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Filoramo Giovanni. “Ipotesi di Dio” Il divino come idea necessaria (*)
Francesco Roat


“Dio è morto”, scriveva Nietzsche sul finire del XIX secolo, ma agli albori del XXI potremmo invece affermare che è ben vivo, quantomeno per gli esseri umani convinti della sua esistenza, i quali ammontano circa a oltre tre miliardi di individui. È pur vero, in ogni caso, che il termine Dio è vocabolo sempre ambiguo/enigmatico, il quale nei millenni è stato sin troppo usato e abusato. Martin Buber disse una volta che forse sarebbe opportuno fare a meno di un tale parola, a scanso di equivoci e fraintendimenti. Ma cosa si indica esattamente con il nome Dio? E, per contraccolpo, cosa significa oggi essere ateo? A queste domande, e a molte altre intorno al sacro, cerca di fornire delle risposte non scontate Giovanni Filoramo nel suo recente/interessante saggio intitolato: Ipotesi Dio. Il divino come idea necessaria (edito dalla Casa Editrice) il Mulino, cercando di fare chiarezza su un argomento a dir poco problematico.

Innanzitutto è forse opportuno precisare, come fa l’autore, che l’idea del divino non può essere riferibile ad un paradigma immutabile, in quanto: “essa include tutta una serie di significati, alcuni dei quali sono contraddittori o anche incompatibili tra loro. Per far solo un esempio, prendiamo il concetto di onnipotenza e quello di bontà/giustizia divina (vedi il mai risolto dilemma della teodicea). Difficile conciliare/giustificare infatti tali aspetti, perché ‒ insegna Epicuro ‒ non si scappa dalle seguenti possibilità: o Dio vuole eliminare il male ma non può, o può farlo ma non vuole, o non vuole e non può. Se egli pur volendo abolire i mali del mondo non vi riesce, ne consegue che è impotente; se può e non vuole, significa che Dio è indifferente; se non vuole e non può risulta disinteressato all’umana sofferenza e difetta dell’onnipotenza; se infine vuole e può, perché non toglie di mezzo il male una volta per tutte?

Resta che da millenni la divinità, come osserva/sintetizza Filoramo, rappresenta il simbolo di ciò che trascende l’uomo e insieme ciò che è “nascosto” nella sua più profonda essenza. Quindi noi ci sentiamo al contempo partecipi/solidali col mondo-universo e in un certo senso distinti da esso, che analizziamo e a cui guardiamo come un oggetto da esplorare/governare. La divinità pertanto diviene “simbolo vuoto” che le varie culture/religioni riempiono, attribuendogli nel corso della storia diverse, spesso molto dissimili caratteristiche. In questa prospettiva il Dio dei filosofi greci è tutt’altro da quello delle tre grandi religioni monoteistiche e tutt’altro ancora da come il divino/sacro è concepito dalla spiritualità tradizionale d’Oriente. Dio, inoltre, può essere la cifra metafisica per antonomasia della trascendenza (vedi i testi biblici) o quella dell’immanenza, se lo si considera attraverso l’ottica del panteismo.

Innumerevoli, nella storia della filosofia, sono stati i tentativi di dimostrare la esistenza/necessità di Dio. Tentativi frustrati già a partire da Kant. Né è servito a granché considerare Dio come infinito: “giacché tra ciò che è contingente/limitato e ciò che lo supera esiste una discontinuità incolmabile”. Del resto, sottolinea Filoramo, le cosiddette credenze religiose non nascono certo come tentativi di dimostrare alcunché a livello razionale, ma esprimono semmai un certo modo di porsi nei confronti dell’esistenza e della realtà, fornendo (cercando di fornire) loro un significato; tanto che potremmo anche definire le varie religioni quali grandi “riserve di senso” a cui l’uomo ha quasi sempre attinto nel tentativo di trovare una risposta ai quesiti basilari esistenziali.

E l’ateismo, come inquadrarlo, dato che esso non sarebbe mai esistito in mancanza del teismo: il suo gemello antitetico? Parlando di ateismo (termine che etimologicamente significa: senza Dio, privo di Dio, ovvero a-theos) si dovrebbe propriamente indicare un’assenza di credenza ‒ mi si perdoni il gioco di parole ‒ nella divinità, non già un’opposizione ad essa. Anche se spesso chi si dichiara ateo esprime un atteggiamento a dir poco polemico contro ogni forma di religione, che viene da molti vista in modo senz’altro negativo, come radice e seme di irrazionalismo, dogmatismo, fanatismo e intolleranza. Per quanto oggi, in Occidente se non altro, si assista sempre più al venir meno di una fede dogmatica nelle formule religiose tradizionali, che tendono a farsi sfrangiate, aperte alla contaminazione con altre credenze, divenendo più o meno sincretistiche o persino privatistiche: nel senso che in parecchi casi il soggetto postmoderno, o postsecolare che dir si voglia, lungi dall’aderire a questa o a quella chiesa, professa una propria peculiare religiosità/spiritualità, magari a sfondo mistico o ecologico e senza far riferimento ad alcuna figura divina privilegiata.

Il pluralismo religioso attuale, inoltre, è favorevole al confronto e al dialogo, forse giusto perché ‒ dice bene Filoramo ‒ nel terzo millennio (fondamentalismo islamico a parte): “nessuna religione è in grado di portare prove razionalmente convincenti della sua pretesa superiorità o unicità”. Così, di fronte all’enigma dell’inizio e della fine e al cospetto delle domande sul senso (o non senso) dell’esistere, le forme di religiosità, tradizionali o meno, paiono avere in comune sempre più un tratto nodale: “l’apertura a un’alterità misteriosa che trascende l’uomo, permettendogli di realizzarsi al di là della propria individualità effimera”.

 

 

 

(*)   -   Editore “Il Mulino”

04/08/2016 20:47:00
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