La scuola giù per terra: perché gli universitari italiani non sanno scrivere correttamente
Risale a pochi giorni fa la lettera aperta
che seicento tra docenti universitari,
accademici della Crusca e intellettuali hanno inviato al Governo e al Parlamento,
per richiedere “interventi urgenti”, capaci di rimediare alle gravissime lacune
in grammatica, sintassi e lessico riscontrabili in modo diffuso tra gli
studenti universitari e restituire al Paese una scuola esigente ed efficiente.
In realtà l’appello è semplicemente l’ultimo di una lunga serie di ricorrenti
segnali di allarme, che da molti anni compaiono sui quotidiani nazionali, senza
alcun risultato, se non un ulteriore peggioramento della situazione, giacché la
pessima padronanza della nostra lingua non è altro che l’epifenomeno di una più
generale e ormai quasi inemendabile crisi della scuola e della cultura italiane
nel loro complesso.
Possiamo identificare quali cause
principali di tale crisi, da quelle più circoscritte e quelle più generali: le
riforme della scuola elementare, a partire dal 1971; le modifiche normative e
di prassi nella scuola secondaria superiore; l’incapacità della scuola di ogni
ordine e grado di attrezzarsi con una didattica efficace dinanzi alla scuola di
massa; il disfacimento della cultura nell’età di internet e l’avvento della “società
liquida”, nella quale non vi è più un quadro valoriale condiviso, né
sopravvivono i Canoni culturali tradizionali (come attesta, tra le altre cose,
il Nobel per la Letteratura conferito recentemente a un sia pur grande
cantautore statunitense).
Quando nella lettera aperta
si fa menzione degli errori “appena tollerabili in terza elementare”, si
individua la prima vera causa dell’ignoranza di lessico, grammatica e sintassi
da parte degli studenti ( ma una analoga riflessione varrebbe per ogni altra
materia di studio), vale a dire la scuola elementare, così come è andata
configurandosi a partire dall’introduzione e poi diffusione massiccia del modello
del tempo pieno, scaturito inizialmente dal progetto di costruire il luogo arricchente e colto, nel quale i
figli della classe operaia avrebbero potuto giungere a possedere le mille
parole del padrone, secondo il celebre assunto di don Milani, “l’operaio
conosce cento parole, il padrone mille; per questo lui è il padrone”.
Certamente il tempo pieno aprì una stagione di inesausto impegno,
di diffuso associazionismo, di ricerca didattica, di letture e pubblicazioni,
di incontri, conferenze e condivisioni, che coinvolse gran parte di una
generazione di insegnanti elementari. Furono anni formidabili, nei quali
tuttavia si manifestarono, da un lato, una prima disgregazione dei Canoni,
sulla base della pretesa antinozionistica - come allora si disse – e
spontaneistica di produrre nuovo sapere, partendo dalle libere acquisizioni immediate
dei bambini, in un confuso intreccio tra pedagogia rousseauviana e mal compreso
socratismo; dall’altro, si strutturò un filone pedagogico fortemente legato
agli aspetti più vitalistici e ludici del ‘68 e poi del ’77, che tendeva ad
annullare il ruolo dell’insegnante e i contenuti, non soltanto, sebbene
soprattutto di tipo strumentale, per favorire la “creatività” degli alunni, in
un perenne e totalizzante “teatro-gioco-vita”. Si determinò allora un
rovesciamento tra metodi e contenuti, nel quale si persero completamente i
secondi, soprattutto se strumentali, in nome dei primi.
Dopo la metà degli anni
Ottanta, l’aspetto più arricchente di quella stagione, cioè l’impegno di
ricerca didattica dei docenti, fu spento dalla burocratizzazione degli incontri
di programmazione e di formazione (demandata poco alla volta a improbabili
“piattaforme on line”, omologate
all’ideologia del governo di volta in volta in carica) e dalla modificazione
dei Programmi Ministeriali, di orientamento cognitivi stico, nei quali fu
introdotta una collezione amplissima di micro-contenuti cogenti per ogni
materia, che, a prescindere dall’apparenza seriorissima, impediva di fatto ogni
consolidamento delle acquisizioni e assecondava la crescente tendenza della
società civile alla superficialità e al disimpegno.
L’uscita progressiva dalla
scuola di quella generazione di insegnanti generosamente, sebbene spesso
erroneamente, impegnati nell’innovazione didattica e l’arrivo di masse di
precariato mai valutato e spesso incompetente ha negli ultimi anni ridotto il
Tempo Pieno a una scuola nella quale gli intervalli sono di smisurata
lunghezza, le ore di lavoro effettivo ridottissime (addirittura minori di
quelle peculiari della scuola elementare del solo mattino), molti docenti sono
demotivati e/o impreparati, le materie fondamentali sono ridotte a causa di
innumeri progetti e spettacolini più o meno teatrali e le famiglie e i bambini
non sono in grado di comprendere la distinzione tra tempo della scuola e tempo
della vita. Da questa scuola, esce un’utenza i cui livelli di apprendimento
soprattutto, ma non soltanto, strumentale sono infimi, ancorché spesso sopravvalutati da
test Ocse e Invalsi, troppo frequentemente somministrati senza alcun efficace
controllo.
Se la scuola media inferiore
ha subito più o meno passivamente le successive, catastrofiche ondate di alunni
sempre meno preparati dal punto di vista cognitivo e sempre meno scolarizzati
dal punto di vista della condotta, la secondaria superiore è stata lentamente
devastata anzitutto dal proliferare di un numero abnorme di cosiddetti Progetti
Brocca, che hanno diversificato in modo amplissimo i tipi di curricola studiorum, talora sottraendo
spazi preziosi alle materie fondamentali; in secondo luogo, dalle successive
mini-riforme attuate dai vari governi di destra, di centro e di
centro-sinistra, orientate soprattutto ai risparmi di spesa (si pensi alla
Riforma dell’esame di Stato, nel periodo in cui la commissione è stata formata
soltanto da docenti interni, con una verticale caduta dell’efficacia delle
valutazioni; o ai tagli che nel 2008 il governo Berlusconi e il suo Ministro
Gelmini hanno apportato all’organico delle scuole, con la conseguente
formazione delle cosiddette “classi-pollaio”) e infine dal tentativo
berlusconiano di costruire una “scuola delle tre I” (Inglese, Informatica,
Impresa) e della sola informatica, durante il governo Monti, prima e il governo
Renzi, poi. In questo senso, le mancette di 500 euro elargite a pioggia agli
studenti e ai docenti, anziché un serio
impegno di spesa indirizzato alla formazione degli insegnanti in servizio e
alla selezione dei nuovi docenti, non
hanno menomamente modificato la condizione miserrima generale della scuola
secondaria superiore.
Inoltre, se una nutrita serie
di intellettuali à la page degli
anni Settanta (poi pentitissimi, come Raffaele Simone), seguiti da una intera
generazione di compilatori dei manuali e antologie, aveva smontato la didattica
del bello scrivere secondo modelli colti, nuovi intellettuali modaioli
dell’ultimo decennio hanno a tal punto proposto una scuola in cui la tecnica
soppianta la cultura, da far apparire i progetti di riforma della Brichetto
Moratti una sorta di utopia positiva. A partire dal Ministero Berlinguer, si
sono sviluppati infatti, dapprima, un attacco sistematico alla didattica
dell’Italiano e, successivamente, una vera e propria offensiva nei confronti di
tutte le discipline umanistiche. Le antologie d’un tempo, che offrivano al
giovane lettore il piacere di un’ampia scelta di testi narrativi e poetici, si
sono trasformate di fatto in opere di
linguistica, con complesse analisi del testo, capaci di indurre anche nel più
disponibile dei ragazzi una vera e propria repulsione per la lettura; il
vecchio tema (in cui, è verissimo, molti studenti fallivano, per esiguità di
contenuti e inesistente capacità di argomentazione, ma che consentiva di
esprimere proprie riflessioni e di esibire le conoscenze acquisite e
consolidate) è stato sostituito da noiosissime analisi testuali (chi, come me,
ha dovuto sciropparsele nel corso dei vari esami di Stato conosce bene l’assurdità
e la tediosità di simili esercizi, di fatto costituiti da domande e risposte
obbligate) o da ridicoli “saggi brevi”, nei quali lo studente è costretto a
collegare in modo più o meno meccanico una sequenza di brevi brani scelti dal
docente, all’interno di un testo ridotto, per cogenza normativa, a non più di
cinque mezze pagine protocollo; talché a uno dei miei studenti più colti e
intelligenti capitò di vedersi sottrarre tre punti nella prova scritta di
italiano, perché aveva sviluppato una sua sapiente e brillante argomentazione
inerente alla Costituzione italiana, con dovizia di citazioni e confronti di
concetti e tesi, sconfinando per molte pagine ulteriori, rispetto a quelle
consentite : quel che in altri tempi sarebbe stato un lavoro encomiabile,
diventò allora un saggio di diciotto pagine protocollo, inaccettabile per
l’eccesso di cultura che vi si manifestava. E i membri interni della
commissione dovettero anche discutere a lungo, per impedire che la valutazione
diventasse insufficiente
Ma ancor più deturpante è
stato il diffondersi della convinzione - quant’altre mai assurda - che le
materie umanistiche siano ormai obsolete e che sia moderno e ancor più opportuno
rimpiazzarle con contenuti di tipo scientifico e/o con contenuti applicativi,
anziché teoretici. Nella vulgata dei
mass media e del senso comune, ma anche del MIUR e dei dirigenti scolastici, le
materie umanistiche sono arcaiche e ridondanti e soltanto studi specifici di
tipo tecnico e scientifico possono garantire il futuro impiego. A nulla è valso
il monito di Martha Nussbaum, che rammenta come soltanto le materie umanistiche
siano in grado di costruire il buon cittadino democratico; a nulla la
costatazione che nei Paesi economicamente più avanzati dell’Occidente le grandi
aziende utilizzino oggi di preferenza personale proveniente da studi di tipo
filosofico e letterario: nell’immaginario collettivo la matematica applicata,
la chimica o l’Inglese sono le uniche materie di una qualche importanza e
anch’esse, comunque, da studiare auspicabilmente per mero obbligo e per
convenienza economica futura e non per autentico interesse.
In questa prospettiva, sono
state aumentate a dismisura negli Scientifici le ore di Scienze e di Inglese e
ridotte quelle di Latino, Italiano e Filosofia, mentre nascono e ottengono
successo a causa della loro maggiore facilità, nuovi corsi, come il cosiddetto Liceo
Scientifico Sportivo (che di liceale in realtà non ha alcunché) e quello di Scienze
applicate (in cui la cancellazione del Latino, a favore di ore aggiuntive di
Chimica e Scienze, riconduce l’impianto liceale a un assetto meramente tecnico
e applicativo); e i Classici sono stati
oggetto di una sistematica denigrazione, fino a far temere una loro drastica
cancellazione, o per volontà del legislatore o per autoestinzione dell’utenza.
In compenso, non vi è stata quella necessaria riforma dei Tecnici e dei
professionali, da lungo tempo implorata e mai attuata.
Per di più, nel tentativo di
accattivarsi le simpatie dell’utenza e di implementare le iscrizioni,
sottraendole, come al mercato delle vacche, ad altri istituti (da anni, la
cancellazione dei bacini di utenza nell’obbligo e la cogenza dei numeri nella
formazione delle classi nella secondaria superiore costituiscono una
persistente forma di ricatto nei confronti della scuola), molti nuovi Dirigenti
scolastici e molti docenti preoccupati di perdere la sede vicino a casa impongono ai consigli di classe la progressiva
semplificazione dei curricola e il
parallelo incremento dei voti positivi. Senza seri esami di riparazione a
settembre e con “verifiche dei debiti” ad agosto, dopo grotteschi e risibili corsetti
di recupero (in cui lo studente, che in
nove mesi di scuola non ha compreso e/o appreso una materia, riesce, a parere
della burocrazia, a recuperarla in una decina di ore aggiuntive di lezione) e
la prassi implicita di promuovere chiunque abbia anche soltanto recuperato un
debito formativo su tre o quattro presenti nella pagella di giugno, la secondaria
superiore è divenuto il luogo in cui l’impegno di studio e il gusto per la
cultura sono ridicolizzati e la furbescheria è, di converso, premiante. Talora
emerge addirittura un sotterraneo e strisciante
bullismo nei confronti degli studenti più seri, non soltanto da parte
dei compagni di classe meno motivati, ma – gravissimo risultato della mancata
selezione dei docenti - persino da parte di taluni insegnanti. Siamo giunti al
punto in cui, anche nei licei, chi legge libri, scelti autonomamente o addirittura
consigliati dai docenti stessi, non ha il coraggio di ammetterlo dinanzi al
gruppo classe e ne parla in confidenza e
a bassa voce soltanto con il compagno di banco o con qualche insegnante giudicato
affidabile, durante l’intervallo, come se l’amore per la cultura fosse un turpe
vizio, da celare accuratamente a sguardi indiscreti.
Tutto ciò è avvenuto
nell’ambito di una trasformazione radicale della società civile e della cultura,
avvenuta tra gli anni Settanta del Novecento e oggi: sono approdate ai licei e
più in generale alla secondaria superiore classi sociali un tempo escluse dalla
prosecuzione degli studi dopo l’assolvimento dell’obbligo scolastico, senza che
la scuola, a partire dalle elementari, sapesse attrezzarsi efficacemente, per
rispondere realmente alle nuove istanze della istruzione di massa; e lo
sgretolamento dei Canoni e della tavola valoriale un tempo condivisa, -
determinato dall’affermarsi della società dei consumi, in cui Hegel e Maria De
Filippi sono merci di valore equivalente e dai grandi spostamenti di
popolazione all’interno del Paese e ora dall’estero - ha indotto il vero e proprio congedo dalle
gerarchie culturali e intellettuali del Novecento. Oggi, mentre, da un lato,
introducono complesse indagini testuali, dall’altro, le Antologie liceali
riducono le pagine dedicate alla poesia duecentesca, per aggiungere riferimenti
agli scrittori di libri gialli, come De Angelis o ai fumetti. E, nel contempo,
qualunque studente (e, cosa peggiore,
qualunque genitore e persino qualche docente, che ama sentirsi alla moda)
ritiene di poter liquidare con ilare sufficienza l’estetica kantiana o l’Etica
Nicomachea, dall’alto della sua “esperienza personale”, di quel “vissuto”, che
nell’universo di internet è divenuto l’unico orizzonte culturale di
riferimento. Emblematico, a questo proposito, del resto, il fatto che alcuni
nobilissimi manuali di Filosofia, tra i quali il più classico e adottato di
tutti, dagli anni Sessanta del Novecento a oggi, l’Abbagnano-Fornero, nel
tentativo di lusingare le istanze di ludicità e divagamento che
contraddistinguono la nostra società e vasta parte, ormai, della scuola, ahimè,
si sono industriati di abbinare alla trattazione delle dottrine filosofiche
illustrazioni di dipinti e statue, fotografie di monumenti e paesaggi urbani,
riferimenti a opere cinematografiche, persino fumetti, come se uno studente
liceale di sia pur medie capacità e non del tutto trascurabili interessi
culturali non potesse amare la
Filosofia, se non in una forma prostituita
al consumismo e alle subculture di massa.
I genitori, d’altra parte,
utilizzano i gruppi Whats’app , i social network e troppo spesso i
Consigli di classe e di Istituto, per promuovere vere e proprie filippiche
ipercritiche nei confronti della scuola, persuasi come sono di poter discettare
– e con competenza incontrovertibile - di
metodi e contenuti, di valutazione e condotta, di compiti e lezioni, di orari e
organizzazioni didattiche, di riforme e trasformazioni ritenute
improcrastinabili. Ogni specificità, ogni competenza professionale, ogni
conoscenza specialistica sono rifiutate e, prima ancora, disconosciute e
destituite di fondamento, in nome della orizzontalità peculiare dell’universo
di internet, dove vige la distopia di Casaleggio e Grillo, secondo cui “uno
vale uno” e, quindi, non sussiste distinzione possibile tra verità e opinione,
tutto è mera doxa e ognuno è
legittimato a esprimere giudizi su ogni genere di argomento. Inevitabile che la
conseguenza prima sia la perdita di autorevolezza della scuola, degli
insegnanti e della cultura stessa; e che l’utenza, divenuta clientela esigente
e capricciosa, pretenda di derubricare a creativa interpretazione personale
dell’allievo, o quanto meno a inesattezza lievissima fino all’impalpabilità,
doverosamente trascurabile e anzi fonte di lieto divertissement anche gli
errori più grossolani e patenti.
In questo contesto, due sono
le soluzioni che solitamente sono individuate: o proseguire nella discesa verso
gli Inferi della semplificazione e della valutazione friendly , in una parola del lassismo (come vorrebbero la gerarchia
ministeriale, i Dirigenti scolastici e i genitori degli studenti; si pensi alla
recentissima semplificazione dell’esame di Stato voluta dal Ministro Fedeli); o
ritornare al nozionismo arido, alla disciplina rigida e soprattutto alla
selezione inflessibile di un tempo (come
da qualche anno invoca Paola Mastrocola).
Ma se la prima soluzione non
è auspicabile, la seconda non è, piaccia o non piaccia, praticabile.
Occorrerebbe, allora, tornare sin dalle elementari all’esigente modello
gentiliano, espungendone i caratteri di classismo, per rinverdirne la
rigorosità nella selezione dei docenti (senza più immissioni ope legis di masse di precari, secondo la politica sindacale degli
ultimi settanta anni) e nella preparazione degli studenti, senza fantasie di
“nuove” didattiche informatiche (l’informatica è uno strumento, non un metodo e
men che meno un contenuto trans-disciplinare), di ridicole “classi rovesciate”
(in cui l’insegnante è ridotto a tutor delle esercitazioni e le lezioni a
sequenze di diapositive in Power point,
per di più fruite dallo studente a
proprio libero arbitrio a casa, senza possibilità di interlocuzione con il
docente), di metodi ludici intesi come divagazioni estemporanee. Più
banalmente, occorrerebbe tornare a efficaci verifiche ricorrenti, a esigenti
percorsi di consolidamento e recupero e a esami di fine ciclo o addirittura,
come negli Stati Uniti, di fine anno scolastico, in cui valutare oggettivamente
gli apprendimenti acquisiti e quelli che al contrario debbono essere
consolidati, senza fingere che la promozione burocratica coincida tout court con la promozione effettiva.
Ammesso e non concesso che
tutto ciò sia ancora possibile.