Da un buon mese la “lettera
al governo” di 600 tra docenti e accademici vari, preoccupati , per non dire
angosciati, dello stato in cui versa mediamente la padronanza della lingua
italiana presso i vari ordini e gradi della scuola nazionale, tiene banco sulla
stampa. Non trattandosi, almeno in prima battuta, di un problema
gestional-sindacale, questa persistenza di dibattito, con tutte le
recriminazioni al seguito, è sicuro indice di gravità percepita.
L’allarme ha cioè travalicato
– esperienze e confronti alla mano - i
vari e ripetuti tentativi della scuola (docenti e studenti ) di sottrarsi in un
modo o nell’altro, evitandolo o compromettendolo, ad ogni tentativo di
valutazione, per quanto elementare, degli esiti didattici della gigantesca
macchina italiana dell’istruzione giovanile.
Impossibile, in questa sede,
inseguire e dar conto delle geremiadi messe in campo dai commentatori per
collegare gli effetti, come dire? non esaltanti, che si constatano, con le
cause che in varia misura hanno/avrebbero determinato – partitamene
dall’esterno e dall’interno del sistema scolastico – il processo di sfaldamento
delle capacità linguistiche (con retrostante organizzazione del pensiero).
Un filone, potente e
trasversale, delle recriminazioni riguarda
il cosiddetto “buonismo” (ahi il termine passepartout!) che, partendo
dalle più nobili petizioni di principio, avrebbe progressivamente invaso e
intaccato, per tacito assorbimento, ogni “antica pretesa” di rigore nei
processi formativi e di verifica periodica degli esiti raggiunti.
La ricerca dei possibili
ascendenti etico-culturali e politici di tal “buonismo”, declinato poi in tutti
i toni del permissivismo, è vasta, inesausta e debitamente polemica. Andando a
balzelloni, mi ha colpito, nei giorni scorsi, una sorta di “eterno ritorno”
alla Scuola di Barbina e al suo mentore Don Lorenzo Milani. Si tratta di un
ampio articolo (comparso sul supplemento letterario domenicale del Sole-24Ore
del 26.2) nel quale l’autore, Lorenzo Tomasin, proclama, già dal titolo
e poi nel testo duramente polemico: “Io sto con la professoressa”. Rimando evidente alla
notissima “Lettera a una professoressa”, pubblicata a Firenze giusto
cinquant’anni fa, nel maggio 1967, un mese prima che scomparisse il Priore-ispiratore
dell’opera.
Taglio e stile dell’articolo
sono ben rappresentati da un passaggio di prima colonna: “Sarebbe fintroppo
facile, e ingenerosamente sadico, osservare che la scuola prefigurata dalla Lettera
ad una professoressa è giustappunto quella che oggi tutti deprecano,
avendola scoperta se possibile peggiore di quella che l’aveva preceduta, perché
capace di creare, nel suo sgangherato egualitarismo, disparità e ingiustizie
ancora più gravi di quelle imputate all’odiosa vecchia scuola”.
La presa per il bavero di un
testo – e di un atteggiamento rivendicativo – tanto famoso quanto datato, mi ha
indotto a ripescare dallo scaffale
quelle 160 pagine piene di tanti, minuscoli e personali eventi
comunitari, facenti capo alla voce narrante e tuttavia interpretati come
disvelamento, prevalentemente in ambito scolastico, di sentimenti e
situazioni carichi di solidarietà e di
risentimenti di classe. Può ben essere che la Lettera sia diventata un
classico, non certo l’unico, della contestazione “di base” all’assetto borghese
degli anni 60-70 del novecento, ma mi sembra del tutto fuori luogo e fuori misura considerarlo come
la madre (o la nonna) di tutte le manomissioni, più o meno necessitate o
avventate, applicate al sistema scolastico nell’ultimo cinquantennio.
Sono passati tanti governi,
sono intervenuti – anche con esplicita fregola
riformista (ah passare alla storia come il nuovo Gentile!) – tanti
ministri della pubblica istruzione, che diventa alquanto improbo rintracciare
nella scuola (corpo e funzione) un percorso di sviluppo
didattico-organizzativo, non si dice lineare, ma almeno dotato di qualche
coerenza interna.
Forse l’accostamento
Lettera-Controlettera (Barbina e Tomasin) dipende dal fatto che di questi tempi
duole ancora, e con ulteriore disagio, il dente della disuguaglianza sociale di
matrice socio-economica, nel nostro Paese e ben oltre. Ma non vale enfatizzare
oltre misura, in positivo o in negativo, quella antica “chiamata”
etico-letteraria alla resistenza anti-classe per sottacere che negli ultimi
decenni si è parlato soprattutto d’altro.