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Il futuro del centro-sinistra
La Rivoluzione Politica di Bernie Sanders e il “Socialismo New Deal”
Filippo Boatti

 

Nelle primarie americane, che vedono contrapposti sempre più nettamente establishment e protesta, Bernie Sanders è in grande rimonta, avendo vinto sette delle otto ultime primarie democratiche (ultimo il Wisconsin mentre scrivo), e il fatto che rimangano gli stati liberal, essendosi già svolte le votazioni negli stati più conservatori, avvantaggia sicuramente lo sfidante. Le recenti vittorie sono state clamorose, con lo stato di Washington (con città come Seattle) che ha votato per Sanders con oltre il 70%, aggiudicandosi inoltre le Hawaii (casa di Obama) e lo Utah con l'80% mentre Clinton ha vinto solo in Arizona - e ad oggi non si può escludere che continuando con questo ritmo riesca ad agganciare la rivale in termini di delegati vincolati (“pledged delegates”). Poi si aggiungeranno i superdelegati - che sono burocrati di partito delegati di diritto che possono sovvertire il risultato del voto popolare, lo dico giusto a beneficio del nostro ineffabile teorico del partito leggero, modellato a suo dire su quello dei democratici americani, Walter Veltroni. I superdelegati parteggiano quasi tutti per la Clinton ma possono cambiare idea, specie in quegli stati dove Sanders si impone con percentuali schiaccianti di voto popolare (come accadde già per Obama, sempre ai danni di Hillary Clinton). Oggi è più improbabile che questo accada perché per la Clinton, quasi predestinata alla Casa Bianca per diritto dinastico, un nuovo fallimento sarebbe senza appello. Ma tant'è, la sua corsa era cominciata come una incoronazione senza sfidanti, e oggi si trova di nuovo a far fronte a un agguerrito avversario che la insidia. Anche se finora lo scontro fra Clinton e Sanders è stato piuttosto pacato, teso ma giocato sul filo dei contenuti (molti dei quali condivisi) e non sull'attacco personale (come è avvenuto penosamente in campo repubblicano), è chiaro che Hillary sente la pressione dello sfidante e che la corsa si sta scaldando e il risultato seppure “indirizzato” dalla netta propensione dell'apparato di partito, non è più scontato. Oggetto del contendere, l'attacco alla grande ricchezza e la regolamentazione di Wall Street.

Stati come New York (in aprile) e la California (a giugno, con quasi 500 delegati in palio) saranno decisivi ed è probabile la vittoria di Sanders in California. Del resto per quanto Hillary Clinton appaia come “inevitabile”, non è la favorita nei sondaggi contro i repubblicani (Sanders batte più nettamente della Clinton tutti gli avversari diretti, da Trump in giù). Mentre Clinton faticherebbe con Cruz ed è addirittura data come perdente contro Kasich (il “moderato” governatore dell'Ohio, nel senso che pur essendo conservatore è dotato di decenza e raziocinio a differenza degli altri candidati repubblicani, “i matti” li chiama Obama). Nonostante questo sia noto, e ne abbiano parlato perfino i servili media italiani, si sa come funzionano gli apparati di partito: devono portare la palma della nomination a Hillary succeda quel che succeda (sempre sottolineato a beneficio del grande teorico del copiare male il modello americano, Walter Veltroni). Ma se per lo sfidante ottenere la nomination democratica appare possibile ma difficile, il fatto ancora più importante è l'incredibile successo della campagna di Sanders che, come nota l'economista Thomas Piketty, cambia totalmente le carte in tavola e condiziona in modo decisivo il programma della Clinton (che ha già detto, per esempio, sotto la pressione della base democratica, che si opporrà al TTIP). I cuori e le menti del partito democratico sono attratti dalla ventata di novità e di (autentico) spirito americano che soffia dalla campagna dello sfidante: per esempio Sanders ha il sostegno della maggior parte dei veterani di guerra, di cui si è molto occupato, ciò che gli garantisce anche il rispetto degli avversari. Se fosse percepito come un radical alla Nader, infatti, non sarebbe andato molto lontano. Mentre la parola “socialismo”, purché “democratico”, non fa più paura a nessuno, perché i tempi sono cambiati, e anche perché il candidato è stato bravo a non associarla a massimalismi di sorta, ma a un programma concreto che guarda ai giovani e alla middle class la cui proverbiale prosperità, come ci ha ricordato pochi anni or sono il bellissimo film di Michael Moore “Capitalism: a Love Story”, è entrata in crisi. Nonostante la ripresa economica generata dalla politica obamiana di investimenti pubblici, e dalle politiche espansive della Fed, ancora poco è stato fatto sul piano della redistribuzione e sul contrasto all'enorme disuguaglianza, in specie nel contrasto al potere del mitico 1% più ricco: la nuova superclasse dei “billionaires”, come li chiama Bernie, contro lo strapotere dei quali l'attuale establishment politico mondiale non solo non fa nulla, ma appare totalmente complice e asservito.

 

Un articolo del New Yorker di novembre coglie bene la particolare cultura di Sanders che si ispira idealmente alle più avanzate socialdemocrazie europee ma riconnettendosi solidamente alle principali, e tuttora insuperate, esperienze di redistribuzione americane: il New Deal di Roosevelt, con le sue protezioni sociali (salario minimo, pensioni, la settimana lavorativa di quaranta ore e le regolazioni all'economia finanziaria con la legge Glass-Steagall) e l'alto livello di tassazione di Eisenhower.

 

Cosa intendo io per essere socialista? - ha recentemente chiosato Sanders: - di certo sono meno socialista di Eisenhower! Facendo sorridere e applaudire l'uditorio, Sanders alludeva al fatto che lui alzerebbe sì il livello della tassazione in modo progressivo, per sostenere un ampio programma di riforme sociali, ma non fino al 92% in vigore sotto la presidenza Eisenhower. Altri notano somiglianze con la capacità di manovra parlamentare di Lyndon B. Johnson, il presidente che noi ricordiamo come tragicamente impantanato nella guerra del Vietnam ma che sul piano interno fu uno dei più progressisti, riuscendo a portare a termine le riforme sociali di Kennedy rimaste interrotte con la politica della “Great Society” (l'ideale completamento del New Deal) che portò agli americani il primo sistema sanitario universale (il Medicare, valido solo per gli over 65) in vigore senza modifiche fino all'Affordable Care Act di Obama (noto come Obamacare) che con un complesso sistema di estensioni assicurative obbligatorie garantite da un modesto aumento delle tasse sulle fasce più ricche, e pure in parte incompleto per la feroce opposizione dei repubblicani, è riuscito a dare copertura sanitaria a molti altri milioni di americani precedentemente esclusi. Sanders è infatti un politico molto abile a livello parlamentare, capace di ottenere, da senatore indipendente al Senato, molti successi trasversali, votando spesso quello che gli interessa assieme ai democratici e a quei repubblicani rimasti dotati di decenza e raziocinio. Il modello sanitario americano rimane però tuttora il più dispendioso, iniquo e inefficiente nei paesi avanzati, e Sanders si propone di estenderlo e razionalizzarlo con un sistema di sanità universale di tipo europeo (sostenuto negli anni novanta dalla stessa Hillary).

 

Di pari passo al programma sociale, e anzi come sua premessa indispensabile, c'è quello che Sanders chiama la “rivoluzione politica”. Che è in realtà una rivoluzione “della” politica per come funziona oggi negli Stati Uniti (ma non solo negli USA , naturalmente, ed è quello che a noi interessa) ostaggio delle lobbies e del “Big Money”, i grandi interessi finanziari che condizionano la politica, corrompono i candidati e le campagne elettorali. “America needs a political revolution” dice Sanders. Forse un socialista nordamericano qualche anno fa non avrebbe potuto esprimersi in questo modo senza suscitare equivoci. Ma gli elettori statunitensi, sempre più disgustati da quello che offre la politica dell'establishment, hanno capito benissimo che Sanders non allude a improbabili cavalli cosacchi che si abbeverano nel Potomac. Ma a una politica da liberare dal ricatto delle lobbies finanziarie e delle grandi ricchezze (moneyed interests) e da restituire nelle mani del popolo e dell'autentico “sogno americano”.

 

Sanders si ricollega dunque direttamente a cose che per quanto siano socialiste, in America esistevano già e sono state seppellite da quarant'anni di rivoluzione conservatrice: i controlli sull'economia finanziaria garantiti dalla legge Glass-Steagall, definitivamente abrogata, ahinoi, proprio da Bill Clinton. E una tassazione progressiva più equa in grado di finanziare gli studi superiori e universitari a chi non se li può permettere (invece di indebitarsi vita natural durante per poter studiare, come succede oggi). Roosevelt, Eisenhower, John e Robert Kennedy, e Lyndon Johnson avevano infatti capito che solo un forte governo e il contrasto alla povertà con vasti programmi di politiche sociali potevano garantire un adeguato contropotere all'enorme potere della ricchezza. E' una lezione che a noi interessa moltissimo nella infelice e incompiuta Unione Europea.

 

Per questo il candidato Sanders rifiuta i contributi elettorali delle grandi lobbies, non ha un “Super-PAC” (cioè un manager che cura la raccolta fondi dei grandi donatori della campagna elettorale) e raccoglie milioni di dollari in piccole donazioni, tutto da privati cittadini che contribuiscono con pochi dollari, e da piccole organizzazioni sindacali (nell'ordine di poche migliaia di dollari le donazioni più grandi) come il sindacato dei pompieri, il sindacato degli infermieri ecc. Ha fatto un capolavoro politico costruendo un partito nel partito che si muove sulle sue gambe, entusiasmando i giovani.

 

Pur essendo ebreo (il primo candidato ebreo a competere seriamente per la Casa Bianca) si sente molto vicino all'umanesimo di Papa Francesco e sulla sua bacheca facebook condivide un pensiero di Francesco: “la disuguaglianza è la radice del male sociale”. Ma è proprio la crescente disuguaglianza che sta cambiando le priorità e la percezione dei diritti sociali, mettendo per la prima volta seriamente alle corde il tradizionale individualismo americano.  Scrive il commentatore politico Bhaskar Sunkara sul Washington Post:

 

“Pignoramenti, disoccupazione, oneri del debito - per milioni di elettori di Sanders, questi non sono più visti come problemi individuali o il risultato di errori personali. Invece, gli elettori oggi reagiscono all'incalzare di debiti e scadenze con la consapevolezza che le difficoltà che devono affrontare non sono colpa loro, e che meritano più di quello che stanno ottenendo. Cercano soluzioni collettive ai problemi sociali, piuttosto che tirarsi su coi soli propri mezzi come è stato loro raccontato per anni”.

 

E oggi proprio le rivelazioni sui “Panama Papers”, osserva l'Independent, potrebbero dare una spinta decisiva alla campagna presidenziale di Sanders: sebbene nessun politico americano sembri coinvolto, almeno per ora, è Hillary Clinton, avvertita come assai più vicina all'establishment finanziario di Wall Street, che potrebbe fare le spese del moto di indignazione verso i privilegi intollerabili di una élite politico-mediatico-finanziaria senza decenza né controllo: gli Stati mandano avanti le loro sempre più traballanti finanze a spese dei soliti noti, operai, precari, salariati e dipendenti pubblici, mentre i detentori di grandi ricchezze praticano l'evasione fiscale in modo sistematico e nella totale impunità e complicità dei governi.

 

Per questo, comunque vada a finire, mentre la campagna per la nomination verso la Casa Bianca sta entrando nel vivo, e Hillary cerca di gestire il suo vantaggio numerico che si assottiglia, fino alla convention democratica di luglio, la battaglia per il controllo del “core business” del partito democratico americano è appena iniziata: con Obama è iniziato un processo di spostamento a sinistra del partito e di opposizione alle pretese dell'establishment di imporre le candidature, che ha trovato in Sanders l'interprete ideale di un nuovo spirito socialdemocratico. Fra gli intellettuali, l'autorevole Robert Reich già segretario al Lavoro della presidenza Clinton appoggia oggi Sanders. E molti giovani supporter, staffisti e attivisti della campagna di Sanders rimarranno positivamente segnati da questa importante esperienza, come già fu otto anni fa con quella di Obama, e porteranno nei prossime anni le loro energie nell'impegno per più energiche riforme sociali. Come Marx aveva ipotizzato, è dai paesi dove il capitalismo è più avanzato, quelli di lingua anglosassone che hanno imposto al mondo il liberismo e la finanziarizzazione dell'economia, che la forma attuale del capitalismo è messa più seriamente in discussione.

 

Veniamo infine a noi e al nostro interesse. Qual è in tutta questa storia il nostro interesse diretto, di europei attanagliati da politiche depressive di austerità che sembrano una discesa agli inferi senza ritorno? Naturalmente a noi interessa, in primo luogo, che un Repubblicano non diventi l'inquilino della Casa Bianca, che sarebbe una sciagura. Ma ci interessa anche, e soprattutto, che i temi lanciati dalla campagna di Sanders, di una vigorosa contestazione e riforma del capitalismo e dei suoi guasti entrino nell'agenda della politica europea. Una presidenza Trump sarebbe un disastro interplanetario. Una presidenza Cruz, un altro bigotto estremista, non sarebbe meglio. Una presidenza Clinton, tuttavia, non sarebbe per noi così rassicurante, almeno per come l'abbiamo conosciuta finora. Sappiamo che la dottrina in politica estera della Clinton è imperialista, e che da Segretario di Stato Hillary ha indotto Obama in errore sulla Libia e sulla Siria. E che Obama si è risollevato in politica estera, dopo questi disastrosi errori, solo quando si è liberato della pesante ipoteca clintoniana e ha fatto di testa sua. Per noi insomma, sperando che Hillary abbia imparato la lezione della “dottrina Obama” che punta sul multilateralismo e sul costruire rapporti basati su impegnativi accordi, come con l'Iran e Cuba, una presidenza Clinton non sarebbe una passeggiata. Abbiamo perciò bisogno che Sanders consolidi il suo risultato e che lo possa far pesare anche in caso di sconfitta, e che Hillary prenda impegni precisi sia con il movimento di Sanders in cambio del suo appoggio, sia con il presidente uscente Barack Obama di cui, spergiura, vuole seguire le orme: auguriamoci che dica sul serio.

 

Filippo Boatti

6 aprile 2016

 

Link:

Bernie Sanders’s New Deal Socialism – di Jedediah Purdy, The New Yorker, 20/11/2015:

http://www.newyorker.com/news/news-desk/bernie-sanderss-new-deal-socialism

 

The Sanders Democrat is paving the wat for the radical left – di Bhaskar Sunkara, Washington Post del 25/3/2016: https://www.washingtonpost.com/news/in-theory/wp/2016/03/25/the-sanders-democrat-is-paving-the-way-for-the-radical-left/

 

The Panama Papers could hand Bernie the keys to the White House – di Matthew Turner, The Independent, 6 aprile 2016: http://www.independent.co.uk/voices/the-panama-papers-could-hand-bernie-sanders-the-keys-to-the-white-house-a6969481.html

 

Il programma di Bernie Sanders: www.berniesanders.com/issues

Da segnalare l'ampia parte dedicata al contrasto ai cambiamenti climatici.

 

Piketty sulla campagna di Sanders: http://www.lemonde.fr/idees/article/2016/02/13/le-choc-sanders_4864744_3232.html

 

Bernie Sanders aveva previsto i Panama papers, nel 2011, (da Internazionale):

http://www.internazionale.it/notizie/2016/04/05/bernie-sanders-panama-papers

 

 

06/04/2016 15:11:37
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