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Scuola e Università
La 'Buona Scuola' e le ripetizioni in nero
Giacomo Bandini (*)

   

(*) Se c’è un problema che la #BuonaScuola non sembra poter o voler risolvere è quello delle ripetizioni in nero. Secondo uno studio della Fondazione Luigi Einaudi di Roma il 90% delle prestazioni fatte da professori e altre tipologie di insegnanti al di fuori dell’orario scolastico avviene totalmente all’oscuro del Fisco italiano. Il totale sommerso ammonterebbe a più di 800 milioni di euro.

Osservando i dati l’OECD[1]  emerge che gli studenti italiani sono secondi soltanto ai russi per tempo dedicato alle attività scolastiche fuori dalla classe tra compiti, ripetizioni a pagamento e aiuto dei familiari nello studio. Un impegno nettamente superiore rispetto alla media OECD che impegna i giovani italiani per quasi 12 ore alla settimana oltre l’orario scolastico.

Nonostante questo livello d’impegno elevato nell’orario post scolastico, gli studenti italiani continuano ad investire molto nelle ripetizioni private post scolastiche per migliorare le proprie performance. Questo è sintomo di un sistema che non funziona, forse, non ha mai funzionato. Vediamo il perché.

La necessità di ricorrere massicciamente alle ripetizioni (1600 euro l’anno e più di 2 volte a settimana è la media per famiglia) [2] è la conseguenza di una programmazione scolastica che non tiene conto di più fattori:

– Allontanamento dello studente dal centro della scuola;

– Inadeguatezza dei programmi;

– Scarsa propensione alla competitività e alla meritocrazia;

– Difficoltà nel coniugare universo scolastico e universo lavorativo.

 

L’uso continuo delle lezioni private oltre l’orario scolastico che ci rende una realtà anomala rispetto agli altri paesi dell’OECD, è il palese segno di un sistema incapace di allineare l’impegno degli studenti ai risultati e capace di generare oneri aggiuntivi sulle spalle delle famiglie italiane.

Quando il mercato del lavoro già 20 anni fa richiedeva un adeguamento del sistema scolastico la risposta istituzionale fu semplicemente inesistente. Mentre le ICT si facevano largo e l’occupazione sarebbe andata sempre più in quella direzione, l’Italia continuava ad alimentare il divide fra i Licei, la cui programmazione andava pesantemente rivista, e gli Istituti tecnici che continuavano regolarmente a essere penalizzati.

Allo stesso tempo non si è mai posta il problema di affiancare seriamente l’attività scolastica a quella lavorativa in ottica futura, formando più menti ma meno mani. Tanto meno non vi fu alcuna visione rivolta a formare lo studente per accompagnarlo verso i nuovi processi competitivi richiesti dalla globalizzazione e da ciò che ne sarebbe seguito.

Anche se non sembra a un primo sguardo, tutta questa analisi è strettamente collegata ad un mercato delle ripetizioni sempre florido poiché la Scuola e gli insegnanti si sono deresponsabilizzati progressivamente di fronte al fallimento dell’alunno, escludendo i genitori e finendo per convincerli a loro volta di non avere alcun potere e dunque nemmeno alcuna responsabilità. Da qui il passo a rivolgersi ad un expertise esterna, ossia il bravo professore che aiuta con le ripetizioni, è breve. E la pesantezza fiscale fa il resto.

Quali soluzioni? Di sicuro non serve accanirsi né contro tutti gli insegnanti né contro le famiglie. È la Scuola che dovrebbe essere cambiata. E nel caso specifico si tratterebbe di applicare meglio, in modo più efficiente ed efficace la riforma stessa (Fioroni nda) che prevedeva attività volte al recupero degli studenti in difficoltà all’interno delle strutture scolastiche con due risultati prevedibili: evitare un’ulteriore spesa alle famiglie già gravate dalla fiscalità generale con cui pagano anche le rette scolastiche e diminuire il business sommerso da quasi 1 miliardo.

Un primo passo per garantire la sostenibilità di questo modello sarebbe aumentare lo stipendio degli insegnanti in relazione anche alle ore dedicate a seguire gli studenti bisognosi, costringendoli ad agire dentro gli appositi edifici scolastici. Allo stesso tempo potrebbe benissimo essere stabilito un regime di tassazione fissa sull’operato extra-orario di lezione in modo da recuperare la dovuta parte fiscale. In questo modo si potrebbe studiare un modello di assorbimento e integrazione nel sistema di quel numero di insegnanti e laureati in disoccupazione o in attesa, o magari potrebbe essere una discreta palestra per i giovani che intendano abilitarsi alla professione e vogliano anche impegnarsi per ottenere un beneficio economico aggiuntivo.

 

Chiaramente la riforma scolastica dovrebbe partire dalle fondamenta e arrivare alla punta dell’iceberg, ma porre un freno al dilagare di una pratica poco utile, dispendiosa e risolvibile in modo concreto è già un utile passo.

 

Sempre meglio che usare il solito slogan #vatuttobene #wlaBuonaScuola e poi vedere tutto come prima, quando non peggio.

 

[1] OECD 2013, PISA 2012 Results, What Makes School Succesful? (Volume IV): Resources, Policies and Practices.

[2] Studio della Fondazione Luigi Einaudi a cura di Pietro Paganini, Giacomo Bandini e Lorenzo Castellani, Roma, maggio 2016.

 

(*) L'articolo è stato scritto da Giacomo Bandini  (edito su 'Gli Stati Generali - 11.05.2016, uno  degli autori della ricerca della Fondazione Luigi Einaudi di Roma ( e  non Torino, come da me erronamente scritto nell'incipit del mio  articolo: quella è un'altra), che allarga la prospettiva e il significato della loro analisi. (e.b.)

 

 

 

21/06/2016 09:18:26
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