Torino, maggio 1967: Jonas Mekas all'Unione Culturale
Con
le iniziative rievocanti della Fondazione Prada e della stessa Unione
Per tutto aprile, presso la Fondazione Prada la rassegna di
film sperimentali The New
American Cinema Torino 1967. Curato da Germano Celant, il progetto
ricostruisce New American
Cinema Group Exposition, il festival organizzato a Torino nel 1967 e
dedicato al gruppo di giovani cineasti d’avanguardia riuniti sotto la sigla
NACG (New American Cinema Group).La rassegna fu ideata dal teorico Jonas Mekas,
sostenitore fin dal 1955 di una concezione artistica di cinema e creatore di
film “rozzi, mal confezionati, ma vivi”. Fu promossa dall’Unione Culturale di
Torino, diretta dal critico Edoardo Fadini, che contribuì in quel momento ad
arricchire la scena artistica torinese, coinvolgendo in un intenso programma
culturale personalità di primo piano come Roland Barthes, Julian Beck, Carmelo
Bene, Luciano Berio, Judith Malina ed Edoardo Sanguineti.
22 maggio. A cinquant’anni dalla tavola rotonda che chiuse la rassegna del 1967
dedicata al “New American cinema Group”, i protagonisti dell’epoca (critici,
artisti, filmmakers, appassionati e curiosi) tornano a riunirsi negli
infernotti di Palazzo Carignano per rievocare una stagione creativa per molti
versi irripetibile e per discutere sull’influenza che il New American Cinema
ebbe nei confronti di un’intera generazione proprio a partire dalla sua
presentazione a Torino. Con proiezioni, testimonianze e una merenda sinoira. A cura di Fabio Scandura e del Gruppo Cinema UC. ]
Quando anche da noi si cominciò a
parlare, di rimessa, del New American
Cinema, le idee non erano davvero molto chiare. I fratelli Mekas, giunti a New
York avventurosamente dalla natìa Lituania nel '49, avevano cominciato a
pubblicare la loro rivista-pilota «Film Culture» fin dal ‘54, in parallelo alla
militanza critico-programmante esercitata da Jonas su «The Village Voice» al
Greewich. Ma in Italia i lettori -ammesso e a stento concesso potessero
annoverarne...- non dovevano essere masse. La fondazione della Film-Makers'
Cooperative era seguita nel '61. Da noi, però, la presso che concomitante uscita
in circuito di film certo indipendenti da Hollywood, ma che si muovevano
comunque, pur se da tali, nel consueto alveo produttivo-distributivo (Ombre e
poi Gli esclusi di Cassavetes, La scuola dell'odio di Cornfield e
altre cose che col senno di poi ci entravano ancor meno...) avevano generato,
almeno negli osservatori più superficiali, quasi la convinzione che il fenomeno
fosse rappresentato, quanto meno, anche da quei titoli.
D'altronde,
nel '59 era stata la stessa rivista ad assegnare, alla prima edizione, il
proprio "Independent Film Award" giusto a Cassavetes per Ombre,
due anni prima del costituirsi della Film-makers Cooperative, nella quale
peraltro il premiato non si sarebbe mai riconosciuto. Dopo Frank e Leslie nel
'60 (Pull My Daisy, con testo e
voce di Kerouac) e il poker di documentaristi “kennediani” Richard
Leacock-Pennebaker-Drew-Maysles nel '61 (Primary), sarebbero state le
sette edizioni successive fino al '69 -il '67 non registrò vincitori- a
definire pi coerentemente i confini principali del campo, con la trionfale
successione Brakhage ('62: The Dead e Prelude) > Jack Smith ('63: Flaming Creatures)
> Warhol ('64, per cinque dei suoi film, incluso Empire) > Harry
Smith ('65, per il complesso della produzione) > Markopoulos ('66, idem)
> Michael Snow ('68: Wavelenght, per la prima e unica volta fuori
dagli Usa) e infine Kenneth Anger ('69: Invocation of My Demon Brother,
con musiche dell'allora ventiseienne e non conosciutissimo Mick Jagger, che
proprio quell'anno avrebbe impresso una decisiva svolta agli Stones). Questo
stesso anno avrebbe visto Jonas dedito a "istituzionalizzare" il
progetto, con la fondazione degli Anthology Film Archives, evoluzione
"aperta" della cineteca di «Film Culture», con il concorso
progettuale pensante di Brakhage, Jerome Hill, Kubelka e Sitney, e il concorso
in qualità di garanti-selettori anche di Broughton e Kelman.
Negli
Stati Uniti, Malcolm Cowley aveva fatto pubblicare alla Viking Sulla strada di nel '57, dopo che era stato «rifiutato per
sei anni da tutti gli editori d'America, fino a ridurre Jack Kerouac
all'alcoolismo per la disperazione», come avrebbe ricordato Fernanda Pivano. E
la sua fondamentale, lunga prefazione datata "ottobre 1958" su La
beat generation preposta alla pronta traduzione italiana
("Medusa" Mondadori, 1959) del romanzo, aveva spalancato un mondo:
tant'è vero che il primo scritto italiano in rivista di cinema che si crede
di rammentare (Le galassie ferite del cinema beat: Luigi Faccini,
«Filmcritica», 1965) avrebbe fatto ancora implicito riferimento a quel quadro
magistralmente tracciato. E la Pivano sarebbe stata naturalmente in prima fila
all’appuntamento voluto dal grande Edoardo Fadini e da Angelo Pezzana, tra gli
altri, con Mekas all’Unione Culturale.
Ma fino a
quel momento si era parlato di "film-makers" (s'era cominciato a
scoprire quella strana parola, volutamente tendente, da chi la utilizzava, a
distinguere per bene gli indipendenti autentici col riconosciuto diritto di
fregiarsene dai "directors" hollywoodiani in patria, e dai
"registi" del cinema commerciale in giro per il mondo) senza conoscerne
neppure indirettamente presso che alcuno, e di loro film che almeno per quanto
poteva constare alla pubblica opinione, nessuno aveva ancora visto.
Le rare,
parziali eccezioni erano state costituite dal passaggio de I fucili degli
alberi dello stesso Jonas Mekas al festival del Cinema Libero di Porretta
Terme del 1962, e dai titoli che l'intraprendenza adolescenziale di Massimo Bacigalupo
e la ricchezza dei cui contatti statunitensi avrebbero fatto pervenire nella
prima metà dei Sessanta al peraltro ambito e quotato festival cineamatoriale
che la FEDIC organizzava a Rapallo. Il sentiero consentì, tra l'altro, la
visione di Scorpio Rising di Kenneth Anger e cominciò a rendere
familiari i nomi di Stan Brakhage e Gregory Markopoulos, illuminati da
un’intervista di Bacigalupo a «Filmcritica», di qualche settimana precedente l’avvento
torinese di Mekas. Alcuni anni dopo, in
una villa privata del golfo di Rapallo, lo stesso Bacigalupo avrebbe
organizzato altre proiezioni di film nel frattempo pervenutigli: tra i pochi
spettatori si ricorda Germano Celant, che ora ha curato magistralmente il mese
retrospettivo della Prada e ha parlato del fenomeno anche nella bella
intervista con l’Antonio Gnoli di “Straparlando” (“Robinson” de “la Repubblica”,
7 maggio).
La
mitologia a distanza si estese rapidamente, grazie all'attenzione prevalente di
un piccolo gruppo di aspiranti autori indipendenti italiani, in primis Alfredo
Leonardi, che ritrovandosi (tra Roma, Torino e Napoli soprattutto, ma non solo)
avrebbero dato luogo alla costituzione della Cooperativa Cinema Indipendente, che
si rifaceva in termini diretti ed
espliciti all'esperienza newyorkese: di nuovo proprio in simultanea con la
presenza italiana di Mekas.
All'inizio
degli anni Settanta la conoscenza poté consolidarsi con le versioni italiane Feltrinelli (curate con
scrupolosa attenzione da Aldo Tagliaferri) di “Metafore della visione” di
Brakhage e “Chaos Phaos” di Markopoulos, cui si sarebbe aggiunto poco dopo “Occhio mio Dio. Il New American cinema” di
Leonardi, reduce dal soggiorno con borsa di studio Fullbright a New York,
testimoniato dalla realizzazione del diario cinematografico dallo stesso titolo.
Come dai precedenti passaggi italiani, ad esempio, di P. Adams Sitney in
amicizia con Bacigalupo (da uno dei quali scaturì la prima, privilegiata
visione italiana dei Songs dello stesso Brakhage) o di Peter Kubelka,
che toccò con la sua concentratissima e rigorosa opera omnia più di una città.
Franco Quadri aveva già fiancheggiato da par suo l'approfondimento conoscitivo,
prima facendo scrivere dell’Exposition, poi dedicando al NAC un numero
monografico di «Sipario», in significativo unisono con la risonanza accordata
all’attività italiana del Living Theatre, o al fondamentale convegno sul
"Nuovo Teatro" e al relativo manifesto, che la rivista -partecipi tra
gli altri...- aveva organizzato a Ivrea presso che contemporaneamente alle
settimane dell’Unione Culturale. L'editore Bompiani commissionava e raccoglieva
nel contempo schede analitiche relative
ai libri sull’argomento apparsi nel frattempo negli Stati Uniti (Renan,
Battcock, Neff, Youngblood…), nessuno dei quali avrebbe peraltro ottenuto la
traduzione. Mentre Edoardo Bruno e
«Filmcritica» continuavano a seguire il divenire del movimento, grazie
soprattutto all'intelligente opera di mediazione condotta dagli stessi Leonardi
e Bacigalupo con Tonino De Bernardi. La nascita della Cooperativa Cinema
Indipendente completò presso che in simultanea alla tournée di Mekas il
prezioso travaso osmotico dell'esperienza d'oltreoceano nel farsi del nuovo
cinema indipendente italiano, che seppe coinvolgere, oltre a film makers puri
aspiranti tali, anche parecchi nomi di prima grandezza delle arti visive di
quel periodo.
Cosa
resta oggi di quella gloria e di quel sogno? Difficile parlarne in breve,
soprattutto perché il panorama tecnico-economico dei mezzi di cattura e
riproduzione delle immagini è talmente mutato da rendere quasi incomprensibili
le posizioni e i problemi di allora, a cominciare dalla sensazione di libertà
che potevano, forse illusoriamente, generare il pur paraprofessionale e costoso
16mm, e più facilmente l’”amatoriale” 8, poi fatto “evolvere” nel vincolante ma
economico super 8 (oltretutto solo a colori). Ma il mutamento radicale è stato
quello del quadro socio-economico complessivo, che ha comportato oltretutto uno
snaturamento radicale del rapporto con le immagini.
Proviamo
a riepilogare alla buona. All'epoca la sala cinematografica cittadina
tradizionale, organizzata in circuiti capillari gerarchicamente stratificati,
appariva il principale nemico da abbattere. Il primo segno inconfondibile e
imprescindibile di libertà e indipendenza, anche per lo spettatore e i suoi
auspicati nuovi modi di percezione del cinema
era il poter organizzare piccole proiezioni a passo ridotto in qualunque
ambiente aperto o chiuso, pubblico o privato. Oggi, polverizzata dallo
strapotere delle multisale, del megaplex e dei cineplex, che hanno eliminato
"i cinema" dai tessuti urbani centrali, deprivando oltretutto in
maniera irreversibile le fasce di spettatori più giovani e più anziani, la cara
vecchia sala appare come un indimenticabile e irrisuscitabile oggetto di
nostalgia. La facilità estrema con cui ciascuno di noi ora può istantaneamente
produrre immagini “proiettabili” o comunque visionabili altrettanto fulmineamente,
stronca indugi riflessivi e genera un effetto saturante e inflattivo che rende
fatalmente molto difficile, se non impensabile, distinguere il necessario dal superfluo,
il loglio dal grano. L’antico sogno democratico” della caméra stylo teorizzata da Astruc e auspicata dal generosamente
demitizzante Rossellini si è clamorosamente rivolto contro se stesso, in un
avvilente todos caballeros: un’oscura
nottata della visione in cui davvero tutte le vacche rischiano di essere nere.
Aveva
detto allora Tonino De Bernardi a Mekas all'Unione Culturale: «Caro Jonas,
grazie. Prima che tu venissi non avevamo ancora potuto vedere i vostri film in
relazione al fare i nostri. Ma li amavamo già tanto a distanza -ora ce ne accorgiamo- è come se li avessimo
già visti» (citazione ovviamente non testuale, ma sostanza corretta).
Quando,
il 1° aprile 1981, Pivano va “al cinema Palazzo” (oggi tornato, come alle
storiche origini, Sala Sivori…) della sua Genova, e vi vede “quattro film per
il Festival del cine underground degli anni Sessanta”, finisce per annotare che
“ormai i tempi gloriosi di Jonas Mekas erano finiti e già si cominciava a
respirare aria di naftalina”. Oggi buona parte di quei titoli, allora mitici e presso
che irraggiungibili, è facilmente reperibile e digitalmente "fruibile"
in rete. E, nella loro riconosciuta e ormai unanimemente accertata, financo dai
manuali, importanza, ci generano insieme un senso di nostalgia e di
indefinibile perplessità. Alla resa dei conti, come per tutte le avanguardie
ormai storiche, di gratuita e arbitraria, ma regalmente perpetua inutilità.
Come sempre ha da essere per le cose artistiche davvero importanti.