Ho percepito la novità di Renzi nella politica italiana sin
dai primissimi tempi, oltre tre anni fa; e proprio “Città Futura on line” mi è
ampiamente testimone di ciò. L’ho fatto del tutto disinteressatamente perché,
pur essendo sempre politicamente appassionato e di sinistra, da molti anni mi
piace essere “indipendente”; e credo persino che la mia indipendenza, senza
tessera né vincolo alcuno, non difenda solo la mia pace interiore di
“meditante”, ma anche una totale autonomia di giudizio, che spero possa essere
una minuscola risorsa per la sinistra. Alla sinistra, posso, infatti mandare
messaggi e riflessioni, spero non proprio vani, senza freni inibitori
d’appartenenza di alcun genere. Ciò posto, non ritengo che Renzi sia il grande
leader storico che ci vorrebbe, ma sono sicuro che sia “il meglio” che possa
esprimere questo Paese in questa fase storica, per provare a salvarsi dalla
stagnazione economica, dalla decadenza politica e da una crisi di fiducia così
totale negli uomini dello Stato da rischiare di essere, prima o poi, mortale
per la democrazia. Finalmente arriva, con Renzi, un vento di cambiamento. Certo
non ha né il respiro ideale né quello culturale che vorrei. Sin dall’inizio ho
acquistato i libri di Renzi, ma non ho mai superato la pagina 50 di nessuno di
essi. Non è né un pensatore politico né un filosofo né uno storico né un
economista. Ma non importa. In questo mondo non si può avere tutto. E’ molto pragmatico,
è molto determinato, è sicuramente riformista, è della parte per cui voto io e
che piace a me, è furbo, è giovane, e fa emergere suoi simili, altri giovani,
altri uomini e altre donne, per ora di tutto rispetto e che più oltre si
faranno ancor più esperti, incarnando una nuova classe politica (altre facce,
finalmente). E vuole riformare lo Stato e i rapporti economico sociali. Ci sono
molte cose imperfette e nebulose nei suoi progetti, ma i primi segnali che ha
dato e dà sono molto buoni. Il resto verrà. E comunque provare a realizzare
tali cose è importantissimo. Bisogna dargli una mano, e possibilmente anche due.
Pochi giorni fa
Sandro Bondi, un fedelissimo di Berlusconi, ha mollato l’ex Cavaliere. Bondi
non solo stimava e approvava Berlusconi, ma addirittura lo amava. Tuttavia si
sa che ogni grande amore è soggetto alla delusione. Bondi ha scritto una
lettera alla “Stampa”, il 23 aprile ultimo scorso, intitolata: “Forza Italia ha
fallito, sosteniamo Renzi”. I punti centrali sono due. Berlusconi “non ha
potuto” fare la rivoluzione liberale e ha storicamente fallito. (Certo il capo
creduto carismatico, per questo ex fedelissimo, non è responsabile della
rivoluzione liberale mancata. La colpa sarebbe tutta degli alleati brutti e
cattivi, fascistoidi o leghisti e consorti, come Fini, poi La Russa, Bossi e il
bieco Tremonti). In secondo luogo l’erede del Grande Capo fallito sarebbe il
suo formale avversario, Matteo Renzi. “Renzi- dice Bondi - rappresenta senza
dubbio la prima vera cesura nella sinistra italiana rispetto alla tradizione
comunista. Anzi, la sinistra di Renzi si colloca oltre la tradizionale
socialdemocrazia europea, ed è più simile alla sinistra liberal americana di
Obama e al nuovo Labour Party di Blair. Si potrebbe dire che Blair sta alla
Tatcher così come Renzi sta a Berlusconi. Con la differenza però che Berlusconi
non ha potuto portare a compimento una vera e propria rivoluzione liberale e
una necessaria modernizzazione dell’Italia come ha fatto invece la Tatcher in
Gran Bretagna, sia nella sfera economica che in quella dei diritti civili.”
La riflessione è
indubbiamente interessante, anche se solo apparentemente convincente. Spiega
più la parabola di Bondi e di tanti ex dirigenti della sinistra finiti con
Berlusconi che non il fenomeno Renzi. Si capisce che i più capaci tra loro
siano delusi. Solo che molti tra quei tipi, essendo dei cinici, o dei politici
più o meno spregiudicati, anche quando vengano dalle file del socialismo
riformista o in qualche caso – come l’ex antico sindaco comunista Bondi - dal
Partito Comunista, vanno nel “Nuovo Centrodestra”. Bondi, che aveva cercato
davvero una sorta di “salvatore”, dopo Berlusconi pare guardare a Renzi,
seppure senza voler più approdare da alcuna parte. Forse non opera da “vero
politico”, ma certo opera - se davvero non sta facendo un salto di 180 gradi,
il che non credo - da galantuomo. A mio parere dà un’indicazione, vedendo Renzi
come l’erede politico di Berlusconi, ma collocandosi fuori campo. L’opzione di
Bondi può far gongolare pure qualche nostro amico, che vede confermati i motivi
sia di ripulsa di Berlusconi (e va bene) che di identificazione tra l’odiato
Berlusconi e Renzi (e non va). Con buona pace di Bondi. Su ciò è possibile fare
qualche piccola riflessione storico politica e strategica.
Da molto tempo, sin
dalla fine degli anni Settanta (per i primi tre aspetti citati di seguito),
dopo molto studio, esperienze e riflessioni su storia e politica (in specie
d’Italia), sono giunto ad alcune conclusioni di tipo politologico: I) che
quando certe soluzioni sono storicamente mature se non riescono ad arrivare da
una parte, per una specie di legge dei vasi comunicanti arrivano dall’altra: il
che però non è affatto la stessa cosa, benché sia una cosa “omologa”; II) che
la lamentata e deplorata, e da molti maledetta, “personalizzazione della
politica” era ed è figlia “ovvia” della grande crisi (e poi del crollo) della
prima repubblica; III) che tale “personalizzazione della vita politica” in
Italia può dare frutti positivi, e comunque durevoli, solo se arriva da
sinistra; IV) che Renzi non è affatto la versione realmente o addirittura solo
apparentemente progressista del berlusconismo, ma tutt’altro.
I) Sul primo punto
potrei andare molto lontano nell’esemplificazione, sino a quello che è accaduto
in Italia tra il 1914 e il 1922, ma me ne astengo. Resto ai dati relativamente
più prossimi, pur parlando di cose che quelli che oggi hanno trenta o
quarant’anni non possono neanche ricordare perché o erano all’asilo o alle
elementari. C’è stata la crisi della
prima repubblica (1993), che era una repubblica basata sul potere dei partiti
(partitocrazia) in quanto repubblica parlamentare, incentrata sul potere legislativo
eletto con la proporzionale pura, che è il sistema che premia i partiti più
presenti nel territorio, e sulla totale dipendenza del potere esecutivo
(governativo) dal legislativo (parlamentare); oppure, e più correttamente
parlando in termini storici, era una repubblica parlamentare nel senso
anzidetto perché era una repubblica dei partiti, segnata dall’inizio alla fine
da partiti già del Comitato di Liberazione Nazionale, con ovvie variazioni nel
corso dei decenni. Si può anche sostenere che le democrazie liberali moderne dopo
la prima guerra mondiale siano tutte “dei partiti”, che sono l’anello di
congiunzione necessario tra sovranità del popolo e sovranità del parlamento.
Ora questa repubblica dei partiti è entrata nella sua crisi mortale il 9 maggio
1978, quando Aldo Moro, il maggior capo storico della Democrazia Cristiana dal 1962,
fu assassinato dalle Brigate Rosse. Con ciò nessuno fraintenda. Come non fu il
nazionalista serbo che sparò all’arciduca d’Austria a provocare la prima guerra
mondiale, e neanche i quattro gatti nazionalisti serbi (né tantomeno a
determinarne il decorso), così non furono neanche i quattro gatti terroristi
fanatici che assassinarono Moro credendo di essere in Bolivia, o che le camicie
nere fossero alle porte (e neanche i loro omologhi dell’altra parte), a mettere
in crisi la repubblica. In Europa la politica si fa sempre con e tra grandi masse,
da almeno un secolo. La nostra Repubblica, entrata in stato necrotico dalla
morte di Moro, era marcita per mancanza di alternanza, essendo impossibile a un
primo partito della sinistra che si chiamava comunista, e che era davvero
comunista, sia pure all’italiana, e che aveva tutti i parenti del mondo
comunisti, succedere alla DC, anche quando sarebbe stato necessario come si
vedeva a occhio nudo intorno al 1975. L’ultimo tentativo di evitare il “marcimento”
morale istituzionale e sociale, insomma lo scacco dell’Italia, ma senza far
saltare la repubblica dei partiti, era stato quello della tentata grande
alleanza tra DC e PCI detta “compromesso storico”, promossa da Berlinguer tra
1973 e 1979: alleanza che aveva visto improvvisamente un tipo come il cinico, spregiudicato e chiacchieratissimo
Giulio Andreotti diventare il Presidente del Consiglio del governo di
solidarietà nazionale che avrebbe dovuto portare al “compromesso storico”, con
ovvia delusione di tutti i veri riformatori e riformisti (per non dire dei
pretesi “rivoluzionari”). Sin dal bieco assassinio di Moro e dallo scacco della
politica di solidarietà nazionale “base del compromesso storico”, intorno al
1979, ci fu qualcuno che capì che la repubblica dei partiti - o parlamentare e
proporzionalista pura che dir si voglia - era finita. Qui naturalmente tutti
penseranno al “Piano Solo” e alla loggia massonica deviata P2 di Licio Gelli,
ma queste cose vanno bene per i lettori del solo Alexandre Dumas e del suo
dimenticato romanzo su Cagliostro (“Giuseppe Balsamo”, 1848). In realtà chi se
ne accorse prima e più di tutti era un finissimo politico che ancor oggi siede
alla Corte Costituzionale, Giuliano Amato, che nel 1980 scrisse il libro “Una
repubblica da riformare” (Il Mulino). Nasceva l’ideologia politica di Craxi
(“la grande riforma”). Si voleva blindare la “governabilità”, introducendo
l’elezione diretta del premier, alla de Gaulle-Mitterrand sia pure più
moderatamente. Solo che Craxi, che impersonava il tentativo, e che aveva tra i
principali fan e fraterni amici il miliardario Berlusconi, da un lato
impersonava – e ne era anzi “l’autobiografia” - un partito come il PSI,
promotore e realizzatore misconosciuto delle maggiori riforme di Welfare State
e civili del Paese, e anche generatore di leader di prim’ordine, ma che ormai era
troppo inquinato moralmente dopo una troppo lunga connivenza con la DC per
poter impersonare una svolta “alla francese” (alla de Gaulle-Mitterrand).
Inoltre il tentativo si scontrava con l’ostilità assoluta del PCI di Berlinguer,
che temeva proprio la social democratizzazione; non voleva essere trascinato –
alias egemonizzato – da disistimati “fratelli minori” socialisti, ed era ben consapevole
– come poi si vide meritoriamente - della degenerazione morale subita in tanti
anni di governo dal PSI. Tutto ciò fece sì che il progetto del “governo
presidenziale” venisse messo in frigorifero, trasformato in propaganda,
sostituito dal famoso patto d’acciaio Craxi Andreotti Forlani (CAF). Questo non
restò senza conseguenze, data la necrosi della prima repubblica, aprendo la
strada ad un’implosione graduale del sistema culminata nella grande resa dei
conti tra ceto di governo e potere giudiziario chiamata “Mani pulite”. Ma -
puntuale come un orologio - si verificò la solita svolta a rovescio, la “legge”
dei vasi comunicanti: fallita da sinistra, l’alternativa alla moribonda
repubblica dei partiti arrivò da destra, al solito da un transfuga del
precedente tentativo, Berlusconi, già grandissimo amico del leader del mancato
gollismo “da sinistra”, Craxi. Ora siamo daccapo. Berlusconi è fallito e sono
emerse, negli ultimi anni, prima e dopo la caduta del suo governo, parecchi
tentativi di tornare a meccanismi e alleanze politiche da prima repubblica. Ci
sono state tendenze al ritorno alla proporzionale, mascherata “alla tedesca” o
alla “spagnola”, non solo nell’area ex democristiana conservatrice di Casini,
ma in una vasta area del PD compresa tra D’Alema e Bersani. Ci sono stati
continui tentativi di resuscitare forme di unità nazionale che avrebbero potuto
favorire tali processi, dal governo dei “tecnici” di Mario Monti a quello di
Enrico Letta, specie sponsorizzati da Napolitano. Ma sono tutti falliti,
culminando prima nel crollo di Bersani durante l’elezione del nuovo Presidente
della repubblica, poi nella liquidazione di Letta da parte di Renzi. Può darsi
che Renzi, che rappresenta la
discontinuità con tutto quel mondo che ha cercato invano di risorgere, sia in
termini di legge elettorale che di grandi alleanze moderate, sia più subito che
accettato dal Presidente della Repubblica. Ma non importa. Quale sia lo stato
d’animo di questo o quel leader, di qualsivoglia partito, Renzi incarna una
forma di sinistra, reale sebbene molto moderata, almeno per ora, o del gollismo,
o del premierato all’inglese, o comunque, e per ora più plausibilmente, di un
genere di governo - anche non eletto dal popolo sovrano - che accentua il ruolo
arbitrale del primo ministro e ne fa un’istanza sempre più legata ad una
volontà popolare diretta (ad esempio indicandolo come candidato sulla scheda
alle prossime elezioni politiche, consentendo l’identificazione tra il partito
e il suo leader). Non a caso Renzi è il leader di partito eletto a grande
maggioranza, in competizione vera, dagli elettori del PD. Ha poi proseguito la
sua corsa diventando capo del governo.
II) Qui bisogna essere al
tempo stesso onesti intellettualmente e realisti politicamente: la cosa
può piacere o non piacere, ma nessuno, assolutamente nessuno, potrà far
rivivere lo Stato con le regole elettorali e la centralità dei partiti della
Costituzione e della Repubblica nate nel 1946-1948. In Italia i partiti
come “parti dello Stato” non sono risultati rifondabili: intanto perché le
ideologie del Novecento, e le classi del Novecento, sono in grave crisi
ovunque; ma poi perché qui a ciò si era aggiunto il fatto che i partiti
protagonisti della prima repubblica erano tutti morti, o per la bulimia, in
cinquanta (DC) o trenta (PSI) anni di governo senza alternativa democratica, o per
la connessa scandalosa, avvilente e nociva bancarotta finanziaria del debito
pubblico, e per le ruberie diventate per decenni “normali”, e per la sclerosi
burocratica. Il PCI riuscì a non crollare sotto le macerie della prima
repubblica rifondandosi come Partito Democratico della Sinistra nel 1991, ma
non avendo voluto tornare ad essere semplicemente un grande partito democratico
e socialista europeo, ma “un’altra cosa” precipitò in una lunga crisi
d’identità. In sostanza il grande soggetto di sinistra rimase vivo, ma a prezzo
di una crisi d’identità che pareva interminabile, culminata nel crollo di
Bersani e nell’avvento di Renzi. Certo i partiti avrebbero potuto rifondarsi, e
lo hanno tutti tentato, ma siccome o tutti o la gran parte o comunque una parte
decisiva dei rifondatori sono sempre quelli di prima, la gente non poteva e non
può fidarsi; non vuole più delegare la propria volontà ad alcun partito, se non
per il minimo indispensabile. In parole povere se non è più storicamente potabile
la democrazia dei partiti diventa fatale quella cosiddetta personalistica, in
cui non è il leader (o il presidente del Consiglio, o anche il sindaco o il
presidente di Provincia o Regione, o persino il deputato) a essere “del”
partito, ma è il partito corrispettivo ad essere “del” leader, “del” presidente
del Consiglio, “del” sindaco, “del” presidente della Provincia, del
“presidente” della Regione, e persino “del” parlamentare. Più o meno come in
America. I cittadini vogliono scegliere loro, e a tempo debito sostituire, col
loro voto, ogni “capo” che conti davvero. Non è un caso che i sondaggi dicano
che il 95% non crede nei partiti e il 40% crede nei sindaci. Ed è molto
interessante che i sindaci abbiano fatto da trampolino per l’ascesa del
presidente come del vicepresidente del Consiglio d’oggi e che si cerchi di
variare il modello della Camera delle Regioni tedesca, dei delegati regionali
(Bundesrat), facendo più posto ai sindaci nel nuovo Senato delle autonomie.
Per tutte queste
ragioni la famosa deplorata personalizzazione c’è stata in tutti i partiti
politici, persino minuscoli. Non è certo una disposizione d’animo a generare
tutto ciò. Non scherziamo. Persino Sinistra Ecologia Libertà ha un tal rapporto
col suo leader. Come fa la gente a credere in partiti che sono chiaramente dei
residuati bellici, salvo il Partito Democratico, che però in tempi recenti non
se la passava bene, e che solo dandosi anch’esso, con un ritardo storico di un
quarto di secolo, un forte leader popolare (o se volete populista di sinistra),
è cresciuto di 10 punti o quasi nei sondaggi rispetto al tempo di Bersani?
III) Tutto ciò mi conferma nella mia vecchia idea che una
svolta “minigollista” in Italia possa avvenire e comunque avere buoni effetti,
e durata, solo “da sinistra” (come da me spiegato tanti anni fa in un mio
piccolo saggio intitolato “Socialismo e presidenzialismo”, in “Critica
Sociale”, n. 7, 1990). Può avvenire solo da sinistra perché se si presenta “da
destra” il sospetto che sia una ribollita di fascismo o comunque inquinata da
tendenze autoritarie è troppo forte, anche legittimamente. Bondi chiama “rivoluzione liberale” la svolta
minigollista perché quello che vi si connette lo sarebbe. Provo a spiegarlo,
certo esplicitando non solo il non detto, ma anche forse il “non pensato”
dall’uomo che amò Berlusconi. In Italia sarebbe necessario stabilire o
ristabilire una buona divisione e bilanciamento dei tre poteri fondamentali
dello Stato e un sano rapporto di distinzione e di collaborazione dialettica
tra società civile e Stato. Questa sarebbe una “rivoluzione liberale”. Ci vuole
un governo forte del consenso popolare, nonché di legislatura, e in grado di
avere una corsia preferenziale per le sue proposte alla Camera. Ci vuole un
potere legislativo liberato dal macchinoso bicameralismo e con lo stretto,
anche se non esclusivo, rapporto con il governo di cui si è detto. E ci vuole
un potere giudiziario sempre molto autorevole, ed agguerrito contro la criminalità
organizzata, ma anche tale da dare garanzie di giustizia rapida, con limiti di
competenza molto più definiti, che evitino una supplenza che viene a concernere
ormai persino la sorte di grandi aziende. E bisogna che le grandi
organizzazioni sociali, come i sindacati dei lavoratori e degli stessi
imprenditori, abbiano certo notevoli spazi di interlocuzione col potere
esecutivo e legislativo, ma nessun diritto teorizzato, o di fatto, di porre
veti nella politica economica del Paese. Ma tutto ciò, per ragioni che non è
difficile capire, non può farlo né un potere sbilanciato sul legislativo (e sui
partiti), come nella prima repubblica, né sul
giudiziario, ma semmai un potere esecutivo o governativo decisamente
rafforzato tramite norme che consentano di sapere subito dopo le elezioni chi
governerà per tutta la legislatura, con potere del premier, elettoo o meno dai
cittadini, di nominare e revocare i ministri e di avere, per le proposte del
governo, una corsiapreferenziale in parlamento, in un contesto semplificato
dall’esclusiva legislativa da parte della sola Camera dei deputati.
Credo che sia più o
meno questo quel che Bondi chiama “rivoluzione liberale”. Ed ha ragione a dire
che con culture come quelle di matrice autoritaria erano impossibili. Solo che
non si accorge che Berlusconi stesso ne è sempre stato il Capo,
l’autobiografia, la quintessenza, il più populista della compagnia, per tacere
di tutto il resto.
Ora il progetto
volto a dare al Paese un esecutivo legato al voto del popolo sovrano e garante
a sua volta di riforme istituzionali come economico sociali, passa da
Berlusconi a Renzi.
Naturalmente ci sarebbe molto da discutere “nel
merito” delle riforme istituzionali proposte dal governo Renzi (dopo il patto
con Berlusconi). A me pare del tutto ovvio che se due contraenti con una loro
base di massa fanno un compromesso – doveroso per non tornare indietro alle
regole della prima repubblica o peggio – esso porti alcune stigmate di entrambi.
Che Berlusconi, così in crisi, avrebbe potuto rinunciare “del tutto” a nominare
i “suoi” candidati, “era follia pensar”. Perciò si è passati dal listone
nazionale del Porcellum alla proposta del “listino da tre a sei candidati”, che
è meglio, molto meglio di prima, ma risente di quel condizionamento (anche se
il PD per parte sua si è impegnato a fare le primarie per scegliere i suoi
candidati nei collegi). Pregevole è invece il doppio turno. Per me il punto
debole è la proposta sul Senato, che però non deve restare elettivo da parte
dei cittadini in alcun modo, perché altrimenti tutte le storture di oltre sessant’anni
di bicameralismo macchinoso tornerebbero alla chetichella, e perché la doppia
lettura delle leggi non serve (il controllo di legittimità lo esercitano già
Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale). Ma un Senato in pratica
quasi solo consultivo serve ancora? Se lo mantengono, debbono farne - ma con i poteri
effettivi, e non consultivi, corrispondenti - il corrispettivo della Camera dei
rappresentanti delle Regioni o Länder della Germania, che sono delegati (ma con
poteri deliberativi “veri”, ad esempio rispetto alle singole Regioni); se il
Senato restasse in gran parte consultivo, come nella proposta attuale, sarebbe
meglio abolirlo. Ma la trattativa è in corso. Siamo vigili e speriamo in bene.
IV) Comunque io ho molta fiducia in questo premier, Matteo
Renzi, e non lo ritengo affatto un novello Berlusconi. E’ vero che il PD di
Renzi assomiglia molto al New Labour di Tony Blair, in pratica alla
socialdemocrazia più riformista d’Europa e quindi che è più democratico che
socialista (alla Obama). Ma intanto la carta della socialdemocrazia di sinistra
(da Mitterrand a Jospin) è stata bruciata dai comunisti e post-comunisti, che
né alla crisi del compromesso storico (1979) né al crollo del muro di Berlino
(1989) e neppure alla fondazione del PD (2006), hanno voluto essere socialisti
europei e basta. Pur di fare un’altra cosa hanno persino fuso ex comunisti ed
ex democristiani di sinistra. Se ora arriva un emulo di Blair e del New Party
comincia almeno a vincere la destra socialista europea. E’ persino un progresso
politico. Inoltre, ora come ora, piaccia o non piaccia, l’alternativa è tra il
populismo democratico riformista (o socialdemocratico riformista) di Renzi e
quello da “descamisados” forse peronisti, comunque confuso e ambivalente, di
Grillo.
La riforma caldeggiata
da Renzi porterà i tre partiti a misurarsi lasciando in lotta al secondo turno
(se nessuno abbia il 37% al primo) i due maggiori. Al secondo turno o quelli
del Movimento 5 Stelle o di Forza Italia
e “consorti”, avendo come contraltare il PD di Renzi, dovranno scegliere se far
vincere Renzi o Grillo o Berlusconi (o chi per lui). A me la cosa piace. Spero
che si realizzerà. Non credo affatto che doppio turno o Senato non elettivo
fossero proposte del Berlusconi del 2005 battute dal referendum nel 2006; per
tacere del loro manifesto presidenzialismo, che qui per ora non c’é. Ma anche
se in parte si potesse dire che è latente, altro è una personalizzazione della
politica democratica che venga da una destra egemone oppure dal centrosinistra.
Sono del tutto diversi.
Bondi o altri può ben credere che Renzi sia
l’erede di Berlusconi come Blair della Tatcher. Ma a parte il fatto che il
vedere Blair come erede della Tatcher non è tanto vero, si tace su differenze
abissali tra Berlusconi e Renzi. Si cade sempre nell’antica obiezione toscana:
“Se la mi’nonna avesse avuto le rote, sarebbe stata un tramvai”. Se il principale
organizzatore del partito di Renzi fosse uno come lo fu Dell’Utri con Forza
Italia nel ’94; se Renzi avesse un colossale conflitto d’interessi; se si
alleasse con i neofascisti per conquistare Roma; se fosse alleato con forze
come quelle ex fasciste o leghiste; se avesse le innumerabili pendenze
giudiziarie di quello; se amasse lui pure i festini, eccetera eccetera, sarebbe
un novello Berlusconi. Si potrebbe ripetere la filastrocca ricordando le
differenze abissali anche verso altri, compresi Mussolini o Craxi.
Inoltre sinora
tutte le cose fondamentali fatte da Renzi sono state di sinistra. Ha subito
fatto aderire il PD al Partito Socialista Europeo. Ha fatto un governo
paritario tra uomini e donne. Ha dato 80 euro in più al mese a dieci milioni di
lavoratori disagiati, impegnandosi a farlo per sempre. Ha persino tassato ben
bene le banche per poterlo fare. Fa le Direzioni di Partito “in diretta
televisiva”, e ben più spesso di tutti i predecessori. Non deplora neanche
quelli che invece di fare gli arbitri, essendo oltre a tutto del PD, come il
Presidente del Senato, entrano pesantemente in partita sulla faccenda del
Senato, benché l’impostazione contestata sia stata votata da due milioni di
“democratici” alle primarie, da svariate Direzioni di partito e dalle riunioni
dei gruppi parlamentari. Sinora non sanziona neanche con parole forti senatori
che come Chitti, dopo tutti i pronunciamenti di partito e gruppi parlamentari
del PD, presentano leggi in senso contrario sul Senato. Dov’è il “duce”, il
padrone del partito, il Berlusconi
giovane? – Sogno o son desto?