Nelle primarie americane, che vedono contrapposti sempre più
nettamente establishment e protesta, Bernie Sanders è in grande rimonta, avendo
vinto sette delle otto ultime primarie democratiche (ultimo il Wisconsin mentre
scrivo), e il fatto che rimangano gli stati liberal, essendosi già svolte le
votazioni negli stati più conservatori, avvantaggia sicuramente lo sfidante. Le
recenti vittorie sono state clamorose, con lo stato di Washington (con città
come Seattle) che ha votato per Sanders con oltre il 70%, aggiudicandosi
inoltre le Hawaii (casa di Obama) e lo Utah con l'80% mentre Clinton ha vinto
solo in Arizona - e ad oggi non si può escludere che continuando con questo
ritmo riesca ad agganciare la rivale in termini di delegati vincolati (“pledged
delegates”). Poi si aggiungeranno i superdelegati - che sono burocrati di
partito delegati di diritto che possono sovvertire il risultato del voto
popolare, lo dico giusto a beneficio del nostro ineffabile teorico del partito
leggero, modellato a suo dire su quello dei democratici americani, Walter
Veltroni. I superdelegati parteggiano quasi tutti per la Clinton ma possono
cambiare idea, specie in quegli stati dove Sanders si impone con percentuali
schiaccianti di voto popolare (come accadde già per Obama, sempre ai danni di
Hillary Clinton). Oggi è più improbabile che questo accada perché per la
Clinton, quasi predestinata alla Casa Bianca per diritto dinastico, un nuovo
fallimento sarebbe senza appello. Ma tant'è, la sua corsa era cominciata come
una incoronazione senza sfidanti, e oggi si trova di nuovo a far fronte a un
agguerrito avversario che la insidia. Anche se finora lo scontro fra Clinton e
Sanders è stato piuttosto pacato, teso ma giocato sul filo dei contenuti (molti
dei quali condivisi) e non sull'attacco personale (come è avvenuto penosamente
in campo repubblicano), è chiaro che Hillary sente la pressione dello sfidante
e che la corsa si sta scaldando e il risultato seppure “indirizzato” dalla
netta propensione dell'apparato di partito, non è più scontato. Oggetto del
contendere, l'attacco alla grande ricchezza e la regolamentazione di Wall
Street.
Stati come New York (in aprile) e la California (a giugno,
con quasi 500 delegati in palio) saranno decisivi ed è probabile la vittoria di
Sanders in California. Del resto per quanto Hillary Clinton appaia come
“inevitabile”, non è la favorita nei sondaggi contro i repubblicani (Sanders
batte più nettamente della Clinton tutti gli avversari diretti, da Trump in
giù). Mentre Clinton faticherebbe con Cruz ed è addirittura data come perdente
contro Kasich (il “moderato” governatore dell'Ohio, nel senso che pur essendo
conservatore è dotato di decenza e raziocinio a differenza degli altri candidati
repubblicani, “i matti” li chiama Obama). Nonostante questo sia noto, e ne
abbiano parlato perfino i servili media italiani, si sa come funzionano gli
apparati di partito: devono portare la palma della nomination a Hillary succeda
quel che succeda (sempre sottolineato a beneficio del grande teorico del
copiare male il modello americano, Walter Veltroni). Ma se per lo sfidante
ottenere la nomination democratica appare possibile ma difficile, il fatto
ancora più importante è l'incredibile successo della campagna di Sanders che,
come nota l'economista Thomas Piketty, cambia totalmente le carte in tavola e
condiziona in modo decisivo il programma della Clinton (che ha già detto, per
esempio, sotto la pressione della base democratica, che si opporrà al TTIP). I
cuori e le menti del partito democratico sono attratti dalla ventata di novità
e di (autentico) spirito americano che soffia dalla campagna dello sfidante:
per esempio Sanders ha il sostegno della maggior parte dei veterani di guerra,
di cui si è molto occupato, ciò che gli garantisce anche il rispetto degli
avversari. Se fosse percepito come un radical alla Nader, infatti, non sarebbe
andato molto lontano. Mentre la parola “socialismo”, purché “democratico”, non
fa più paura a nessuno, perché i tempi sono cambiati, e anche perché il
candidato è stato bravo a non associarla a massimalismi di sorta, ma a un
programma concreto che guarda ai giovani e alla middle class la cui proverbiale
prosperità, come ci ha ricordato pochi anni or sono il bellissimo film di
Michael Moore “Capitalism: a Love Story”, è entrata in crisi. Nonostante la
ripresa economica generata dalla politica obamiana di investimenti pubblici, e
dalle politiche espansive della Fed, ancora poco è stato fatto sul piano della
redistribuzione e sul contrasto all'enorme disuguaglianza, in specie nel
contrasto al potere del mitico 1% più ricco: la nuova superclasse dei
“billionaires”, come li chiama Bernie, contro lo strapotere dei quali l'attuale
establishment politico mondiale non solo non fa nulla, ma appare totalmente
complice e asservito.
Un articolo del New Yorker di novembre coglie bene la
particolare cultura di Sanders che si ispira idealmente alle più avanzate
socialdemocrazie europee ma riconnettendosi solidamente alle principali, e
tuttora insuperate, esperienze di redistribuzione americane: il New Deal di
Roosevelt, con le sue protezioni sociali (salario minimo, pensioni, la
settimana lavorativa di quaranta ore e le regolazioni all'economia finanziaria
con la legge Glass-Steagall) e l'alto livello di tassazione di Eisenhower.
Cosa intendo io per essere socialista? - ha recentemente
chiosato Sanders: - di certo sono meno socialista di Eisenhower! Facendo
sorridere e applaudire l'uditorio, Sanders alludeva al fatto che lui alzerebbe
sì il livello della tassazione in modo progressivo, per sostenere un ampio
programma di riforme sociali, ma non fino al 92% in vigore sotto la presidenza
Eisenhower. Altri notano somiglianze con la capacità di manovra parlamentare di
Lyndon B. Johnson, il presidente che noi ricordiamo come tragicamente
impantanato nella guerra del Vietnam ma che sul piano interno fu uno dei più
progressisti, riuscendo a portare a termine le riforme sociali di Kennedy
rimaste interrotte con la politica della “Great Society” (l'ideale
completamento del New Deal) che portò agli americani il primo sistema sanitario
universale (il Medicare, valido solo per gli over 65) in vigore senza modifiche
fino all'Affordable Care Act di Obama (noto come Obamacare) che con un
complesso sistema di estensioni assicurative obbligatorie garantite da un
modesto aumento delle tasse sulle fasce più ricche, e pure in parte incompleto
per la feroce opposizione dei repubblicani, è riuscito a dare copertura
sanitaria a molti altri milioni di americani precedentemente esclusi. Sanders è
infatti un politico molto abile a livello parlamentare, capace di ottenere, da
senatore indipendente al Senato, molti successi trasversali, votando spesso
quello che gli interessa assieme ai democratici e a quei repubblicani rimasti
dotati di decenza e raziocinio. Il modello sanitario americano rimane però
tuttora il più dispendioso, iniquo e inefficiente nei paesi avanzati, e Sanders
si propone di estenderlo e razionalizzarlo con un sistema di sanità universale
di tipo europeo (sostenuto negli anni novanta dalla stessa Hillary).
Di pari passo al programma sociale, e anzi come sua premessa
indispensabile, c'è quello che Sanders chiama la “rivoluzione politica”. Che è
in realtà una rivoluzione “della” politica per come funziona oggi negli
Stati Uniti (ma non solo negli USA , naturalmente, ed è quello che a noi
interessa) ostaggio delle lobbies e del “Big Money”, i grandi interessi
finanziari che condizionano la politica, corrompono i candidati e le campagne
elettorali. “America needs a political revolution” dice Sanders. Forse un
socialista nordamericano qualche anno fa non avrebbe potuto esprimersi in
questo modo senza suscitare equivoci. Ma gli elettori statunitensi, sempre più
disgustati da quello che offre la politica dell'establishment, hanno capito
benissimo che Sanders non allude a improbabili cavalli cosacchi che si
abbeverano nel Potomac. Ma a una politica da liberare dal ricatto delle lobbies
finanziarie e delle grandi ricchezze (moneyed interests) e da restituire nelle
mani del popolo e dell'autentico “sogno americano”.
Sanders si ricollega dunque direttamente a cose che per
quanto siano socialiste, in America esistevano già e sono state seppellite da
quarant'anni di rivoluzione conservatrice: i controlli sull'economia finanziaria
garantiti dalla legge Glass-Steagall, definitivamente abrogata, ahinoi, proprio
da Bill Clinton. E una tassazione progressiva più equa in grado di finanziare
gli studi superiori e universitari a chi non se li può permettere (invece di
indebitarsi vita natural durante per poter studiare, come succede oggi).
Roosevelt, Eisenhower, John e Robert Kennedy, e Lyndon Johnson avevano infatti
capito che solo un forte governo e il contrasto alla povertà con vasti
programmi di politiche sociali potevano garantire un adeguato contropotere
all'enorme potere della ricchezza. E' una lezione che a noi interessa
moltissimo nella infelice e incompiuta Unione Europea.
Per questo il candidato Sanders rifiuta i contributi
elettorali delle grandi lobbies, non ha un “Super-PAC” (cioè un manager che
cura la raccolta fondi dei grandi donatori della campagna elettorale) e
raccoglie milioni di dollari in piccole donazioni, tutto da privati cittadini
che contribuiscono con pochi dollari, e da piccole organizzazioni sindacali (nell'ordine
di poche migliaia di dollari le donazioni più grandi) come il sindacato dei
pompieri, il sindacato degli infermieri ecc. Ha fatto un capolavoro politico
costruendo un partito nel partito che si muove sulle sue gambe, entusiasmando i
giovani.
Pur essendo ebreo (il primo candidato ebreo a competere
seriamente per la Casa Bianca) si sente molto vicino all'umanesimo di Papa
Francesco e sulla sua bacheca facebook condivide un pensiero di Francesco: “la
disuguaglianza è la radice del male sociale”. Ma è proprio la crescente
disuguaglianza che sta cambiando le priorità e la percezione dei diritti
sociali, mettendo per la prima volta seriamente alle corde il tradizionale
individualismo americano. Scrive il
commentatore politico Bhaskar Sunkara sul Washington Post:
“Pignoramenti, disoccupazione, oneri del debito - per
milioni di elettori di Sanders, questi non sono più visti come problemi
individuali o il risultato di errori personali. Invece, gli elettori oggi
reagiscono all'incalzare di debiti e scadenze con la consapevolezza che le
difficoltà che devono affrontare non sono colpa loro, e che meritano più di
quello che stanno ottenendo. Cercano soluzioni collettive ai problemi sociali,
piuttosto che tirarsi su coi soli propri mezzi come è stato loro raccontato per
anni”.
E oggi proprio le rivelazioni sui “Panama Papers”, osserva
l'Independent, potrebbero dare una spinta decisiva alla campagna presidenziale
di Sanders: sebbene nessun politico americano sembri coinvolto, almeno per ora,
è Hillary Clinton, avvertita come assai più vicina all'establishment
finanziario di Wall Street, che potrebbe fare le spese del moto di indignazione
verso i privilegi intollerabili di una élite politico-mediatico-finanziaria
senza decenza né controllo: gli Stati mandano avanti le loro sempre più
traballanti finanze a spese dei soliti noti, operai, precari, salariati e
dipendenti pubblici, mentre i detentori di grandi ricchezze praticano
l'evasione fiscale in modo sistematico e nella totale impunità e complicità dei
governi.
Per questo, comunque vada a finire, mentre la campagna per
la nomination verso la Casa Bianca sta entrando nel vivo, e Hillary cerca di
gestire il suo vantaggio numerico che si assottiglia, fino alla convention
democratica di luglio, la battaglia per il controllo del “core business” del
partito democratico americano è appena iniziata: con Obama è iniziato un
processo di spostamento a sinistra del partito e di opposizione alle pretese
dell'establishment di imporre le candidature, che ha trovato in Sanders l'interprete
ideale di un nuovo spirito socialdemocratico. Fra gli intellettuali,
l'autorevole Robert Reich già segretario al Lavoro della presidenza Clinton
appoggia oggi Sanders. E molti giovani supporter, staffisti e attivisti della
campagna di Sanders rimarranno positivamente segnati da questa importante
esperienza, come già fu otto anni fa con quella di Obama, e porteranno nei
prossime anni le loro energie nell'impegno per più energiche riforme sociali.
Come Marx aveva ipotizzato, è dai paesi dove il capitalismo è più avanzato,
quelli di lingua anglosassone che hanno imposto al mondo il liberismo e la
finanziarizzazione dell'economia, che la forma attuale del capitalismo è messa
più seriamente in discussione.
Veniamo infine a noi e al nostro interesse. Qual è in tutta
questa storia il nostro interesse diretto, di europei attanagliati da politiche
depressive di austerità che sembrano una discesa agli inferi senza ritorno?
Naturalmente a noi interessa, in primo luogo, che un Repubblicano non diventi
l'inquilino della Casa Bianca, che sarebbe una sciagura. Ma ci interessa anche,
e soprattutto, che i temi lanciati dalla campagna di Sanders, di una vigorosa
contestazione e riforma del capitalismo e dei suoi guasti entrino nell'agenda
della politica europea. Una presidenza Trump sarebbe un disastro
interplanetario. Una presidenza Cruz, un altro bigotto estremista, non sarebbe
meglio. Una presidenza Clinton, tuttavia, non sarebbe per noi così
rassicurante, almeno per come l'abbiamo conosciuta finora. Sappiamo che la
dottrina in politica estera della Clinton è imperialista, e che da Segretario
di Stato Hillary ha indotto Obama in errore sulla Libia e sulla Siria. E che
Obama si è risollevato in politica estera, dopo questi disastrosi errori, solo
quando si è liberato della pesante ipoteca clintoniana e ha fatto di testa sua.
Per noi insomma, sperando che Hillary abbia imparato la lezione della “dottrina
Obama” che punta sul multilateralismo e sul costruire rapporti basati su
impegnativi accordi, come con l'Iran e Cuba, una presidenza Clinton non sarebbe
una passeggiata. Abbiamo perciò bisogno che Sanders consolidi il suo risultato
e che lo possa far pesare anche in caso di sconfitta, e che Hillary prenda
impegni precisi sia con il movimento di Sanders in cambio del suo appoggio, sia
con il presidente uscente Barack Obama di cui, spergiura, vuole seguire le
orme: auguriamoci che dica sul serio.
Filippo Boatti
6 aprile 2016
Link:
Bernie Sanders’s New Deal Socialism – di Jedediah
Purdy, The New Yorker, 20/11/2015:
http://www.newyorker.com/news/news-desk/bernie-sanderss-new-deal-socialism
The Sanders Democrat is paving the wat for the radical
left – di Bhaskar Sunkara, Washington Post del 25/3/2016: https://www.washingtonpost.com/news/in-theory/wp/2016/03/25/the-sanders-democrat-is-paving-the-way-for-the-radical-left/
The Panama Papers could hand Bernie the keys to the White
House – di Matthew Turner, The Independent, 6 aprile 2016: http://www.independent.co.uk/voices/the-panama-papers-could-hand-bernie-sanders-the-keys-to-the-white-house-a6969481.html
Il programma di Bernie Sanders: www.berniesanders.com/issues
Da segnalare l'ampia parte dedicata al contrasto ai
cambiamenti climatici.
Piketty sulla campagna di Sanders: http://www.lemonde.fr/idees/article/2016/02/13/le-choc-sanders_4864744_3232.html
Bernie Sanders aveva previsto i Panama papers, nel 2011,
(da Internazionale):
http://www.internazionale.it/notizie/2016/04/05/bernie-sanders-panama-papers