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Libri
“Dall’evento” di Martin Heidegger
Franco Livorsi


Vorrei fare alcune osservazioni sull’opera di Martin Heidegger (1889-1976) “Contributi alla filosofia (Dall’evento)” scritta nel 1936/1938, ma edita postuma nel 1989/1994 a cura di F. W. Von Herrmann, tradotta in italiano e prefata da Franco Volpi (Adelphi, Milano, 2007, pagg. 497, E. 60). Il libro del ‘36/’38 in oggetto, quantunque postumo, è considerato la seconda opera fondamentale nella vasta produzione di questo filosofo. Per ciò ha senso occuparsene proprio in tempi di discussione sul suo essere stato o meno veramente nazista a livello del suo pensiero profondo.

   Si tratta dello sviluppo e relativo superamento dell’”opus” del 1927 - non a caso incompiuto – “Essere e tempo” ( a cura di P. Chiodi, UTET, Torino, 1969). Là la questione della realtà in sé e per sé, o “essere”, era stata svolta con particolare riferimento alla condizione umana, colta nella spontanea coscienza profonda, ossia in relazione alle tendenze dette “esistenziali” (Contributi, p. 45, p. 60). Il più importante di tali modi di sentire di carattere antropologico (“esistenziali”) – che emergono dal nostro “essere nel mondo” o “esser-ci”, ci piaccia o non ci piaccia - sarebbe proprio la “temporalità”. Questo era così vero che “essere e tempo” nell’opera del ’27  significava quasi: “essere è tempo”). La temporalità, intesa come disposizione antropologica della coscienza umana, implicava il senso profondo della mortalità. La morte – opinava Heidegger -  ci attende sempre, non solo alla fine della vita, ma in ogni istante (in cui qualcosa dilegua). La gran massa delle persone - spiegava quell’Heidegger - fugge da tale consapevolezza ancestrale, permeata dal senso di inconsistenza, o assenza di radici, o d’”essere”, attraverso una specie di sublimazione fittizia: rifugiandosi nel mondo della “banalità e della chiacchiera”, detto pure del “si” (si dice, si fa), ossia in quella che tanti anni dopo sarà chiamata massificazione. Invece l’uomo “autentico” vivrebbe “per la morte”, sapendo che ogni sua decisione dev’essere netta, attimo per attimo: in fondo come se fosse sempre quella dell’ultimo  giorno. L’impostazione, profondamente pessimistica, influì molto su generazioni in crisi a ridosso della Grande Guerra e della crisi economico sociale catastrofica del ’29, e divenne poi una pietra miliare, a ridosso della seconda guerra mondiale, dell’esistenzialismo europeo, da Sartre e Merleau-Ponty a Enzo Paci. Ma Heidegger in seguito, forse alla ricerca di una soluzione, si studiò di superare quell’impostazione, prima in “Che cos’è la metafisica?” (1929, Adelphi, 2001), e più oltre soprattutto in “Contributi alla filosofia. (Dall’evento)”, su cui si concentra qui la mia attenzione.

   La condizione per uscire dallo stato descritto d’impossibilità esistenziale viene individuata nel superamento della metafisica, che riduce sempre  l’Essere all’ente, ossia la “vera realtà” o Natura originaria al “retto giudizio” umano (in greco orthòtes). In alternativa alla metafisica, che cerca di ridurre “l’essere” reale a concetto umanamente condivisibile, ci si dovrebbe volgere all’ontologia, ossia al “ciò che è” (in greco l’òn) come appare originariamente alla mente (Logos), vale a dire all’Essere, assumendolo come dimensione che viene sempre prima (p. 194). Se vogliamo servirci di tale apertura sull’Essere invece di ascoltarla semplicemente, non la sentiremmo più, l’avremmo già perduta. Quest’Essere si manifesterebbe piuttosto, alla coscienza profonda, meditante su di sé (p.73), come “non nascondimento” (in greco alétheia), ossia non come il frutto di un ragionamento astratto, ma come una presenza non creata da noi, però emergente dal suo “nascondimento” solo per nostro tramite. L’Essere qui non è “l’umano”, ma solo l’umano lo può manifestare, come se solo noi potessimo far luce su quell’Oscuro pieno di vita.

   Si potrebbe pensare che il primato dell’Essere rispetto all’Ente implichi una qualche forma di riscoperta di “Dio”, ossia di teocentrismo. Ma Heidegger, che pure in ultimo morì cristianamente (R. Safranski, “Heidegger”,1994, TEA, Milano, 1998, p. 518), per gran  parte della vita fu molto lontano dal Dio “persona” della Bibbia (e dei tre monoteismi: ebraico cristiano e musulmano). Non poteva assolutamente accettare Dio come persona, che in tal caso diverrebbe un mero ente tra gli enti (p. 131 e 135), connotato in quell’ambito dal più radicale antropomorfismo e antropocentrismo.

   In base al primato dell’Essere sull’esistente, ossia del Reale primario su ogni preteso raziocinio umano (p. 446), l’Essere è, semmai, identificabile con la Natura originaria. Per ciò ogni fisiocentrismo  è ritenuto migliore di ogni antropocentrismo. E infatti l’approccio  “ontologico” di Heidegger evidenzia una notevole affinità con il punto di vista poi caratteristico dell’ecologia profonda (p. 279), tanto che gli “ecologisti profondi” sono stati indotti a vedere in Heidegger un loro filosofo, come appare chiaramente in: B. Devall e G. Sessions, “Ecologia profonda. Vivere come se la Natura fosse importante” (1985, a cura di G. Salio, Gruppo Abele, Torino, pp. 101-102; ma su ciò rinvio al mio libro: “Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo”, Giuffré, Milano, 2000, specie alle pagg. 279-318).

   Ma ad Heidegger interessava soprattutto la prima Natura (“Essere”) come può essere vista dal punto di vista della Filosofia. Questa sarebbe stata colta dapprincipio, in modo suo dire insuperato per venticinque secoli, dai presocratici, con particolare riferimento a Eraclito e Parmenide (VI secolo a.C.), ritenuti diversi ma complementari. Essi ci dimostrano che solo un’intuizione empatica assoluta, una sorta di poetare filosofico (p. 40), può talora cogliere l’Essere in quanto tale, ossia come “non nascondimento” (alétheia). Tuttavia dopo i presocratici, specie da Platone in poi, in Occidente si sarebbe verificata una fatale confusione tra svelamento dell’Essere e giudizio dell’Io (retto giudizio inteso come preteso “bene” a misura dell’uomo in quanto uomo). Tale approccio, che riduce l’Essere a ciò che è vero per l’uomo, avrebbe dominato tutta la metafisica occidentale; ma poi da essa sarebbe dilagato nella scienza “applicata”, ossia combinata con la tecnica. Questa può anche essere utile, ma al pari della metafisica, diognimetafisica, piegherebbe la prima realtà o fysis o Essere a un giudizio puramente umana. Perciò  il mondo della scienza e della tecnica (detta anche “macchinismo”) sarebbe una sorta di metafisica secolarizzata, che ormai identifica il Vero con la progettazione e costruzione di strumenti, utili o dannosi (rimuovendo il problema della prima origine del reale, alias dell’Essere, che pure dà o - se non lo si coglie - non dà, senso al nostro vivere “umano”). Ciò avrebbe reso l’uomo schiavo del mondo della tecnica, il cui potere travalica ormai quello di qualunque individuo (pp. 159-161, e soprattutto p. 420). La scienza, sempre più legata alla tecnica (p. 159), tenderebbe a sostituirsi alla filosofia o ad asservirla, mentre filosofia e scienza sarebbero ambiti di pensiero importanti, ma del tutto diversi l’uno dall’altro (p. 169), paralleli ma non interdipendenti. Un nesso è innegabile, ma sarebbe la scienza a fondarsi su postulati sempre filosofici (p. 161). Anche se la filosofia - pure intesa come ontologia (in senso heideggeriano) - registra una specie di oscillazione perpetua tra Verità e non Verità, tra velamento e svelamento dell’Essere: il quale Essere solo così si fa intravedere (p. 158). Ciononostante la filosofia  resterebbe appunto il sapere più importante (che infatti condiziona molto le stesse rivoluzioni scientifiche, che avrebbero sempre postulati filosofici, quali essi siano nelle diverse epoche, come dice a p. 94 e p. 161). Il tradizionale rapporto di forte influenza della scienza sulla filosofia del suo tempo è insomma tendenzialmente rovesciato.

   A un certo punto la visione “ontica” invece che “ontologica”, ossia basata sul ciò che è a prescindere dal Logos che lo sovrasta, in filosofia però sarebbe stata smascherata. Dapprincipio avrebbe cominciato ad accadere dall’interno stesso dell’approccio scientifico (con l’illuminismo di Kant), ma soprattutto sarebbe accaduto con lo svelamento del carattere ingannevole di ogni intellettualismo da parte di Nietzsche (p. 357). Egli avrebbe condotto l’attacco contro tutta la metafisica da Socrate (che però era il Socrate “di Platone”) al razionalismo contemporaneo (p. 357). Lo stesso decisivo detto “Dio è morto” di  Nietzsche indicherebbe che la pretesa di vedere Dio come Persona - in sostanza a nostra “immagine e somiglianza”, anche se formalmente sembra il contrario - è falsa (p. 131, p. 135, p. 139, p. 149). Da ciò discenderebbe la falsità di ogni pensare per Valori, che non avrebbe più ragion d’essere, risultando una velleità dell’intelletto (p. 155). Ma Nietzsche stesso - il grande smascheratore della metafisica - sarebbe stato “l’ultimo metafisico”, perché - nel tentativo di esorcizzare il nichilismo dopo la morte di Dio e del connesso “Vero in sé e per sé” - avrebbe provato a sostituire l’Assoluto da lui “confutato” con una sorta di arbitraria egolatria, ossia inventando dei contro-valori “a volontà” (in senso anticristiano); insomma, avrebbe cercato di dare un’allure eroica al nichilismo invece di tentare una nuova apertura, effettivamente post-nichilistica, all’Essere (apertura che gli era preclusa dalla cultura ateistica, materialistica e pretesa scientifica dell’età del Positivismo, da cui pure si staccava già solo per la sua passione per l’eternità).

   Tale tratto caduco di Nietzsche sarebbe stato isolato ed enfatizzato in sommo grado dai filosofi e politici nazisti, come Baeumler, con cui - a proposito di Nietzsche - Heidegger  è  esplicitamente in totale disaccordo, nei suoi corsi universitari dal 1936 al 1939 (“Nietzsche”, Adelphi, 1994). I totalitarismi opposti avrebbero pure fatto di peggio (rispetto al Nietzsche più caduco), trasformando il mondo dell’ente ormai senza maschera - quello del “macchinismo” senz’anima - in una specie di neo-pensiero, ossia di “visione” pseudo-spirituale, ma in realtà di mera autoaffermazione cieca: “visione” nel caso del nazismo a sfondo biologico (pp. 67/69, pp. 77-78, p. 145, pp. 185/186, p. 277). Dopo i totalitarismi, secondo Heidegger sarebbe arrivato un nichilismo così totale da non essere neppure più sentito come nichilismo (p. 58, p. 118 e soprattutto pp. 155-157). Naturalmente ci si potrebbe chiedere perché Heidegger, anche dopo la breve fase delle illusioni gravi sul nazismo del 1933-1934, sia rimasto appartato, ma acquattato all’ombra del regime hitleriano sino al 1945. Per me ciò da un lato aveva a che fare con una visione del Moderno che per lui era come la notte in cui tutte le vacche sono nere; e, dall’altro, con un fenomeno di compromissione col potere di innumerevoli intellettuali sotto i regimi totalitari, che ha riscontri così innumerevoli da sbalordire solo  gli ingenui, pur restando moralmente deplorevole.

    Il nichilismo vivrebbe sempre i suoi “eroici” o miserabili furori. Eppure, secondo lui, un “nuovo inizio” - in cui, nel profondo della coscienza umana, il rapporto di dipendenza non sia più tra Essere e ente, ma il contrario (p. 195) - sarebbe possibile. Il poeta Hὄlderlin, che Heidegger considera come una specie di Giovanni Battista della nuova rivelazione dell’Essere (che però sboccando in Heidegger stesso evidenzia pure un parziale “complesso del redentore”, un po’ “paranoide”, come si può vedere a p. 51 e p. 329), l’aveva già del tutto intuito. In che cosa consista il nuovo essereggiare, comunque in Heidegger è oscuro, e addirittura volutamente tale, perché il darsi dell’Essere si baserebbe su un continuo nesso tra “velamento” e “svelamento” (p. 54), come se vedessimo l’Essere, nei rari individui cui sin qui è stato possibile (p. 56), solo attraverso un vetro opaco. Chi c’è riuscito o riesca con ciò si è collocato e colloca veramente al di là della contingenza del mondo (p. 89). Per Heidegger l’Essere si può svelare solo attraverso il linguaggio (p. 489), che è ritenuto la quintessenza dell’uomo. L’Essere è oltre e sopra l’uomo, ma dipende da lui nel suo manifestarsi (p. 455 e 470). L’uomo insomma, proprio in quanto parla e pensa, è l’ente aperto all’Essere, e viceversa (p. 338), in certo modo per natura (p. 455 e soprattutto p. 470). Egli è il solo che possa esprimere l’Essere, oltre che lo status di ente (come emerge alle pagg. 42, 73, e soprattutto 206 e 266). Può anche darsi che l’intreccio tra Essere che si manifesta ed ente possa concernere la vita collettiva, ma solo in seguito al suo rivelarsi a uomini “venturi”, i quali non hanno a che fare con la politica (p. 389).

   Finché l’Essere non torni a svelarsi, per l’umanità non ci sarebbe speranza. Più che un’attesa politica, vedrei, nell’insieme di questa decisiva opera, una sorta di aspettazione neo-religiosa, ulteriore al Dio personale e unico dei monoteismi e tale da risacralizzare la Natura senza tornare con ciò alle culture arcaiche. Il discorso “Dall’evento” - come dice il sottotitolo del libro - sa molto di discorso “Dall’avvento”, ossia dal seno dell’Essere. Questo è poi il senso della famosa affermazione fatta da Heidegger nell’intervista-testamento del 1966 allo “Spiegel”, per sua volontà pubblicata dopo la sua morte (1976): “Ormai solo un dio ci può salvare”  (Guanda, Parma, 2011). In Heidegger c’è comunque, dal 1930 alla fine, l’attesa di un nuovo “svelamento”.  Ci sarebbe una nuova forma del divino in cammino, al di là della doppia tirannia del Dio morto dei monoteismi (per lui Cristo compreso, p. 396) e al di là di un mondo della pura tecnica, magari in parte utile, ma che la perdita dell’Essere rende onnipotente, senz’anima (p. 118) e per ciò fuor di controllo e foriero di catastrofi. Di tale attesa del nuovo manifestarsi dell’Essere nell’uomo, e tramite l’uomo, Heidegger è stato un testimone di prim’ordine. In Filosofia forse lo è stato, nel XX secolo, quanto Nietzsche nel XIX, anche se è infinitamente meno coinvolgente e geniale di lui. Che cosa venga dopo questi testimoni del “tramonto dell’Occidente” e della necessità di un nuovo svelamento dell’Essere, non lo sa nessuno. Però la “cura”, l’angoscia per l’Essere perduto e da ritrovare superando ogni antropomorfismo e antropocentrismo, non era insensata. Rimane la nostra “cura”: quello di cui dovremmo curarci[1].

 

[1] Quest’articolo è comparso sul numero di maggio-giugno 2017 della rivista “Qui Libri”. Riproponendolo qui per “Città Futura on-line” ho introdotto alcune variazioni minime, tentando di accrescerne la leggibilità. Ho pure scritto una versione più ampia, un altro articolo sullo stesso “opus”, che uscirà prossimamente sulla rivista “Il Ponte”.

                                                                                                                                             (franco.livorsi@alice.it)

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