Approvo totalmente quanto afferma Salvator Ragonesi (Città futura) sul valore di Croce quale
storico, teorico di storiografia (la storia
è sempre contemporanea: fulminante indiscutibile definizione), l’erudito,
definito da Contini “atleta della cultura” ricercatore instancabile di testi
ignoti (penso all’affascinante libretto
su Isabella di Morra, edito da Sellerio). Ma la dicotomia storia giustiziera o
giustificatrice è stata sollevata da Vico e ripresa da Hegel, e Croce non può spacciarla come sua.
Anche il Croce prosatore raggiunge
altissimi livelli, secondo solo a Manzoni: la sua prosa è lenta, procede per
progressione, con incisi, anche polemici
efficaci, e una sintassi maestosa, razionale e avvolgente.
Ma mi fermerei qui. La filosofia di Croce è un pastiche banale
fra Kant e Hegel (i 4 distinti, già
dileggiati da Gentile: “una polemica minuta acre a poco edificante da ambo le
parti” Abbagnano)), distinti e non gli
“opposti “di Hegel (che ancora ghigna
nella tomba a Berlino) è oggi risibile.
il
Croce critico letterario inesistente (a parte il saggio sull’Ariosto), anzi
dannoso; aver considerato Carducci un
grande poeta, da tempo giustamente ridimensionato, mentre il Carducci
metricista sommo e storico della letteratura
si piazza meritatamente appena dopo De Sanctis , per il suo rigore e le
sue intuizioni. Croce condanna in blocco
il decadentismo, accusato di sporcizia morale (chi ? Svevo, Pirandello,
Kafka ?), e riduce un grande
poeta, poliedrico, coltissimo, espertissimo sperimentatore come Pascoli a poeta
per bambini. Insomma, incomprensione
totale per il secolo in cui è vissuto.
Aver definito Leopardi pessimista “per la sua
vita strozzata” e i suoi !filosofemi, “il malumore una malattia che gli avvelenava il sangue”,
giudizi ricordati dal leopardista Gino
Tellini ( “Leopardi” , Salerno 2016, p. 322) è puro gossip: quante volte all’Esame di Stato abbiamo
sentito dire dai ragazzi “Beh, insomma, cioè Leopardi era pessimista perché
sfigato”. Croce approvava solo il
Leopardi lirico puro di pochi Canti
tagliati a metà, senza aver capito che essi erano la resa poetica della sua
filosofia (il più grande filosofo italiano lo definisce Mengaldo): basti guardare
le date scrupolosamente apposte nello Zibaldone, che dimostrano inequivocabilmente
(Blasucci docet) come prima venga la
filosofia di Leopardi, non sistematica (“pensiero in movimento” la definì
Solmi) ma geniale, e poi il poeta, che
ha composto solo 41 Canti, non uno eguale all’altro metricamente. Eppure lo Zibaldone era uscito nel 1898, impresa
meritoria coordinata proprio da
Carducci: del quale per paradosso oggi
sopravvive dolo il pre-decadente e l’eccellente grammatico.
La
pretesa di distinguere e salvare in Dante la poesia pura (lirica) dalla noiosa
superflua struttura, significa non aver
compreso la cattedrale tomistica medioevale in cui consiste la Commedia, la sua
grandezza universale, aldilà del fascino indiscutibile di singoli canti, alcuni
di questi pur’essi tagliati a metà.
Del resto la celebre distinzione
poesia/non poesia, tradotta in” distinzione tra bello e brutto” cosa significa in
sostanza ? Ciò che mi piace è poesia, il resto no.
L’egemonia di Croce, favorita dal fascismo
per dimostrare al mondo che anche un non (anti, non direi) fascista (solo
quello del “ Manifesto” omonimo però, non è andato oltre) era rispettato
nell’Italia della supposta dittatura, “ ha operato infaustamente nel tener
lontane dalla cultura italiana alcune delle maggiori novità epistemologiche e scientifiche moderne, psicanalisi,
linguistica, filosofia della scienza, positivismo logico (Mengaldo , La
tradizione del Novecento , Quinta serie, Carocci, Roma 2017, pp.294-305).
Aver definito lo studio della morfologia
applicato ai testi, e quindi rifiutato la critica stilistica (Auerbach ignorato,
Spitzer frainteso), l’analisi testuale, con l’infausta etichetta dispregiativa
di “critica degli scartafacci” la dice lunga sulla rigidità mentale del
nostro. Diciamo che non era portato; gli “mancavano le basi”. Come si fa a definire i Promessi sposi un romanzo fallito (il ripensamento senile non
conta: una paginetta contro un libro) perché rovinato dalla propaganda
religiosa, senza neppure accorgersi della riforma linguistica manzoniana (Carducci, che detestava i manzoniani,
richiesto dal ministro Broglio su quali libri far leggere al ginnasio, rispose
“L’Eneide nella traduzione de Caro e i Promessi sposi”: quale lungimiranza! ma Carducci fu prima di tutto un encomiabile
carismatico uomo di scuola che amava insegnare, mentre Croce rifiutò persino di
laurearsi, per snobismo, disprezzo , l’ essere valutato da persone ritenute
inferiori, chissà. Era benestante, non
aveva bisogno di lavorare. Contini
disse che uno studioso si rende conto di possedere una disciplina solo nel
momento in cui riesce a insegnarla ai propri allievi. E Croce allievi non ne aveva, parte quei pochi virtuali che leggevano la
sua rivista, temutissima.
E ora veniamo al punto, a mio avviso, più ripugnante: Croce,
senatore a vita e Accademico d’Italia, nel ’15 neutralista giolittiano
dubbioso, votò a favore del governo
Mussolini, dopo il delitto Matteotti , rivendicato nella seduta del 3 gennaio 1925
“Se il fascismo è un’associazione a delinquere io sono il capo di questa
associazione a delinquere, io mi assumo
la responsabilità civile morale e storica di quanto è avvenuto”, annunciando le
legge fascistissime, che infatti arrivarono
immediatamente. Nulla aveva detto sull’assassinio (1923) di don Minzoni,
parroco di Argenta, cappellano decorato della prima guerra mondiale, che
rifiutava di fascistizzare il suo oratorio. Il suo tiepido e inconsistente “
Manifesto degli intellettuali antifascisti “ è solo una flebile risposta del
suo litigio con Gentile. E stette pure
zitto sull’assassino del suo caro amico Giovanni Amendola, di Gobetti, sul
“quasi” assassinio di Gramsci, dei fratelli Rosselli, uccisi in Francia
dall’OVRA. Alla guerra di Etiopia
partecipò donando una medaglia (“l’oro alla patria”: le italiane davano le fedi
in cambio di un cerchietto di ferro: basti vedere i filmati dell’Istituto Luce
dell’epoca: ma almeno a lui, Mussolini muratore, mietitore ecc. non doveva
apparire ridicolo?), guerra che per prima ruppe la pace mondiale; Hitler, che lo dichiarò suo modello venne
dopo. Del resto Mussolini piaceva anche
a Churchill. Silenzio sulla guerra
di Spagna, tiepido dissenso (non si recò
a votare e rifiutò di compilare un questionario) sulle rivoltanti leggi
antiebraiche, firmate, non dimentichiamolo, da Vittorio Emanuele III (vedi
l’esaustivo saggio di Enzo Collotti uscito da Laterza). Certo l’idea di dimettersi da senatore non gli
passò per la mente. Antifascista, o
meglio afascista, per usare un suo stilema, negli scritti, ma nei fatti? Eppure lui stesso disse,
sommessamente, che il regime lo usava come fiore all’occhiello.
Mi
sembra abbia ragione la perfidia di Saba, rifugiato clandestino a Firenze e a
Roma con la famiglia, perché sua madre era ebrea, nascosto dai poeti amici, che
lui considerava rivali.
Da.
Umberto Saba, Scorciatoie e Raccontini, 1946: ULTIMO CROCE
“ In una casa dove uno s’impicca, altri si
ammazzano fra di loro, altri si danno alla prostituzione o muoiono
faticosamente di fame, altri ancora vengono avviati al carcere o al manicomio, si apre una porta
e si vede una vecchia signora che suona – molto bene – la spinetta”.
Perfetto, tranne il titolo, sostituibile da:
CROCE DAL 1920 IN POI. Membro liberale del governo Badoglio, che
disprezzava, votò per la Monarchia nel referendum del 2 giugno ’46, dichiarandolo
(oh, stavolta parlò). Certo, votò contro i Patti Lateranensi, l’articolo 7
della Costituzione, denunciò il trattato di pace iniquo, ma si trattava di
posizioni di retroguardia , sconfitte ancora prima di iniziare. Coda di paglia?
Disprezzava il Partito d’Azione, formato da intellettuali suoi discepoli, il
più serio partito d’Italia dal 1861 ad oggi: sconfitto alle elezioni del ‘47,
scomparve e si disperse in mille rivoli.
Ho riletto il celebre saggio (1966) di
Contini “L’influenza culturale di
Benedetto Croce”, che si pone l’obiettivo di “riuscire postcrociani senza
essere anticrociani” e mi è apparso di nuovo un’operazione di dissimulazione
onesta. Contini fa a pezzi Croce, fingendo di
esaltarlo: in 40 pagine (Altri esercizi,
Einaudi 1972) ci sono almeno 40 giudizi negativi (i saggi di Croce sono
antologie, parafrasi, tautologie; la sua è una critica psicologistica, lo accusa
persino di aver frainteso i poeti barocchi “il verme roditore” (parole di
Croce) della poesia è l’ingegnosità (p.51).
Contini lo conosciamo, era capace di “uccidere” con giudizi soavemente
perentori e citazioni scelte ad hoc. Né muta parere nel cappello su Croce della
sua Antologia Sansoniana, in cui evidenzia solo un aaggio autobiografico del
1915. La propria ferocia Contini la esercita nei propri saggi anche con le
inclusioni e le esclusioni.
Persino Mengaldo che nel suo “Profili di
critici del Novecento” (Bollati Boringhieti 1998) salvava del Croce la prosa, o
meglio la sintassi, e il saggio sull’Ariosto, nello studio sopracitato
conclude: “la nozione di postcrocianesimo senza anticrocianesimo in Contini fu
anche un po’ tattica e reverenziale” (p.305), “è oggi ancora adeguata per
noi?” Palese interrogazione retorica,
che contiene in sé la risposta: no.
Elvio Bombonato