Sono molte le
“piccole rivelazioni ” che mi sono portata a casa dall’intensa relazione che
venerdì scorso Antonio Preti ha tenuto al centro Convegni Monte Verità, nella
magica cornice del lago di Ascona, in quel pezzo di terra ticinese che ancora
brilla dell’energica vitalità che alcuni eutopici profeti dei primi del 900
hanno lì portato e lì lasciato.
Non a caso il tema
era “la Nostalgia”, quel “dolore del ritorno” a cui un medico svizzero ( mi si perdoni se
non ricordo il suo nome) diede la dignità di un sentimento umano, più o meno negli
stessi anni dell’insediamento della folle comunità – ironicamente
soprannominata dei balabiòtt – al Monte Verità.
E’ infatti solo nel
1867 che la parola “nostalgia” appare in un dizionario, prima la si poteva
trovare, con altri nomi e come patologia, solo nei capitoli di medicina
militare e ,
successivamente, coloniale.
Strana vita ha “la
malattia”, che rimane tale sino a quando qualcuno non le dà voce e sentimento,
la sola vera cura che cura l’umano, così che la luce della Coscienza e della Conoscenza
arriva ad illuminare quel buio che ammalia e ammala, quel buio che vive e si
nutre dell’ignorare quel che siamo e che da sempre giace inciso nel marmo della memoria dei
templi e dei tempi.
Nostalgia come
reversibilità dello spazio e irreversibilità del tempo; desiderio di voler
tornare in un tempo che non c’è più, lo spazio c’è ancora,( quella casa, quel
luogo nel bosco, quella trottola ...),
ma forse, oggi, anche lo spazio diventerà irreversibile come il tempo, tanta è
la velocità che ci porta a distruggere quel che siamo e che abbiamo con tanta fatica
edificato.
E’ un dolore per me
vedere esseri - non ancora umani - spaccare con trapani e picconi le meravigliose e
sacre costruzioni che fanno parte della comune memoria.
Mnemosine in nove
notti d’amore con Giove dà alla luce le nove Muse, se le Arti non sono
attraversate dalla Memoria, arte non sono, perché Arte è dare presenza a quel
che non c’è, ed è di
questo che noi siamo fatti, di assenza o, come dice il sommo Poeta inglese : della stessa sostanza dei sogni.
Ma anche Baudelaire
dice che la Poesia è completamente reale,
perché vera in altra
dimensione, che è la dimensione della
Nostalgia.
Nostalgia di un luogo in cui ancora non
siamo stati, scrive Hermann
Hesse, sì, perché è proprio
dall’assenza che nasciamo e diveniamo.
Siamo figli della
Nostalgia, ma figli ingrati.
La riempiamo di
cose, affastelliamo tutto e il più velocemente possibile, tutto dentro, alla rinfusa, credendo che così ci libereremo per sempre di
ogni nostra umana memoria.
Ma siamo dei poveri
illusi, c’è sempre un archeologo che aprirà quella porta e, come nella tomba di
Tutankamen, quei nostri reperti tornano tesori, ori argenti e mirra che avevamo dentro
e in dono e che abbiamo sacrificato per la paura dell’assenza, del vuoto, che è
invece sostanza e Vita.
Se non iniziamo a
dialogare con l’Invisibile non sopraviveremo, è lì dentro che vive quel che ci
trasforma, che ci appartiene, a cui siamo indissolubilmente legati. Api dell’invisibile, scrive un altro Poeta, Rilke, saper
sottrarre ogni cosa e noi stessi alla caducità, al
deperimento per depositarci e depositare in altra arnia: invisibile.
La Poesia è sorella
della Nostalgia, oltre che della Pazzia.
Perché la Poesia è
rischio di dire quel che non si può dire, è un’intensità della lingua che ci trascina
sempre e che sempre ci chiama all’ospitare quel che non c’è più e non ancora.
C’è qualcosa di più bello di una bella cosa,
e sono le rovine di una bella cosa.
E’ in quelle rovine
che viviamo, viviamo ancora con quella bambola, con quell’orma di nostro padre
seduto sul letto la sera, con quello sguardo materno, con quel primo bacio.
Non è un optional
quel che Proust fece, ricercare il tempo perduto.
Siamo fatti di
tempo consumato, di addii irrevocabili, siamo nutriti d’assenza.
Siamo il mandala
colorato costruito nella sabbia, ma prego ogni giorno per non essere e fare
come i generali cinesi, che camminarono sopra i mandala tibetani, costruiti con
quella mitezza che sa accogliere la violenza, che sa allargare le braccia al
nemico, pur sapendo che quelle braccia potrebbero essere subito incatenate e
anche brutalmente sacrificate e uccise.
Diveniamo violenza
a causa di quel che di noi uccidiamo, ciecamente spacchiamo sigilli e statue
per esserci scordati che siamo ombre, ma disegnate dalla Luce.
Una luce che
illumina il cammino dove tutti camminiamo, dove vive il dialogo, il solo luogo
dove può avvenire il miracolo della relazione umana e divina di un Io con un
Tu.
...
patrizia gioia
i semi della gioia
marzo 2015