5S
agisca in modo così miope sul piano tattico, condannandosi ad una modestissima
rilevanza politica mentre è quasi il primo partito, ritenendosi alla vigilia di
nuove elezioni sin dall’insediamento delle nuove Camere del febbraio 2013 (e
dunque in campagna elettorale). Se la scelta fosse permanente, oltre a tutto in
un contesto democratico, sarebbe di un nullismo politico assoluto.
28/12/2013 13:27:08
20.03.2018
Aydin (*)
Questa settimana vorremmo proporvi un
piccolo gioco: esaminare un episodio della storia alessandrina secondo i metodi
analitici della storiografia anglosassone. La scuola storiografica inglese, che
personalmente apprezziamo nel modo più assoluto e a cui cerchiamo di adeguarci
quando scriviamo, dà molta...
| |
17.03.2018
Marina Elettra Maranetto
“Brutto
schifo”
era la conclusione cui perveniva la mia amica olandese, che non è mai riuscita
ad impossessarsi delle sfumature della nostra lingua, riassumendo con tratto
ecumenico tutto ciò che la contrariava, dal particolare all’universale. Ed è quel brutto schifo che
ogni giorno, come un rigurgito,...
|
12.03.2018
Marina Elettra Maranetto
Poco
le era stato risparmiato perché non s’era risparmiata.
Erano
le parole di cui si serviva ad aver preso il posto dei sentimenti che le
avevano afferrato la vita. Convertita all’età della saggezza, ma peccando
d’orgoglio, si compiaceva d’interpretare ciò che l’interlocutore s’aspettava
d’ascoltare...
| |
11.03.2018
Patrizia Gioia
Questa
mattina al teatro Filodrammatici: Libertà e Bellezza con la musica dei paesi:
Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia
Woody Allen, con la febbrile ironia ebraica, dice che
la musica di Wagner gli fa venire voglia di invadere la Polonia.
Ascoltando invece la musica polacca e di questi...
|
04.03.2018
Elvio Bombonato
Via del Campo c'è una graziosa
gli occhi grandi color di foglia
tutta notte sta sulla soglia
vende a tutti la stessa rosa.
Via del Campo c'è una bambina
con le labbra color rugiada
gli occhi grigi come la strada
nascon fiori dove cammina.
Via del Campo c'è una puttana
gli occhi grandi color...
| |
28.02.2018
Marina Elettra Maranetto
“Zoccole pentite”, categoria
onnicomprensiva che esula dall’accezione comune del termine esprimendo parità
di genere.
Sono
i mutanti di schieramento politico che transumando verso un’altra parte più
conveniente ne diventano sostenitori appassionati pensando di riscattarsi. Più realisti del Re,...
|
28.02.2018
Patrizia Gioia
Cari Amici,
non è facile vivere la vecchiaia.
Pare assurdo ma arriva come un temporale, previsto ma inaspettato,
all'improvviso ti trovi addosso anni come pioggia, dai quali pare
impossibile ripararsi, inutile cercare intorno tettoie, ombrelli, ripari,
ormai sei bagnata e tutto il tuo corpo e la tua...
| |
25.02.2018
Patrizia Gioia
«Gandhi, in una lettera a Sarojini Naidu, si definì una volta scherzosamente “mystic spinner”, ossia “filatore mistico”.Questa sua espressione scherzosa e unica rappresenta un suggerimento centrale per guidarci a ricomprendere noi attraverso la figura del “Mahatma”, il profilo insieme mistico e politico...
|
25.02.2018
Mauro Fornaro
La crisi della famiglia tradizionale si correla alla crescita delle cosiddette
nuove famiglie o “famiglie moderne”. Si tratta di variegate tipologie tutte in
crescita negli ultimi decenni pure in Italia: principalmente famiglie
ricomposte, cioè formate da due partner che si mettono assieme portando...
| |
17.02.2018
Nuccio Lodato
All'indimenticabile memoria di ZEUS,
Gatto Nero incomparabile e insuperato
[e al Micio Ignoto...
|
|
Segnali
Alessandro
Gassman e Marco Giallini sul grande schermo
...
|
Al Teatro Sociale tornano i tanto attesi appuntamenti del Sabato
Pomeriggio in Famiglia quest'anno una...
|
Segnaliamo un articolo comparso sulla rivista economiaepolitica.it in cui si sostiene
la tesi che le...
|
Segnaliamo un interessantissimo articolo di Rosa Canelli e Riccardo Realfonzo sulla crescente disuguaglianza...
|
Il Forum dei
Movimenti per la Terra e il Paesaggio annuncia che il Gruppo di Lavoro
Tecnico-Scientifico...
|
Segnaliamo un interessantissimo articolo del prof. Felice Roberto Pizzuti docente di
Politica Economica...
|
I MARCHESI DEL MONFERRATO NEL 2018
Si è appena concluso un anno particolarmente intenso di
attività,...
|
Stephen Jay Gould
Alessandro Ottaviani
Scienza
Ediesse 2012
Pag. 216 euro 12
New York, 10 settembre...
|
Segnaliamo un interessante articolo comparso sulla rivista
online economiaepolitica
http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/diritti/scuola-sanita-e-servizi-pubblici/servizio-sanitario-nazionale-a-prezzo-regionale-il-paradosso-del-ticket/...
|
Segnaliamo, come contributo alla discussione, un
interessante articolo comparso sul sito “Le Scienze.it”
Link:...
|
Il Circolo Culturale “I Marchesi del Monferrato” presenta il
suo nuovo progetto per il 2018: le celebrazioni...
|
Segnaliamo un interessante articolo comparso sulla rivista
online economiaepolitica
http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/la-ripresa-e-lo-spettro-dellausterita-competitiva/...
|
DA OGGI IN RETE 2500
SCHEDE SU LUOGHI, MONUMENTI E PERSONAGGI
A conclusione di un intenso lavoro, avviato...
|
Segnaliamo il libro di Agostino Spataro, collaboratore di Cittàfutura su un argomento sempre di estrema...
|
Memoria
Pietro Ingrao
Politica Ediesse 2017
Pag. 225 euro 15
Ha vissuto cent’anni Pietro Ingrao...
|
News dai media nazionali:
Ultime Notizie
|