Il fatale 1977: e ora il "libro contro" di Elias Canetti (1). Il Sole, la Morte e il telefono
«Mia madre si sporse fuori con tutto il busto e si mise a gridare a voce
alta e stridula: "Figlio mio, tu giochi, giochi e tuo padre è morto. Tuo padre è
morto! Tuo padre è morto!».
«È come se dalla morte improvvisa di mio padre io fossi
rimasto lo stesso. La morte, che si annida in me da allora, mi ha
improntato di sé, e io non posso sbarazzarmene».
Elias
Canetti, La lingua salvata (1977)
«Né il Sole né la Morte si possono guarda fissamente».
François de la Rochefaucauld, Riflessioni o sentenze
e massime morali [citato da R. Rossellini
a chiusa de La presa del potere da parte di
Luigi XIV, 1966]
«Giunge inevitabilmente nella vita di ognuno il momento in cui nella
persona che si è diventati si riconosce il proprio padre».
Stefan
Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo (1942)
Non è cosa buona sfruttare testate on line amiche per condividere
autobiografie personali. Tento di guardarmene: per noi pensionati
ultrasettantenni, la spinta istintiva a volgersi all’indietro nella presunzione
illusoria di un potenziale uditorio è troppo insidiosa. Se oggi faccio
un'eccezione (non la prima e onestamente, temo, neanche l'ultima...) è per una
serie di coincidenze che trascendono le pur evocate vicende individuali.
Il click dal leggere, sul "Venerdì" di "Repubblica" del
7 u.s., l'anticipazione Adelphi dell'inedito postumo di Canetti Il libro
contro la morte, con un bell'accompagno di Marco Cicala. Nel mezzo secolo
seguito alle traumatiche scomparse successive dei genitori, il grande
narratore-saggista-drammaturgo bulgaro-tedesco era venuto via via cumulando
qualcosa come 15.000 pagine manoscritte di appunti ostili all'inesorabile
fenomeno del fine vita. «In Canetti quello shock non è un evento traumatico
arginabile entro confini psicanalitici. Seguìta da altre scomparse premature
(la madre, i fratelli, due mogli) la morte del padre diverrà il detonatore di un'impresa
gigantesca che, quanto meno per ambizione e audacia, può competere con le più
spericolate sfide letterarie del Novecento, da Proust a Joyce agli amatissimi
Broch e Musil» annota Cicala. E ancora: «Tutti muoiono. E allora? Canetti non
ci sta, punta i piedi, non vuol saperne di elaborare il lutto (formula sempre
in voga nelle ciance psicanalizzanti). Si ribella contro qualsiasi lutto. E'
lo scandalo della morte -non solo quella delle persone amate, ma di chiunque-
che lo spinge a diventare uno scrittore [sottolineature mie, n.d.r.]. Cioé,
secondo la sua definizione, Der Todfeind, il nemico della morte o nemico
mortale; uno che finché avrà carburante si batterà contro la perdita, la
sparizione, l'annientamento -specie se procurato dall'uomo- e di tutto ciò che,
nei modi della religione, della filosofia, della scienza o della politica,
legittima quel male assoluto o anche soltanto vi si rassegna». (Molto più
spiccio Claudio Villa a desiderare sull'epigrafe tombale l'asserzione
"Vita sei bella, Morte fai schifo": decisamente assai meno colta, ma
le coordinate di pensiero in fondo sono le stesse).
*****
L'8 luglio 1977 era un venerdì, contraddistinto dall'esatta situazione
climatica di questi giorni, quarant'anni dopo esatti: caldo sostenuto, sole a
piombo, cielo sereno. Abitavo da quattro anni ad Alessandria, al n. 8 (anche
lui...) di via XX Settembre, in un simpatico bilocale di proprietà dei genitori
di Roberto "Willy" Zaino. Ma stavo trascorrendo quella giornata in
municipio, chiuso in una stanzetta e alle prese, per la prima e unica volta in
vita mia, con un (oggi) antidiluviano dittafono a pedaliera. Trascrivevo il
famoso dibattito cittadino del 1964 all'allora Liceo Musicale, nel corso del
quale si erano fantasticamente accapigliati, in maniera e misura che sarebbero
state poi a lungo oggetto di mitizzazioni ambientali, Pier Paolo Pasolini
(invitatovi da Adelio Ferrero per discutere dell'appena uscito Vangelo
secondo Matteo), e Delmo Maestri, fieramente ostile al film e più in
generale, direi -almeno all'epoca- al sospetto cristo-marxismo dell’”usignolo
della chiesa cattolica”. Testo da abbinare ai pubblicandi atti del convegno
pasoliniano organizzato dallo stesso Adelio a Palazzo Cuttica nel febbraio
precedente. Incarico affidatomi dall'allora assessore comunale alla Cultura,
l'amico Franco Livorsi, per l'imminente -anzi, urgente: la retrospettiva completa
del cinema di Pasolini a Pavia era fissata per il settembre successivo, con
l'intervento personale di Adelio- pubblicazione pasoliniana che con felice
mediazione si era stabilito di realizzare, coedita, da Comune di Alessandria e
Provincia di Pavia, stanti i duplici ruoli giocati nelle sedi corrispondenti
dall'autorevolezza di Adelio e dalla sommessa compresenza del sottoscritto.
Nessuno avrebbe potuto immaginare che, da lì a poche settimane, Adelio non
avrebbe potuto, forse, neppure prendere visione della protocopia di quel
libretto blu, che provvidi di persona a consegnare a sua madre, nella
momentanea assenza di lui, sulla porta del terzo piano di via Lombroso 6. Era
una giornata attorno alla metà di settembre, alla vigilia dell'improvvisa crisi
che ne avrebbe comportato quel ricovero d'urgenza a Bologna dal quale non
sarebbe più tornato. Non l'avrei infatti più rivisto e mi chiedo tuttora, cosa
doppiamente vana, se abbia o meno potuto dare un'occhiata a quel piccolo ma
prezioso Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo. "Suo"
alla seconda potenza, dal momento che le relazioni al convegno, aggiungendovi
la propria dattiloscritta con la consueta precisione, erano state sbobinate
nelle precedenti settimane proprio da lui, a casa sua, con la collaborazione
devota di Giuliana Callegari. (Fior di relatori in quell'appuntamento, un parterre
des rois che oggi appare incredibile: Paolo Volponi e Roberto Roversi,
Giuliano Manacorda e Silvano Ceccarini, appunto Ferrero ma ahimè, a disdoro di
partecipanti e lettori, anche chi scrive). E che era stato sempre lui,
coll’aiuto cocciuto di un’altra grande troppo presto congedatasi, Grazia
Pierallini, a recuperare un po’ romanzescamente la bobina da magnetofono Geloso
del dire pasoliniano “in Alessandria”.
A ben guardare, tutta quell'operazione pasoliniana era nata sotto un segno
non incoraggiante. Ero a mia volta alla macchina da scrivere, molto presto
quella mattina domenicale del 2 novembre 1975, intento a compilare una scheda
per Porcile ad uso della retrospettiva preliminare al convegno che
Adelio stava allestendo con Comune e Circolo del Cinema presso l'Ambra, quando
folgorò il giornale radio con la notizia dell'assassinio del poeta. Ma è tempo
di tornare all'8 luglio 1977.
Al ritorno a casa in pausa pranzo (locuzione all’epoca inesistente…) dalla
trascrizione, ecco in casella ben tre successivi avvisi di appuntamento
telefonico al posto pubblico, scaduti in successione. I tagliandini riportano
solo il luogo di chiamata, Rapallo, dove risiedevano i miei genitori,
sprovvisti di telefono domestico alla pari di me. Mi allarmano e il luogo di
provenienza e l'insistenza: mio padre e mia madre persone tranquille e
metodiche, anche troppo; i rapporti, in quegli anni agitati e inquieti, non
particolarmente oliati e frequenti.
Mi precipito a mia volta al posto telefonico pubblico, allora in piazza
della Libertà, e fisso anch'io un appuntamento reciproco a breve scadenza,
indicando “al buio” l'indirizzo di famiglia come recapito. La forte
preoccupazione non era naturalmente infondata: era intervenuta, alle cinque del
mattino di quel giorno, la scomparsa improvvisa di mio padre ("infarto
secco", decreterà irritualmente l'attestazione ospedaliera: aveva
lamentato un malore indistinto verso l'alba, e col pur prontissimo intervento
dell'ambulanza non era stato possibile farlo giungere vivo all'ospedale).
*****
Giunto alla tenera età di trentun anni, non solo non avevo mai visto un
cadavere in vita mia, ma neppure, sinceramente, ancora mai formulato, neppure
in abbozzo, il pensiero che in qualche modo la Morte potesse riguardarmi di
persona: nè in modo indiretto, né tanto meno diretto. Il ritrovarmi da solo,
appena sceso dal treno (allora l'ospedale locale confinava con la stazione) di
fronte alla salma paterna nel piccolo obitorio del nosocomio rapallese fu forse
il primo momento davvero alienante –ma anche “reale”!- della mia
esistenza.
Si dischiudeva improvvisamente in tutta la sua ampiezza un fino ad allora
mai concepito mondo nuovo a tinte insieme neutre e fosche, in cui peraltro nei
decenni successivi avrei avuto modo di dovermi muovere con inusitata, reiterata
e repentina ampiezza. Storditi, ci ritrovammo soli, alle esequie, mia madre ed
io, con alcuni parenti casualmente al mare da quelle parti proprio in quei
giorni: la gigantesca Casa di Riposo a Cielo Aperto ligure nella quale i miei
avevano deciso di concludere, come tanti, l'esistenza, produceva forse
superficiale sollievo, ma non certo socialità.
Tre costanti di comportamento mi indispettivano in mio padre finché ero
vissuto in famiglia: la disponibilità a qualsiasi assenso pur di prevenire
discussioni domestiche, anche quando era intuibile il suo interiore dissentire;
la tendenza nell'età matura a ripetere sempre le stesse cose; il tenere, in
posizione di riposo, le mani giunte tra petto e stomaco in un assetto che
sembrava appunto la prova generale di un avvenuto trapasso. E' passato mezzo
secolo da quelle piccole intolleranze, e mi ritrovo con stupore addosso tutte e
tre le tendenze, come se avesse voluto vendicarsi trasmettendomele in modo
quasi congenito.
L’odissea tragica di quelle mancate o differite chiamate telefoniche
pubbliche e la persistenza di genitori lontani esortavano alla prevenzione La
salutare lezione del disperante corto circuito comunicativo sortì l’ovvio
effetto precauzionale: di far installare, al rientro dalle vacanze, molteplici
apparecchi domestici. Ventuno anni dopo, mia madre avrebbe avuto salva la vita
grazie a quel primordiale gesto tardivo, esteso quasi a viva forza anche al suo
remoto domicilio).
La novità, peraltro, non sarebbe stata a sua volta di buon auspicio: il
primo risuonare in assoluto di quel trillo emesso dal telefono nuovo fiammante
sarebbe stato quello della voce rotta di Enrico Foà che metteva a parte della
tragica dipartita, a Bologna, di Adelio Ferrero, intervenuta il giorno
precedente. Era il 23 settembre di quello stesso '77.