La lunga intervista (di V. Frezzato – La Stampa 06.05 us.)
al rettore dell’Università “Avogadro”, o del Piemonte Orientale , non ha
destato particolari attenzioni ovvero è stata semplicemente rubricata come voce
dal coro dei rinnovati entusiasmi civici per la Cittadella, or è benedetta
dall’annuncio di importanti finanziamenti pubblici.
Quei pochi, tuttavia che, extra moenia, si occupano
di Universià hanno avuto l’occasione di drizzare le orecchie per alcuni
passaggi del pur compassato Prof. Emanuel. Per coglierne novità e interesse, occorre fare,
classicamente, un piccolo passo indietro. Per brevi punti:
a) tenuto
conto del clima favorevole, centrale e periferico, al cosiddetto decentramento
territoriale delle strutture universitarie, già ampiamente consolidate nelle
sedi storiche, e facendo seguito ad alcuni “corsi seminariali” già dispensati
dall’Università di Torino, il Piemonte acquisì politicamente il diritto ad un
altro Ateneo, saltando a piè pari l’estremo tentativo di Torino di disporsi come Università “a rete” (tentativo
che, con una storia e esiti diversi, intraprese il Politecnico torinese). In un
modo o nell’altro era giunto il momento di soddisfare le aspettative periferiche
e in pari tempo governare la crescita dell’Università a Torino;
b) con
un “colpo di genio”, si fa per dire, inteso a massimizzare i consensi
periferici rispetto alle eventuali delusioni,
fu politicamente “inventato” l’Ateneo uno-e-trino del Piemonte
Orientale, onorato dall’intitolazione ad Amedeo Avogadro, disposto su tre sedi
di pari dignità (Alessandria, Vercelli e
Novara) con rettorato collocato a mezza via. I corsi di studio, umanistici,
scientifici e giuridico-economici, furono
ripartiti con sufficiente sagacia, pur con “pesi” e prospettive diversi
e infatti Vercelli si ebbe il rettorato in compensazione;
c) la
sempreverde querelle sul “torinocentrismo” fu così sedata, almeno su
questa importante materia, anche perché, in coerenza – ad un tempo obbligata ed
entusiastica – con il clima nazionale di
decentramento universitario e crescenti attese periferiche, entrambe le
Università, quella gloriosa e quella neonata, presero a istituire corsi
universitari, a loro volta decentrati, in diverse altre città piemontesi che
conquistavano così, di rimessa e con contributi economici significativi, una
bandierina universitaria;
d) la
vicenda non si può tuttavia concludere
con un “vissero felici e contenti” dal momento che, a cavallo del trapasso
secolare, i venti della diffusione universitaria (dovuta o indebita) sul
territorio presero a cambiare. Fu presto palese che il “sistema” – frutto di
esigenze riconosciute non meno che di colpi di mano di potentati locali – non
poteva reggere, né sotto il profilo della dignità organizzativa universitaria,
né quanto a reperimento affidabile di risorse economiche, centrali e
periferiche, idonee a consentire un minimo di consolidamento degli “esperimenti
innovativi”;
e) fu
pertanto giocoforza invertire, o quantomeno rettificare, il confuso processo
espansivo che, tra l’alto, aveva accentuato la concorrenza, tra Atenei e tra
sedi universitarie, secondo i meccanismi
della domanda-offerta di servizi e di prestigio accademico. Nessuno rimase
indenne dalla faticosa esigenza di ripensamento e ri-calibratura di sedi e
corsi di studio; neanche, è lecito supporre, il nostro Piemonte Orientale. Col
che ritorniamo ai tempi recenti.
Forzando un po’ i termini, ma non più di tanto, sembra di
poter dire, quanto al rilevante contesto ambientale (evolutivo o involutivo lo
decideranno i fatti), che l’aggregazione universitaria tripolare, o
tri-provinciale (AL-NO-VC), fu al principio una trovata positiva ma
artificiosa, nel senso che la contiguità geografica non rispecchiava che molto
parzialmente una ipotetica contiguità
socio-economica. E che tale contiguità, nel ventennio trascorso, si è
illanguidita anziché consolidarsi, non foss’altro per gli ostacoli frapposti
alle esigenze di trasporto di ogni utenza pendolare. Ed anche per la fine
ingloriosa delle Province che a questa
contiguità potevano eventualmente accudire
La reazione dell’Università Avogadro, alle esigenze di
riorientamento/razionalizzazione interna, ha preso tuttavia un indirizzo
quantomeno imprevisto e divergente dall’ipotesi iniziale: tre sedi con tre
dotazioni diverse di corsi di studio, per marcare, si presume, l’unitarietà
dell’Ateneo al di là della dislocazione non compatta. Si è cioè instaurato, più
che episodicamente, lo “sdoppiamento” dei corsi (giurisprudenza, lettere,
economia etc.) tra sedi diverse, prefigurando, se così si può dire, tre città
universitariamente “normodotate”, in termini di facoltà, e perciò suscettibili
di una possibile autonomizzazione, seppur vaga e lontana.
Può essersi trattato di scelta di percorso giusta e/o
necessaria, non si discute; certo non è stata percepibile a prima vista dalle
cittadinanze interessate.
Di qui l’interesse per le surricordate dichiarazioni del
rettore Emanuel che, per la prima volta, che qui si sappia, ha esternato
l’ipotesi di trasformare, a tempo e a
modo, l’attuale Ateneo tripolare in “due Università gemelle”. In chiaro: un polo
Novara-Vercelli ( con Novara evidente capofila) e un polo Alessandria.
E’ probabile che questa autorevole ipotesi sia già stata, e non da oggi, iscritta nei
fatti interni ed esterni all’Avogadro, ciò che spiegherebbe come la sua
comparsa in pubblico non abbia destato singulto alcuno E’ ben vero che, come
ricorda il rettore, “per statuto l’Ateneo è tripolare” e Alessandria, pertanto,
non rischia di perdere o compromettere la sua spettanza universitaria, ma la
“scissione cellulare” dell’Avogadro difficilmente potrebbe rimanere un dato
puramente formale, una questione di insegne e carta intestata. La piena
separazione consensuale sarebbe comunque dietro l’angolo indipendentemente dai
meccanismi attuativi.
Ma è proprio questa probabile conclusione che, ad
Alessandria, sembra accendere più attese che preoccupazioni, visto che, dalla
politica già in atto degli sdoppiamenti dei corsi, qui si attende, a mezza
voce, anche la facoltà di Medicina, presidio eminente, ab origine, di
Novara, città attualmente in pista per il secondo “Parco della salute”
piemontese dopo Torino. Per non dire che Medicina ad Alessandria si
intreccerebbe politicamente col ventilato Nuovo Ospedale di Zona: un coacervo
di speranze da far scintille e catturate l’attenzione politica (e i comunicati)
per almeno un decennio a venire.
Avviandoci a conclusione: se l’Università tripolare si è incamminata sulla strada della
doppia, bipolare autonomia gemellare, avrà avuto le sue buone ragioni
“interne”, sulle quali non stiamo a discutere. Il problema, per Alessandria, sarebbe quello di valutare,
e farsi una ragione, del “peso” delle motivazioni “esterne”, di natura
socio-economica e politica, quali possono emergere dal confronto pluriennale
tra le performance, di tenuta e
di sviluppo, del Novarese e dell’Alessandrino, ivi compreso il sostegno
all’Università delle comunità locali.
Senza attardarsi più di tanto sulle cosiddette “preferenze”
accordate a Novara dalla precedente Giunta regionale, che peraltro correrebbero ancora (vedi logistica) con la
Giunta attuale di tutt’altro colore politico. Lamentarsi senza capire, dati e
fatti alla mano, sempre che se ne disponga, non è normalmente una buona pratica,
specie se le differenti “velocità di comprensorio” sono largamente manifeste.
Un ultima notazione. Nell’intervista si è accennato anche al
tema, testè rilanciato dalle aperture finanziarie statale e regionale, della
Cittadella, del suo recupero e della rinnovata quanto informale offerta comunale
di ospitalità ed uso, in quel compendio militare, all’Università
alessandrina e/o a sue strutture di
supporto. Con tutto l’aplomb del caso, il Rettore ha lasciato intendere
che, extra didattica e ricerca, cioè in zona servizi agli studenti, qualcosa si
potrebbe forse immaginare, sempre che si arrivasse al concreto. In ogni caso –
buon per lui e per noi – ha escluso di volersi mai comprare la Fontana di
Trevi.