Che cosa è un
intellettuale contemporaneo o che cosa dovrebbe essere?
La risposta ovvia
considera una persona che lavora con la propria intelligenza, affinata dalla
lettura, dalle conversazioni e dall’analisi critica in merito a diversi temi,
capace di trasformare questa inclinazione in forma di sostentamento.
Quindi l’intellettuale
non si dedica al lavoro fisico o comunque tenta di non praticarne nessuno,
secondo la rappresentazione corrente voluta dall’immaginario collettivo.
Il non far nulla è la
massima aspirazione della maggior parte di quanti popolano la parte civilizzata
del Pianeta, mentre gli altri sono indaffarati a sopravvivere.
I rappresentanti di
questa categoria li immaginiamo soprattutto grazie alla televisione ed ai loro
libri, accettandoli come tali senza discutere, mentre lo spirito critico nei
loro confronti si fa un poco acido in considerazione di qualche rappresentante
minore, di quelli reperibili in provincia.
Una condizione che
solleva più di un problema.
Interpretare la loro
funzione come quella di operai dell’intelletto risulta difficile, perché una
fonte di (pre)giudizio è rappresentata dalla loro posizione sociale, che
stranamente pare debba sempre coincidere con occupazioni di prestigio, perché
cooptati o comunque ben inseriti in questo o quel settore pubblico ovvero a
partecipazione pubblica.
Posizioni che prestano
il fianco a critiche, avvalorate dall’astensione a critiche alla classe
dirigente e dall’assenza di formulazioni di obiettivi.
In altri termini,
l’esser stati definiti intellettuali, da sé stessi o da persone di potere
compiacenti, pare originar diritto ad una occupazione stabile e magari poco
impegnativa, che contraddice l’essenza della libertà di critica che dovrebbe
condurre parole e azioni.
L’intellettuale di
provincia preferisce astenersi, per quieto vivere, così preferisce
scartabellare polverosi archivi per dare poi alle stampe pubblicazioni che
trattano di cose passate, senza mai avventurarsi nel presente.
Il desiderio di
esprimersi ed il coraggio sono virtù che non sembrano appartenere a questa
sottocategoria sociale, perché sono elementi che trascinerebbero i suoi
componenti nella formulazione di una critica spietata di tutto ciò che esiste.
Un intellettuale
siffatto sarebbe quindi un critico sociale preoccupato di identificare,
analizzare, trovare spunti per superare gli ostacoli che si frappongono al
raggiungimento di una esistenza migliore, più umana.
Sarebbe allora
inevitabile considerarlo un piantagrane, un personaggio che dà fastidio alla
classe dirigente.
Il potere si
difenderebbe in malo modo accusandolo di essere utopico, metafisico,
sovversivo, sedizioso e nel peggiore dei casi pseudointellettuale perché
privato della gioia di vedere pubblicati i suoi scritti a spese della
collettività, grazie all’intervento della politica.
Difficile che un
intellettuale di provincia si spinga verso una critica che non sia ristretta
alle proprie conclusioni o che s’avvenuri nel conflitto con i poteri forti, ma
in questo caso prontamente si dedica all’asservimento volontario.
Ecco, se
l'intellettuale non si può compromettere, allora è difficile ritenerlo tale e
comunque la sua funzione non risulta avere utilità alcuna per la collettività.
Disaccordi,
argomentazioni, aspre lotte culturali sono del tutto inevitabili, anzi
indispensabili per accertare la natura, i mezzi, le condizioni necessarie per
garantire salute, sviluppo economico e la felicità comune.
Senza queste
condizioni, nessun individuo può considerare sé stesso, né essere pensato come
un intellettuale.
Per
questi motivi, in provincia l’intellettuale è inutile