Affermazione forte, concetto
scultoreo. Non si fa tuttavia questione di condividere o meno il drammatico
assunto, anche se qualche sospetto in positivo resta in campo. Non è questo il
punto – qui almeno – bensì l’opportunità o l’urgenza di interrogarsi sulla
scomparsa dalla scena polemica, sempre ricca di spunti clamorosi, anche
datati, di questa diagnosi impietosa e
inquietante.
Si tratta infatti di una
sentenza vecchia di anni, che rammento nella sua assolutezza pur avendo perso per
strada ogni riferimento al tempo, al come, al perché e ai banditori
dell’allarmante denuncia, anche se posso presumere gli ambienti di provenienza.
Gli è che ogni giorno la
cronaca – non solo nera – e i pensosi
commenti di stampa al seguito, suggeriscono, sia pure implicitamente e a fior
di labbra, riferimenti diretti alla dèbacle
educativa , giovanile e non, di portata epocale e prospettive
indecifrabili. E tuttavia una sorta di conventio…ad evitandum - non meglio giustificata ma assai rigida –
impedisce di collegare in qualche modo il processo educativo con eventi, derive
di costume e comportamenti disdicevoli
in vario grado che ne evidenziano il pesante insuccesso complessivo.
Mi chiedo le ragioni di tanta
reticenza, o imbarazzo, e provo a rispondermi in termini di legittimazione e di responsabilità.
Il processo educativo, il concetto stesso di
educazione, sono stati deprivati, negli ultimi decenni, di importanti e
svariati coefficienti di legittimità. In ragione dei sospetti di
autorità/autoritarismo, nei contenuti e/o nei meccanismi di trasfusione, che
diverse correnti di pensiero – o mere evoluzioni di costume – andavano
scoprendo a carico della “pretesa educativa” impugnata dai vari soggetti,
individuali o collettivi, a ciò tradizionalmente dediti e impegnati. Mentre la
trasmissione di conoscenze e abilità specifiche veniva considerata
sufficientemente neutrale, l’inseminazione di valori suscitava più o meno
velate reazioni di rigetto per la parzialità implicita nella scelta dei “quadri
(culturali) di riferimento”: quali valori,da parte di chi, con quali
credenziali, a quali fini, etc. Di qui, insomma, dalle incerte risposte, il
presunto deficit di legittimazione e le resistenze, o latitanze, del caso.
Ultrasemplificando: con
i nefasti dello “Stato Etico” non ancora
dileguati – e per qualche verso perfino risorgenti - è parso tutto sommato
accettabile acconciarsi ad un processo educativo “fai da te”, sorvegliato per
quanto possibile, ma in sistematico disequilibrio tra le varie proposte formative,
disvalori compresi, liberamente affluite sulla scena e spesso in competizione
tra loro. Educazione, quindi, come somma casuale di sollecitazioni di varia
caratura e provenienza.
Da gran tempo, è ben vero, il
processo educativo individuale ha un andamento composito e non lineare, ma le
mappe più recenti segnalano molti sentieri e nessuna via maestra.
Questa condizione di malferma
solidità strutturale, si riflette nella progressiva segmentazione delle responsabilità
educative a carico dei diversi soggetti preposti alle diverse fasi del
percorso. Sbiadisce ormai il ricordo degli anni, pur non lontani, in cui
famiglia, scuola, chiesa ( e perfino il servizio militare) costituivano le
principali risorse o “agenzie” educative,
non sempre con finalità e modalità collimanti, ma facenti parte di uno schema di competenze
note e riconosciute. Era per così dire naturale che ciascun protagonista
presidiasse il suo territorio di competenza, ma svolgesse il suo compito, la
sua missione, in un orizzonte (corresponsabilità sociale) di crescita
prolungato e globale.
Al crescere vigoroso e
caotico delle proposte (o pretese) educative – sotto la spinta poderosa delle
tecnologie della comunicazione – le responsabilità dei vari attori si vanno
invece “congelando” alla fase di stretta competenza, senza più nessun raccordo,
neanche simbolico, con la finalità complessiva. Se qualcosa poi risulta
stridente o non funziona, in questa sorta di staffetta educativa, è sempre nei
tratti, o ambiti, di competenza altrui (un piccolo, grande esempio, nei cicli
scolastici).
A parte la questione, o
provocazione, iniziale , queste
considerazioni del tutto astratte e preliminari hanno almeno un movente: il
dilagare, dalle aule scolastiche a quelle parlamentari, del “bullismo”,
del quale le cronache riprendono ormai,
dalla massa, solo gli episodi più sconcertanti o decisamente odiosi. Un
fenomeno, spesso connotato da violenza fisica o psicologica, sul quale sappiamo
solo esprimere riprovazione a posteriori, a sconsolato commento, ma del quale
non abbiamo generalmente la più pallida idea di come possa essere affrontato.
Ci si limita, sia pure con
intimo disagio, ad invocare misure punitive (e vagamente deterrenti) che
investono poi, in realtà, una frazione minima dei comportamenti bullistici emersi
al pubblico.
Col gioco d’azzardo, lasciato per anni correre a
iosa, è stata infine contrapposta, sul piano socio-sanitario, la toppa chiamata
“ludopatia”. Col comportamento diffamatorio e persecutorio in salsa compulsava
si va evocando una sorta di analoga
“bullopatia”. Sempre e comunque diagnosi e cura a posteriori, ad effetto
consolatorio.
E prima? Ecco una domanda che, per vie
traverse, riporta all’esordio di questa nota, al nodo duro da sciogliere: chi
educa chi?