Ogni volta che veniva mandata a salutare la Signora Elsa, la bambina sostava
nella modesta ma ordinatissima stanza che costituiva, al tempo stesso, sala
e anticamera di un piccolo alloggio di ringhiera.
L’arredamento, che risaliva agli anni quaranta, era simile ad altri di quel
palazzo ove si svolgeva, con un sentimento di solidale appartenenza, la vita
di molte famiglie che cominciavano ad uscire con dignità dalle ristrettezze
del dopoguerra, volgendo un timido interesse verso beni di consumo considerati
impensabili, pochi anni prima. Anche la casa della Signora Elsa aveva subito
qualche piccola modifica di cui era orgogliosa: un frigorifero, la cucina
“all’americana”, con gli armadietti in formica e il televisore, che un’oculata
amministrazione, riconsiderata ogni giorno allentando o stringendo i cordoni
della borsa, aveva consentito alla famiglia di acquistare, in una lunga prospettiva
di rate mensili che avrebbero decurtato l’unico stipendio del marito, impiegato
all’Azienda del Gas.
Ma una cosa non avrebbe mai modificato, la signora Elsa, una cosa che occupava
il posto d’onore dietro i vetri pulitissimi del buffet di legno, impiallacciato
in radica, della sala anticamera del piccolo alloggio di ringhiera; una cosa che
la bambina ogni volta, da che ne aveva ricordo, osservava con desiderio
destinato a rimanere inappagato: una grande scatola di cioccolatini, con la
carta trasparente un po’ ingiallita, il nastro rosa appannato dalla fissità del
tempo e, forse, dalle dita della Signora Elsa, che tante volte lo avranno
sfiorato con una carezza.
Era la scatola di cioccolatini che il suo amante, un sottufficiale dei carabinieri,
le aveva donato prima di assentarsi qualche giorno per motivi di servizio, durante
il quale avrebbe perso disgraziatamente la vita. Recandosi da lei tutte le
mattine alla solita ora, dopo l’uscita del marito, con il cappello della divisa sotto
il braccio e un mazzolino di fiori nell’altra mano, egli percorreva tutta la
ringhiera.
Era diventato una figura familiare per le vicine che, in analoga condizione di
sacrificio sull’altare della famiglia, vedevano forse un occasione di riscatto
in quella storia d’amore vissuta indirettamente dietro le tendine, profusa di
quieta naturalezza, come qualcosa che le regole sociali e le restrizioni della
legge non consentivano di vivere diversamente. Un legame accettato,
condiviso, rassegnato all’indissolubilità del rispettivo vincolo, ma dal quale
gli amanti traevano una serenità che si diffondeva benignamente a tutti:
al marito di lei, alla moglie di lui, ai conoscenti, una luce che illuminava le
loro vite perdurando, di giorno in giorno, fino al nuovo mattino, con buona
pace di tutti.
La bambina teneva per sé le sue domande, come a quel tempo i bambini erano
educati a fare, intimidita dalla percezione di un segreto che tutte, nel
caseggiato, custodivano parlando sottovoce, continuando per anni a tributare
alla Signora Elsa rispetto e attenzioni silenziose, per confortarla di una
perdita che era anche la loro.
La bambina non poteva ricordare la risposta che la grande scatola di cioccolatini
nascondeva: era troppo piccola quando il funerale solenne, con bandiere,
divise, la banda e la vedova in gramaglie, passò davanti alla casa della Signora
Elsa. Le vicine, per onorare il defunto avevano disteso i copriletti al balcone
come per la processione del Corpus Domini, dopo aver addobbato il portone
del caseggiato con tutte le piante in vaso disponibili.
Né poteva ricordare, che la Signora Elsa, vedova d’amore, vestita a lutto,
si unì al funerale sorretta dal suo coro al femminile... e a tutti parve naturale
che venisse diviso nella morte ciò che fu diviso in vita.
La bambina poteva solo continuare a guardare la scatola dentro la vetrina
sulla quale, dietro di lei, si rifletteva l’espressione pacata della Signora Elsa,
che aveva continuato la sua vita senza dare scossoni, coprendo di silenzio,
ma non d’oblio, il tesoro che l’aveva resa così ricca di doni.