Firme prestigiose e grandi direttori. Poi il
declino
...
Vent’anni
di storia nel racconto di un ex collaboratore
Abbiamo
seguito con molta attenzione e con sincero rammarico le ultime vicende
dell’Unità. Quando muore un giornale è una voce che si spegne, un pezzo di
democrazia che se ne va, poiché la libertà si basa, irrinunciabilmente, su di
una informazione il più possibile libera e varia. Sull’Unità abbiamo scritto
per quasi vent’anni collaborando alla terza pagina e come inviato estero in
Europa, Nord e Sud America, nonché ai congressi delle Nazioni Unite in varie
parti del mondo. Abbiamo avuto la fortuna di scrivervi quando l’Unità era un
grande giornale,una grande scuola di giornalismo, il secondo giornale italiano
per copie vendute. Quando mediamente tirava 400 000 copie giornaliere, che
arrivavano a superare il milione il 25 Aprile, il 1°Maggio e nei momenti più
drammatici e caldi della lotta politica giungendo a sfiorare i 100 milioni di
copie complessivamente vendute nel corso di un anno. Certo, aiutava il
raggiungimento di questi traguardi, la diffusione effettuata dai militanti del
partito, ma ciò non sarebbe bastato a giustificare un tale volume di vendite.
La gente comperava l’Unità perché piaceva, perché era ben fatta, perché
trattava notizie ed argomenti che interessavano i lettori. Se fosse bastata la
militanza a far vendere un giornale, il Popolo, quotidiano dell’allora
potentissimo ed onnipresente partito al governo, avrebbe dovuto vendere più di
tutti gli altri giornali, invece non arrivava nemmeno a 10 mila copie
nonostante godesse di finanziamenti illimitati e le parrocchie e le
innumerevoli organizzazioni religiose e di partito facessero enormi sforzi
capillari per la sua diffusione. L’Unità ,benché appartenesse ad un partito,
non era fatta e strutturata come giornale di partito. Detto in altre parole,
non era un “bollettino, come in
malafede affermavano i suoi avversari, ma un giornale “laico”,
giornalisticamente e culturalmente aperto e all’avanguardia, che sovente
forniva informazioni non riportate o censurate dal resto della pubblicistica
nazionale. Ricordiamo benissimo il discorso fattoci il primo giorno dal
direttore: “ Primo ed irrinunciabile obiettivo di un giornale è essere venduto.
Un giornale che non vende non esiste. E’ solo carta malamente stampata. Non
devi scrivere solo le cose che piacciono a te, come tendono a fare tutti gli
intellettuali, ma principalmente le cose che interessano i lettori. Sono loro i
veri padroni del giornale, perché sono loro che ci tengono in vita. Noi
dobbiamo nel contempo informare, perché viviamo vendendo informazioni, ma anche
dare voce alla gente comune, ai suoi problemi, piccoli o grandi che siano e
difenderla dai soprusi e dalle ingiustizie.” La gestione del giornale era, a
dir poco, austera. Sprechi, nemmeno a parlarne. Stipendi all’osso, dalla metà
ad un terzo di quelli degli altri giornali nazionali a parità di funzione. Gli
uffici, piccoli, disadorni ed affollati. Il tutto giustificato con la scusa che
“un grande edificio serve solo a nascondere un piccolo cervello”. I giornalisti
viaggiavano solo in seconda classe perché fortunatamente avevano abolito la
terza. Giustificazione ufficiale: “In seconda si viaggia veloci come in prima.”
“Sembriamo un clan di ebrei genovesi” ironizzava sarcastico il nostro capo
redattore da noi molto amato e stimato come un maestro, piccolo ebreo di
eccezionale intelligenza e cultura che parlava correntemente cinque lingue, la
cui scrivania era sempre sepolta sotto pile di giornali di ogni parte del mondo
(i giornali ed i libri erano le uniche cose che passavano con dovizia senza
fare domande). Quando era il caso, il caporedattore commentava i nostri
articoli, talvolta con pungente ironia, però mai li censurava nel modo più
assoluto, benché quando voleva evidenziare il suo dissenso fosse in grado di
farci sentire più piccoli di un pigmeo. Cosa, prima e dopo di lui, riuscita a
pochissime persone. Ricordiamo ancora come ci venissero i brividi, ma non
capitava solo a noi,al pensiero che sulla terza pagina avessero scritto in
passato, o scrivevano ancora, personaggi come
Cesare Pavese, Italo Calvino, Felice Casorati, Alfonso Gatto, Massimo Mila,Paul Eluard, Rafael
Alberti, Paul Aragon, Ilia Erenburg,
Ernest Hemingway. Era normale incontrare in ascensore, o in gradevole
conversazione nella microscopica e scrostata stanza della terza pagina,
personaggi come Pasolini, Moravia, Visconti o attori come Gian Maria Volontè,
Raf Vallone e altri appartenenti al
meglio della cultura, dell’arte e dello spettacolo. Il tramonto dell’Unità
iniziò con una sterzata gestionale tendente a privilegiare i giochi di potere
interni ed esterni al giornale, sulla qualità e sull’intelligenza degli uomini.
Con moto sempre più accelerato vi fu uno
sconcertante turbinio di direttori e capi redattori, di astri nascenti
destinati in breve al tramonto, o di
personaggi rampanti con preparazione giornalistica inferiore a quella di coloro
che dovevano dirigere, ed in alcuni casi del tutto inesistente. Caratteristica
loro comune l’improvvisazione, il confondere effimere mode passeggere ed in
alcuni casi anche la propaganda più scoperta,con cultura e professionalità.
Credevano di rinnovare ed invece distruggevano, credevano di essere moderni, ma
non sapevano che il futuro non si costruisce sul nulla. Andò così disperso un
patrimonio umano di esperienza, di conoscenza, di intuito giornalistico, di
sottili rapporti costruiti nel tempo, di dedizione al giornale ed al lavoro che
non aveva uguale in un’altra redazione italiana. Il massimo dell’inefficienza
suicida fu raggiunto con l’arrivo alla dirigenza del giornale di un ennesimo
direttore che, anzichè fare il lavoro per cui era pagato, che non sapeva
assolutamente fare, passava giocondamente il tempo giocando con i videogames.
La cosa più grave, indice di un male ormai mortale, fu che nessuno ebbe la
forza o la possibilità di impedire questo palese andazzo di cose. Sono queste
le conseguenze, note, la paralisi propria di ogni degenerazione burocratica,
quando l’intelligenza diventa un difetto ed il cinico arrivismo, basato
sull’ubbidienza più cupa ai giochi di potere,una qualità. Ma questo avvenne in
un periodo in cui noi, già da tempo,avevamo interrotto ogni rapporto con il
giornale, la cui atmosfera, sempre più da tardo impero, era divenuta
invivibile.. I lettori, i loro problemi, le tematiche che a loro interessavano
furono sempre più dimenticati e talvolta anche irrisi. Il giornale, come
schiavo di un irrazionale complesso autodistruttivo, prese una dimensione
sempre più lunare ,perdendo progressivamente credibilità, diventando, questa
volta davvero, “burocratico bollettino parrocchiale”, il sempre meno credibile
“soffietto” delle varie cordate al potere, dando così concretezza alle accuse,
un tempo false, dei suoi avversari. La finanza da austera divenne allegra,
almeno per il limitato empireo dei cicisbei e reggicoda, sempre di sereno ed
incosciente ottimismo, venuti al seguito dei novelli direttori. E avanti così
con aerei, alberghi di lusso e stipendi sproporzionati alle capacità. Uno degli
ultimi venuti a dirigere l’Unità, che non risolse alcuno dei problemi del
giornale, ma solo li peggiorò gravemente, percepì oltre un miliardo , tra
stipendio e liquidazione, per meno di un anno di lavoro. Il giornale divenne
così sempre più illeggibile, evanescente ed inutile, le vendite crollarono mese
per mese, anno per anno ed aumentarono in proporzione i debiti senza che
nessuno fosse in grado di porvi rimedio. Ma più si riducevano le vendite più
aumentavano i giornalisti, assunti non per capacità, ma per rafforzare il
potere di questo e di quello. Il colpo
di grazia finale venne dagli “apporti finanziari”, strombazzati in giro come
una panacea che avrebbe guarito ogni male, aprendo impensabili prospettive di
rilancio. Ma non fu così! Dopo che le banche, preoccupate dell’abisso debitorio
in cui era precipitato, chiusero i crediti, cosa mai avvenuta per un giornale
di un partito al governo, un gruppo di finanziatori di dubbia origine, cominciò
a frequentare la direzione dell’Unità. In alcuni casi si trattava di autentici
scorridori della finanza speculativa che, entrati nell’Unità con capitali assai
modesti, ne presero di fatto il
controllo tra gli applausi della proprietà. Lo fecero a tutto loro
vantaggio, sia con pressioni sul partito al governo , proprietario del
giornale, per ottenere interventi a solo loro vantaggio, sia con
un’informazione abilmente manipolata anch’essa volta a ben precisi scopi
personali. L’Unità, abbandonata al suo destino,da grande giornale, dall’essere
il “Corriere della sera” dei lavoratori, come lo aveva definito Togliatti e in
seguito Berlinguer, che ne erano orgogliosi e sempre ne tutelarono la libertà
interna contro i pur presenti attacchi liberticidi dei burocrati di partito,
divenne un foglio vuoto, senz’anima e senza speranza, al servizio di tutti,
meno che dei suoi lettori, sempre più simile all’invendibile e illeggibile “Popolo” dei tempi andati. E fu la fine.
Guido
Manzone Il Piccolo 9 agosto 2000
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(*) - Aydin : in ricordo del nostro grande amico Guido Manzone, non più con noi