Per l’anno 2011 l’Aldus club, l’associazione di bibliofili che pubblica l’«Almanacco» con sede a Milano, aveva indicato ai suoi soci come tema da sviluppare in antologia il mondo delle isole utopiche, introdotta da un lungo saggio sugli Isolari di Umberto Eco – “Perché l’isola non viene mai trovata” – più altre «sedici estrose fantacorrispondenze che spaziano dall’Italia alla Cina, dall’Irlanda al Cile, da Itaca alle mitiche isole ai confini del mondo, alcune allegoriche, altre facete, tutte scritte con appassionato amore per i libri» (dalla Presentazione di Mario Scognamiglio, direttore dell’Aldus).
Qui di seguito, pubblichiamo il saggio di Maurizio Nocera, docente in pensione, studioso, poeta, critico letterario, che ha realizzato un testo unico e singolare. Abbiamo il privilegio di farvelo conoscere grazie all’interessamento del nostro Gianni Ferrraris, che sentitamente ringraziamo.
ISLA NEGRA (CILE) DOVE C’È LA CASA-ISOLA DI NERUDA
A Temuco, quella mattina della primavera 1920 pioveva. D’altronde, però, pioveva come sempre, perché a Temuco, al centro dell’Araucania, nel Cile profondo del Cono Sur, piove 360 giorni su 365. Ricardo, il ragazzo meticcio e magro come un giunco camminava riparato dalla fragile mantellina del padre, macchinista del locomobile, che tutti i giorni trasportava pietre e terriccio dalla miniera fino all’invaso dove si costruiva la diga. Il suo passo era piuttosto vivace, perché andava a salutare ancora una volta la direttrice del Liceo femminile.
Lucila de Maria del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga non era di Temuco; era nata a Vicuña (provincia de La Serena, nella Valle del Elqui) nel 1889, nel nord del Cile, e quella mattina aspettava di vedere quel sedicenne che, contro i desideri del padre, voleva farsi poeta: Lucila de Maria gli voleva regalare un altro libro. Allora lei aveva trentuno anni ed era molto religiosa tanto che, per questa sua vocazione, non si era neppure accasata (che sta per sposata), pur di stare vicina alla comunità cristiana della città, le cui case, da sempre, erano costruite con fango e lamiere ondulate per contenere l’urto dei continui terremoti della faglia oceanica.
La direttrice, servendosi degli pseudonimi più svariati (Alguien, Soledad, Alma) aveva già scritto diversi libri di poesie, ricevendo un buon consenso nazionale come, ad esempio, nel 1914 quando, ai giochi floreali di Santiago, le avevano assegnato la massima distinzione (Medaglia d’Oro e Corona d’Alloro) per i suoi versi “Sonetos de la Muerte”. Fu proprio quell’anno che la poetessa decise di servirsi di uno pseudonimo definitivo: Gabriela Mistral. Affascinata dalla poesia di Gabriele D’Annunzio (1863-1938) aveva preso in prestito il suo nome, mentre il cognome se l’era imprestato da Frédéric Mistral (1830-1914), noto poeta provenzale e Premio Nobel 1904, che però non ritirò (il primo nella storia dei Nobel a non essere ritirato).
Nel 1922, Gabriela Mistral pubblicò negli Stati Uniti il suo primo e più importante libro, “Desolación” (nello stesso anno venne pubblicato anche in Cile dall’Editorial Nascimento), per il quale venne riconosciuta come massima «Poetisa chilena» e, molto probabilmente, fu il libro che le permise di ricevere il Premio Nobel per la letteratura nel 1945. [In Italia, recentemente di Gabriela Mistral è stato pubblicato “Canto che amavi” (trad. di Matteo Lefèvre), Marcos y Marcos, 2010].
Il sedicenne Ricardo, che quella mattina si stava dirigendo verso di lei, cinquant’anni dopo (1972), nella sua autobiografia “Confieso que he vivido” [la prima edizione del libro, a causa della dittatura pinochetista, vide la luce in modo clandestino nel 1974, a cura degli eredi (Matilde Urrutia)], nel ricordare la Directora del Liceo de Niñas, ha scritto: «In quel tempo giunse a Temuco una signora alta, dagli abiti lunghi fino ai piedi e scarpe dal tacco basso. Era la nuova direttrice del liceo femminile. Veniva dalla nostra città australe, dalle nevi di Magallanes. Si chiamava Gabriela Mistral. Io la guardavo passare per le strade del paese con le sue vesti talari, e mi faceva paura. Ma quando mi portarono a farle visita la trovai buona e gentile. Sul suo viso bruciato dal sole in cui il sangue indio predominava come in una bella anfora di terracotta araucana, i suoi denti bianchissimi si scoprivano in un sorriso pieno e generoso che illuminava tutta la stanza. Io ero troppo giovane per essere suo amico, e troppo timido ed introverso. La vidi pochissime volte. Abbastanza però, perché ogni volta me ne tornassi con qualche libro che mi regalava».
I libri avuti in regalo dalla Directora prevalentemente erano romanzi russi degli immortali Tolstoj, Dostoievskj, Cekov ma, quel giorno di quella primavera 1920, al giovane sedicenne, Gabriela regalò anche un libro di Platone.
Ricardo Eliecer cominciò a leggere i testi del grande filosofo ateniese e si soffermò soprattutto su due di essi: Il “Timeo” e il “Crizia”, scritti intorno al 355 a. C. Dal primo testo, su un quadernetto che si portava sempre appresso, si annotò il racconto che il giovane Crizia narrò a Socrate, Timeo ed Ermocrate. Si tratta di un racconto nel racconto, dove Solone narra la storia di Atlantide: «Molte, dunque, e grandi opere della vostra città si ammirano, qui tramandate per iscritto, ma una le sopravanza tutte per grandezza e per valore. Le nostre scritture infatti riferiscono d’una immensa potenza, a cui un giorno la città vostra pose fine, e che aveva allora violentemente invaso insieme tutta l’Europa e l’Asia, movendo dal di fuori, dal mare Atlantico. Quel mare lì era allora navigabile; giacché dinanzi allo stretto, che si chiama, come dite voi, “colonne d’Ercole”, c’era un’isola, e quest’isola era più grande della Libia e dell’Asia unite insieme; e da essa i naviganti di quel tempo potevano passare alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente posto di rincontro intorno a quello che era un vero e proprio mare. Perché tutto questo, che è al di qua dello stretto di cui parliamo, ha sembianza d’un porto che abbia un’imboccatura angusta; laddove quello si può realmente chiamare un mare, e continente, con tutta verità, la terra che lo circonda. Ora, in questa isola Atlantide s’era costituita una grande e mirabile potenza regale, che dominava su tutta l’isola e su molte altre isole e parti del continente; e, oltre a ciò, delle regioni al di qua dello stretto i suoi re imperavano ancora sulla Libia fino all’Egitto e sull’Europa, fino alla Tirrenia. […] Più tardi, avvenuti de’ terremoti e de’ cataclismi straordinari, nello spazio appena d’un giorno e d’una notte tremendi, tutta la vostra stirpe guerriera sprofondò sotterra, e similmente l’isola Atlantide s’inabissò nel mare e scomparve; per lo che anche ora quel mare è divenuto impraticabile ed inesplorabile, impedendo il fango dei bassifondi, che l’isola formò nel sommergersi».
L’altro appunto riguardava il secondo scritto di Platone, il “Crizia” che, di fatto, descrive com’era fatta l’isola leggendaria. Ricardo Eliecer, sul suo quadernetto, annotò: «A proposito dell’estrazione a sorte fatta dagli dèi: che, cioè, essi s’erano divisa tutta la terra in lotti, dove più grandi dove più piccoli, e vi avevano istituito in proprio onore culti e sacrifizi; così appunto anche Poseidone, che aveva ottenuto in sorte l’isola Atlantide, collocò i propri figliuoli, generati da una donna mortale, in un luogo dell’isola che era suppergiù così fatto. Dal mare, verso il mezzo dell’intera isola, c’era una pianura ma, rispetto al centro distante circa una cinquantina di stadi, sorgeva un monte di poca altezza dappertutto. […] E Poseidone stesso abbellì l’isola centrale, il che gli riuscì assai facile, come dio ch’egli era, facendovi di sotterra scaturire due vene di acqua, scorrenti dalla fonte, l’una calda l’altra fredda, e spuntare dalla terra in abbondanza ogni sorta di piante nutritive. […] Inoltre tutte le essenze aromatiche, che il suolo suppergiù ora nutrisce, di radici o di erbe o di legni o di succhi distillati da fiori o da frutti, la terra allora le produceva e le nutriva bene; e così pure il tenero frutto e quello arido fatto per nutrirci, e tutti quei prodotti di cui ci serviamo per cibo e le cui varietà con nome generico chiamiamo legumi, che ci forniscono bevande, alimenti e profumi […] tutti questi quell’isola sacra, che allora stava sotto il sole, li produceva belli, meravigliosi e in quantità inesauribile».
Ricardo Eliecer Neftalì, nato a Parral il 12 luglio 1904, rimase talmente affascinato dalla lettura dei miti di Platone che si mise a leggere altri libri sui mari e sulle isole, un po’ perché sapeva che la lunghissima costa del suo paese (oltre 5 mila km) era un innumerevole frastagliarsi di penisole, isole e isolette, e un po’ anche perché a lui piaceva immedesimarsi marinaio. Non per nulla, quando si firmava, soleva spesso aggiungere “Marinero in tierra”. Il Cile, poi, era anche il paese che aveva sotto la sua amministrazione le più lontane isole dai continenti: Rapa Nui (Isola di Pasqua) e Sala y Gómez, che per il suo popolo erano le terre dell’utopia, le isole dell’immenso Grande Padre Oceano.
Nell’Auracania, dov’era nato il Poeta, oltre agli auraucanos, vive anche il popolo Mapuche (il suo significato è uomini e donne della terra), che da sempre ha organizzato la propria vita in modo collettivo e nel rispetto della natura. I Mapuche non hanno mai conosciuto l’occupazione dei conquistadores spagnoli e la loro terra è stata annessa al Cile solo nel 1883, dopo secoli di indipendenza.
Come il suo popolo, anche Ricardo Eliecer Neftalì amava immensamente il mare, e il vento, e le isole. Quante poesie non ha scritto sul tema. Nella raccolta “Los Versos del Capitan”, nella poesia “La notte nell’isola”, è possibile leggere: «Tutta la notte ho dormito con te/ vicino al mare, nell’isola. […]/ Forse il tuo sogno/ si separò dal mio/ e per il mare oscuro/ mi cercava,/ come prima,/ quando ancora non esistevi,/ quando senza scorgerti/ navigai al tuo fianco/ e i tuoi occhi cercavano/ ciò che ora/ - pane, vino, amore e collera -/ ti do a mani piene,/ perché tu sei la coppa/ che attendeva i doni della mia vita». E nella raccolta “El Hondero Entusiasta”, è possibile leggere altri bellissimi versi nella lirica “È come una marea”. Questi: «È come una marea, quando lei fissa su me/ i suoi occhi neri,/ quando sento il suo corpo di creta bianca e mobile/ tendersi e palpitare presso il mio,/ è come una marea, quando lei è al mio fianco.// Disteso davanti ai mari del Sud ho visto/ arrotolarsi le acque espandersi/ incontenibilmente/ fatalmente/ nelle mattine e nei tramonti.// Acqua delle risacche sulle vecchie orme,/ sulle vecchie tracce, sulle vecchie cose,/ acqua delle risacche che dalle stelle/ s’apre come una rosa immensa,/ acqua che va avanzando sulle spiagge come/ una mano ardita sotto una veste,/ acqua che s’inoltra in mezzo alle scogliere,/ acqua che s’infrange sulle rocce,/ e come gli assassini silenziosa,/ acqua implacabile come i vendicatori/ acqua delle notti sinistre/ sotto i moli come una vena spezzata,/ o come il cuore del mare/ in una irradiazione tremante e mostruosa».
Per tutto questo, una volta divenuto adulto, Ricardo Eliecer Neftalì Reyes avrebbe desiderato vivere la sua vita su un’isola, o quanto meno in una casa dove il mare arrivasse con le sue onde dentro di essa. Accadde così che quel sedicenne magro come il giunco che a Temuco, nella primavera 1920, aveva incontrato la Directora «Poetisa» Gabriela Mistral, divenne adulto e anche lui poeta conosciuto e amato in tutto il mondo, dove milioni di lettori lessero e continuano a leggere i suoi libri: “La Cancion de la Fiesta” (Claridad, Santiago 1921); “Crepuscolario” (Claridad, Santiago 1923), “Tentativa del Hombre Infinito” (Nascimento, Santiago 1926), “Anillos” (Nascimento, Santiago 1926); “Veinte Poemas de Amor y una Cancion Desesperada” (Nascimento, Santiago 1931); “El Hondero Entusiasta” (Lettras, santiago 1933); “Residencia en la Tierra” (Imprenta de Siviero Aguirre, Madrid 1935); “España en el corazon” (Ercilla, Santiago 1937); “La furia y la penas” (Nascimento, Santiago 1939); “Canto General de Chile” (la prima edizione è senza dati di pubblicazione, ma Messico 1943); “Altura de Macchu Picchu” (Libreria Neira, Santiago 1947); “Que Despierte el Leñador” (Collección Yagruma, La Habana 1948); “Los Versos del Capitan” (Arte Tipogarfica, Napoli 1952); “Las Uvas y el Viento” (Nascimento, Santiago 1952); “Odas Elementales” (Losada, Buenos Aires 1954); “Nuevas Odas Elementales” (Losada, Buenos Aires 1956); “Tercer Libro de Odas” (Losada, Buenos Aires 1957); “Oda a la Tipografia” (Nascimento, Santiago 1956, e Stamperia Tallone, Alpignano 1983, ancora Tallone, luglio 2010); “Estravagario” (Losada, Buenos Aires 1958); “Cien Sonetos de Amor” (Editorial Universitaria, Santiago 1959); “Toros di Pablo Picasso” (Au Vent d’Arles, Paris 1960); “Cancion de Gesta” (Casa de las Américas, La Havana 1960); “Veinte Poemas de Amor y una Cancion Desesperada” (Losada, Buenos Aires 1961); “Las Piedras de Chile” (Losada, Buenos Aires 1961); “Sumario. Libro Donde Nace la Lluvia” (Tallone, Alpignano 1963); “Memorial de Isla Negra” (Losada, Buenos Aires 1964/66); “Arte de Pajaros” (Ediciones de la Sociedad de Amigos del Arte Contemporáneo, Santiago 1966); “Fulgor y Muerte de Joaquin Murieta. Bandito Chileno Injusticiado en California el 23 de julio de 1853” (Zig-Zag, Santiago 1967); “La Barcarola” (Losada, Buenos Aires 1967); “Aun” (Nascimento, Santiago 1969); “Fin de Mundo” (Ediciones de la Sociedad de Amigos del Arte Contemporáneo, Santiago 1969); “La Copa de Sangre” (Tallone, Alpignano 1969) con al suo interno il bellissimo testo “Adiòs a Tallone”; “Las Piedras del Cielo” (Losada, Buenos Aires 1970); “La Espada Encendida” (Losada, Buenos Aires 1970); “Maremoto” (Ediciones de la Sociedad de Amigos del Arte Contemporáneo, Santiago 1970); “Geografia Infructosa” (Losada, Buenos Aires 1972); “Incitacion al Nixonicido y Alabanza de la Revolucion Chilena” (Quimantù, Santiago 1973); “Discurso de Stockolm para el Nobel 1971” (Tallone, Alpignano 1972); “2000” (Tallone, Alpignano 2004).
Ma in quale luogo Ricardo Eliecer Neftalì Reyes Basoalto aveva scritto i testi di tutte queste prime edizioni, stampate in modo bibliofilicamente bello e in un numero di copie sempre limitato? Ovviamente, dopo la prima edizione, i libri del Poeta sono stati (così è ancora oggi) puntualmente stampati in milioni di esemplari in edizioni economicamente più accessibili. Fondamentalmente, quasi tutte le opere le ha scritte nelle sue case-nave, nelle sue case-isola, nelle sue case-mare. Perché per lui la casa era il mare, era la nave, era l’isola, era lo spazio sacro alla poesia, all’intimità, alla scoperta dell’abisso-mondo che sta nel cosmo dei sentimenti. Per lui l’isola non era solo quell’entità geo-fisica di terra circondata dalle acque del mare, ma era soprattutto quell’isola-mondo che si portava dentro in qualsiasi parte del pianeta si trovasse. Le sue case erano legno, cemento, lamiera, scale e scalette che a volte portavano solo al nulla, e chiodi, bottiglie, campane, ritratti, isolari, portolani, carte nautiche, mappe, e libri di rara bellezza e di ogni contrada del mondo, e, un posto particolare alle conchiglie e alle polene di navi.
Leggere la sua poesia è come guardarsi nello specchio-isola delle sue case che, essenzialmente, furono tre, più due progetti di case che andava realizzando quando aveva compiuto già 69 anni. I progetti riguardavano: una casa-faro, “La Manquel” (L’Aquila in mapuche), da costruire sotto le Ande, alle falde della collina Manquehue, la cui costruzione è rimasta appena iniziata a causa della morte; di essa però esiste un plastico. Doveva essere la casa-faro per i poeti-naviganti che si sarebbero smarriti nel mare magnum della confusione cosmica. Inoltre, aveva in mente la costruzione di un villaggio della poesia sulla Punta de Tralca, una rocciosa penisoletta ma, a vederla, potremmo definirla una vera e propria isola, dentro l’insenatura di Isla Negra e a sperone nelle acque del Pacifico; per questo progetto aveva già comprato il terreno, denominato Cantalao; su di esso si era fatto costruire una capanna-scrittoio che pure utilizzò. Per il Poeta doveva divenire il luogo-isola-rifugio per i poeti in cerca di un posto dove non essere disturbati dal frastuono del mondo.
Ci furono pure altre case, soprattutto fuori del suo paese, nelle quali Ricardo Eliecer Neftalì Reyes Basoalto dimorò, perché diplomatico (Console e Ambasciatore del Cile). Durante la guerra civile spagnola, a Madrid, dove visse in affitto nella Casa dei Fiori (quartiere Argüelles); a Città del Messico, dove abitò la casa di Michoacán; sull'isola di Ceylon, nel quartiere Wellawatta, dove visse in una casa alla quale, nel momento del suo abbattimento, dedicò la poesia “La casa perduta”; sull’isola di Capri, dove soggiornò nel 1952 da rifugiato politico in una delle case di proprietà di Erwin Cerio, e nella quale scrisse buona parte del libro “Las Uvas y el Viento” e l’altro libro, questa volta tutt’intero e clandestino, “Los Versos del Capitan”.
Nella sua autobiografia, “Confido che he vivido. Memorias”, scrive bellissime pagine su questo straordinario libro, che costò ben 250 mila lire, una cifra astronomica per quell’epoca. Scrive: «Lì ho finito di scrivere un libro d’amore, appassionato e doloroso, che fu pubblicato poi a Napoli [presso l’Arte Tipografica di Angelo Rossi senior], anonimo: ”Los versos del Capitán”. E adesso vi racconto la storia di questo libro, uno dei più controversi dei miei. Rimase per molto tempo un segreto, per molto tempo non portò il mio nome in copertina, come io lo avessi rinnegato o lo stesso libro non sapesse chi era suo padre. Come ci sono figli naturali, figli dell’amore naturale, “Los Versos del Capitán” era così, un libro naturale./ Le poesie che lo compongono sono state scritte di qua e di là, lungo il mio esilio in Europa. Sono state pubblicate anonime a Napoli nel 1952. L’amore per Matilde, la nostalgia del Cile, le passioni civili riempirono le pagine di questo libro che rimase senza il nome dell’autore per molte edizioni./ Per la sua prima tiratura, il pittore Paolo Ricci riuscì a trovare una carta bellissima, e vecchi caratteri da stampa bodoniani, e incisioni prese dai vasi di Pompei. Con fervore fraterno Paolo elaborò anche la lista dei sottoscrittori. Ed ecco il bel volume finito, pronto in non più di cinquanta esemplari».
In realtà gli esemplari furono 44 e l’elenco dei fortunati sottoscrittori, rileggendolo oggi, è una vera sorpresa. In occasione del centenario (2004) della nascita del Poeta, li ha rintracciati l’allora ambasciatore cileno José Goñi, e sono: 1. Matilde Urrutia; 2. Neruda Urrutia; 3. Pablo Neruda; 4. Biblioteca Caprense; 5. Claretta Cerio; 6. Ilya Ehremburg; 7. Elsa Morante; 8. Vasco Pratolini; 9. Giulio Einaudi; 10. Jorge Amado; 11. Mario Alicata; 12. Editore Gaspare Casella; 13. Nazim Hikmet; 14. Palmiro Togliatti; 15. Luchino Visconti; 16. Renato Caccioppoli; 17. Stephen Hermlin; 18. Elvira Pajetta Berrini; 19. Salvatore Quasimodo; 20. Bruno Molajoli; 21. Carlo Levi; 22. Renato Guttuso; 23. Paolo Ricci; 24. Antonello Trombadori; 25. Giuseppe De Santis; 26. Ivette Joie; 27. Vittorio Vidali; 28. Luigi Cosenza; 29. Carlo Bernari; 30. Pietro Ingrao; 31. Armando Pizzinato; 32. Mario Montagnana; 33. Gaetano Macchiaroli; 34. Ernesto Treccani; 35. Francesco De Martino; 36. Alessandro Vescia; 37. Angelo Rossi; 38. Giuseppe Zigaina; 39. Gianzio Sacripante; 40. Massimo Caprara; 41. Clemente Maglietta; 42. Lino Mezzacane; 43. Gerardo Chiaramonte; 44. Giorgio Napolitano.
In tutti i suoi scritti successivi all’esperienza caprese il Poeta ricordò l’isola con affetto e ammirazione. Non la dimenticò più e tutte le volte che ritornò in Italia, con sua moglie Matilde Urrutia, non mancò mai di rivisitarla. L’attore-poeta Massimo Troisi ha immortalato questa storia in quel suo stupendo film “Il Postino”.
Le tre case nelle quale visse più a lungo Ricardo Eliecer Neftalì Reyes Basoalto y Sachka furono: La Chascona (Scarmigliata, Spettinata, com’erano i capelli di Matilde) a Santiago del Cile, ai piedi del Cerro San Cristobal nel Barrio Bellavista e su un fianco del fiume Mapocho; La Sebastiana a Valparaiso; infine Isla Negra. Si tratta di case che hanno tutte a che vedere e a che fare col mare. Anche la stessa Chascona, sita nella capitale e distante un centinaio di km dal mare, oggi sede della Fondazione intitolata al Poeta. Questa casa egli se la trovò tra i piedi dopo essersi sposato con Matilde Urrutia, sua terza moglie, che era la vera proprietaria. Il Poeta, comunque, riuscì a trasformarla in una casa-nave, bagnata dalle acque del fiume Mapocho. La corredò poi come le altre due case: con quella infinita serie di oggetti stravaganti, apparentemente inutili, comprati un po’ dappertutto nel mondo.
Nelle sue case-isola il Poeta ci ficcò l’inimmaginabile per una casa normale, oggetti inutili alla normale quotidianità del fare, ma necessari alla creatività della poesia. A Valparaiso, ne La Sebastiana, considerata ormai da tutti come la Casa dei poeti e dei marinai di tutto il mondo, quelli del vero mare e quelli di “tierra”, come si riteneva essere il Poeta, su, al quarto «piso» (piano), c’è un abitacolo con carte nautiche, isolari, portolani, un sestante, un timone, una bussola, tutti oggetti che ti fanno sentire di stare nella cabina di comando di una nave.
Ma la casa alla quale il Poeta fu legato più a lungo fu quella di Isla Negra (Isola Nera), la casa-mare, la casa-nave, la casa-isola, situata sulla spiaggia, e quasi dentro lo strepitoso Oceano, da cui presero il volo alcune tra le sue più belle poesie, come questa, tratta da “Cien Sonetos de Amor”: «Mentre l’enorme spuma d’Isla Negra/ il sale azzurro, il sole nell’onde ti bagnano,/ io osservo i lavori della vespa/ impegnata nel miele del suo universo.// Va e viene equilibrando il suo volo retto e biondo/ come se scivolasse da un fil di ferro invisibile/ l’eleganza del ballo, la sete della sua cintura/ e gli assassinii del pungiglione maligno.// Di petrolio e d’arancia è il suo arcobaleno,/ cerca come un aereo tra l’erba,/ vola con rumore di spiga, sparisce,// mentre tu esci dal mare, nuda,/ e torni al mondo piena di sale e di sole,/ statua riverberante e spada dell’arena».
È noto che l’opera fondamentale del Poeta è “Canto General de Chile”, un poema complesso e lungo, per la stesura del quale occorsero molti mesi e perfino anni. Nella sua autobiografia, il Poeta così ricorda quel tempo: «Avevo bisogno per questo di un posto di lavoro. Trovai una casa di pietra di fronte all’oceano, in un luogo a tutti sconosciuto, chiamato Isla Negra. Il proprietario, un vecchio socialista spagnolo, capitano di nave, don Eladio Sobrino, la stava costruendo per la sua famiglia, ma accettò di vendermela. Ma come comperarla? Offrii il progetto del mio “Canto General”, ma fu respinto dalla Editorial Ercilla, che allora pubblicava le mie opere. Con l’aiuto di altri editori, che pagarono direttamente il proprietario, potei finalmente comperare nel 1939 la mia casa di lavoro ad Isla Negra».
In questa casa-isola, l’11 settembre 1973, già prostrato da un tumore alla prostata, il Poeta stava scrivendo le sue memorie quando vide alla televisione il palazzo presidenziale – la Moneda – bombardato con all’interno il suo amico e compagno presidente legittimamente eletto, Salvador Allende. Il suo cuore non resse più e dodici giorni dopo quell’evento, il 23 settembre 1973, Ricardo Eliecer Neftalì Reyes Basoalto y Sachka morì in una clinica di Santiago col nome di Pablo Neruda.