Diga di Molare. Una vicenda che merita approfondimenti
Chi
scrive si è laureato in Scienze Geologiche presso l’università di Genova nel marzo
del lontano 1971, ed ha sentito parlare del disastro del 13 agosto 1935 della
diga di Molare nella media valle dell’Orba direttamente dal capo dell’Istituto
di Geologia, professor Sergio Conti, titolare del corso di Geologia. Il Conti
lo attribuiva a sottopressioni dovute alle acque dell’invaso, che sbriciolarono
la roccia, peraltro già fratturata, e mi pare di ricordare avesse detto micro
fratturata, alla base della diga secondaria di Sella di Bric Zerbino che
vedremo. Inoltre se ne parlò di sfuggita nel corso di Geologia Regionale, in
quanto il Gruppo di Voltri, ovvero il vastissimo complesso di rocce ofiolitiche
in cui si apre la valle dell’Orba, era oggetto delle nostre mete. Ed era da noi
studenti ben conosciuto per discussioni sull’originale teoria del professor
Conti, che lo riteneva di origine metasomatica e non metamorfica, come ritiene
la pressoché totalità, se non totalità,
degli studiosi. Ma sul Gruppo di Voltri compimmo solo una “gita” geologica, mentre
la campagna di geologia la svolgemmo altrove in due stazioni diverse, nell’alta
Val Graveglia sull’Appennino orientale ligure, e sulle Alpi in Val Germanasca.
Tuttavia conosco la zona per escursioni personali di studio, in seguito per scarpinate
abbinate a gite in auto verso torrenti appenninici in cui fare il bagno, ma
anche per i miei lunghi giri in bicicletta da corsa. E, anzi, una volta scesi
dalla piana di Tiglieto con la bicicletta in spalla, rischiando ad ogni passo
di scivolare, con le scarpette da bicicletta da corsa, sui massi levigati di
ciò che una volta era una strada, sino a raggiungere la stradina asfaltata sul
versante sinistro dell’Orba. Purtroppo sono passati troppi anni, e non riesco
più a visualizzare il lago attuale di Ortiglieto, che potrebbe essere quello
che vidi in prima media quando mi accodai a una gita scolastica della scuola elementare
del mio paese, Castellazzo Bormida. Infatti attualmente esiste un altro lago di
Ortiglieto, altro perché, in documenti presentati da Vittorio Bonaria, si
chiama di Ortiglieto il lago dovuto alla diga di Molare. Ciò potrebbe creare
equivoci, per cui voglio spendere alcune parole sul secondo lago di Ortiglieto.
Innanzitutto
Ortiglieto era una frazioncina che fu sommersa dall’ultimo tratto del lago
dovuto alla diga di Molare, ritengo al momento della piena causata
dall’alluvione del 13 agosto 1935. L’attuale lago di Ortiglieto, per cui
rimando alla mappa di figura 1 e alla fotografia 5, è generato da una diga,
alta solo 13 metri,
impostata nel 1940 esattamente 450 metri a monte di Sella di Bric Zerbino. L’attuale
lago di Ortiglieto costituisce solo la
porzione di coda del primitivo lago di Ortiglieto dovuto alla diga di Molare,
e, illuminante a questo proposito, è il sito <
http://www.molare.net/la_diga/la_diga_ortiiglieto.html >, assieme ai suoi
collegamenti, il tutto peraltro curato da Vittorio Bonaria.
Dopo
questa premessa, devo dire che credevo di conoscere discretamente bene le cause
del disastro della diga di Molare, finché recentemente ho dovuto ricredermi
leggendo il libro di Vittorio Bonaria, devo dire tardivamente, ma il carico di
libri in attesa di essere lette, e spulciati, non è da poco ed è in costante
perenne aumento.
La
differenza sostanziale tra i precedenti libri e articoli scritti sull’argomento,
che Vittorio Bonaria prende in considerazione, consiste nel fatto che l’autore
ha visionato la documentazione allegata al processo per il disastro, iniziato
presso la Regia Procura di Alessandria nel 1935, poi avocato dalla sezione
istruttoria della Regia Corte d’Appello di Torino, e siamo a p. 253 del libro
di Bonaria, con sentenza emessa nel 1938. Di conseguenza Vittorio Bonaria è
stato in grado di rifare la complicata e contorta vicenda che portò alla costruzione della diga di Molare, la principale, e della diga secondaria
di Sella di Bric Zerbino. Oltre a ciò ha controllato giornali dell’epoca, ha
recuperato testimonianze scritte, e raccolto personalmente testimonianze orali di
superstiti prima all’evento, poi al tempo. Alcune testimonianze sono
importanti, in quanto vi sono discrepanze tra ciò che videro alcuni testimoni,
anche come tempi del disastro, e ciò che emerge dagli atti processuali.
Il
libro è ricchissimo di illustrazioni d’epoca sparse per il testo, e in più ha
una sezione finale di fotografie attuali a colori. Inoltre, nel testo sono distribuiti
particolari di carte topografiche, ma si sente la mancanza di alcune carte
fuori testo, ripiegate e di dimensioni maggiori, sia per un facile loro
reperimento, sia per una miglior lettura cartografica della zona, e quindi per
una migliore comprensione di alcuni particolari delle vicende. Al di là di ciò,
consiglio vivamente il libro a chi voglia approfondire le sue conoscenze sui
motivi per cui si giunse al tragico evento, e già la preziosa prefazione di
quel magnifico divulgatore scientifico che è Luca Mercalli ripaga una parte del prezzo.
Temo
che pochi sappiano cosa successe, per cui qualcosa devo dire, anche se è quasi
impossibile far capire tutte le vicende senza un’abbondante cartografia appropriata
(ma vedi le carte e mappe delle figure
1, 2, 3, 4, e la fotografia 2).
Come
prima annotazione, nella mattina di martedì 13 agosto 1935 sull’Appennino interessante
il medio ed alto corso dell’Orba, e aree adiacenti anche sul versante ligure,
si scatenò un nubifragio che è difficile valutare, in quanto lungo valle
dell’Orba vi era un solo pluviometro, a Piampaludo, che registrò nella giornata
453 mm
di pioggia, e radi erano i pluviometri nelle valli e aree adiacenti, necessari
per estrapolazioni statistiche per delineare e delimitare il fenomeno. Comunque
le precipitazioni, peraltro concentrate, furono la massima registrazione europea
di pioggia nelle 24 ore sino ad allora registrata. I massimi si verificarono,
so dalla tabella di p. 232 del libro di Bonaria, a “Lavagnina (centrale)” con 554 mm, più di 500 mm a Rossiglione, mentre ad Ovada caddero
“solo” 300 mm
di pioggia, e a Gavi Ligure 240
mm. Sono tutte località nel bacino dell’Orba, ma
Rossiglione è sulla Stura, che confluisce nell’Orba proprio a valle di Ovada,
e Gavi Ligure è sul Lemme, che confluisce
nell’Orba molto più a valle, oltre Predosa, pertanto le loro piogge furono ininfluenti,
assieme a quelle registrate ad Ovada, per provocare l’onda di piena che causò
il disastro. Per completare il quadro, aggiungerei che a Piancastagna e
Sassello, sul torrente Erro, caddero rispettivamente 201 e 193, e
212 a
Casinelle, sulla Bormida. Sulla valle dell’Orba le relazioni tecniche al
processo valutarono, mi comunica in un suo messaggio Vittorio Bonaria, una media di 364 mm di pioggia, sempre
nelle 24 ore. Ciò giustifica una forte piena, tenuto conto che nelle ore
centrali vi fu una sospensione delle precipitazioni, ma non il disastro di cui
fu solo una concausa, e, a mio giudizio, per quel che vedremo, nemmeno
eccessivamente importante.
A
questo proposito occorre subito dire che l’onda di piena fu scatenata dalla
precipitazioni avvenute nel mattino, da circa le 7,30, che si interruppero intorno
mezzogiorno, per riprendere un’ora, un’ora e mezzo dopo, tanto che alcuni
testimoni ritennero che fosse piovuto di più nella precedente grande alluvione dell’Orba
del 1915. Annoto che nei vari progetti, presentati nel corso degli anni, che
portarono alla costruzione della diga di Molare, non sono mai nominati
pluviometri da inserire per poter avere dati pluviometrici, utili almeno per uno
studio del deflusso regolare delle acque dell’Orba anche solo per la produzione
di energia elettrica. Ma io direi che fossero necessari pluviografi, i quali
registrano nell’unità di tempo le precipitazioni, in quanto a scatenare le onde
di piena distruttive non è solo, o soltanto, la pioggia nelle 24 ore, quanto la
pioggia concentrata in poche ore, se non in poche decine di minuti. E ciò serve
a fini statistici a calcolare il rischio di piene improvvise e violente, e
quindi a impostare dighe, ma anche strade di fondovalle. I dati statistici
possono essere criticabili, e sul punto ritorno, ma sono comunque necessari per
le conoscenze generali del bacino pluviometrico afferente all’invaso.
Come
seconda annotazione, occorre immaginare un meandro incassato che si rivolge su
sé stesso come una biscia, una specie di C con le “braccia” quasi chiuse, per
cui rimando ancora alla fotografia 2 e alla cartografia allegata già segnalata.
A un terzo di questo meandro fu costruita, trasversalmente al corso dell’Orba,
la diga di Molare, la principale, e dove il corso dell’Orba, nel meandro più a
monte di 500 metri,
pare toccarsi, a lato in sponda sinistra, si realizzò la diga secondaria di
Sella di Bric Zerbino. Ed è lì che l’Orba, frantumando la diga secondaria e la
roccia alla sua base, si aprì di colpo un corso che, tagliando fuori la diga
principale, fu responsabile dell’onda di piena che spazzò la valle inferiore
dell’Orba, producendo oltre 100 morti, pare 111. Ma non credo che, come succede
in questi disastri, si possa sapere il numero esatto delle vittime. Per
esempio, furono riesumate in seguito dai ghiaioni dell’Orba due salme non
identificate che nessun comune, o parente, reclamò. Si suppose fossero due
zingari accampati ad Ovada, ma secondo lo scrivente potevano benissimo essere
due persone provenienti da altri luoghi e di passaggio al momento
dell’alluvione.
La
diga di Molare rimase intatta, ed è ancora lì, alta 47 metri, monumento del
disastro, anche se di accesso quasi impossibile senza una guida, tanto che
Vittorio Bonaria termina il libro, alle pp. 303 – 313, con un paragrafo
intitolato “Come raggiungere la Diga di Molare”, denso di schede escursionistiche
e di una carta colorata con i vari itinerari. Comunque io, che ho scarpinato per
bricchi e per valli, comprese forre, e risalendo torrenti montani come unico “sentiero”
possibile, a parte che non ho più l’età per certe cose, se vi provassi senza
guida mi perderei sicuramente. Ed ho trovato siti escursionistici internet che
sconsigliano di avventurarsi. Tuttavia Monica Marzocchi, la redattrice di ITER,
prendendo in mano lo scritto per la pubblicazione, precisa:
Posso
essere d’accordo con lei se cerchiamo di raggiungerla dal versante del lago di
Ortiglieto in quanto bisogna attraversare il fiume e lì a causa di diverse
frane non si riesce a trovare il sentiero. Ma dalla parte di Rossiglione da
case Garrone il sentiero si vede facilmente e prosegue in piano per pochi Km e
in pochissimo tempo si giunge alla diga.
Però,
non pensavo Monica Marzocchi così buona scarpinatrice.
Tornando
a Vittorio Bonaria, posso dire che segue passo a passo le complesse vicende che
portarono alla costruzione della diga a gravità di Molare, a partire dall’anno
1898 e dalle costituzioni di società per collocare una diga nel retroterra
padano di Genova, necessaria per rifornire questa città sia d’acqua, mediante acquedotti
parte intubati sottoterra, sia d’energia elettrica. In questo primo progetto si
trova l’unica relazione geologica nella storia dei vari progetti, redatta dall’ing.
prof. Francesco Salmoiraghi (1837 – 1910), un pioniere e luminario della geologia
applicata. Però in tutto sono poche paginette, e non fu redatta in base a
sondaggi, ma solo sull’analisi di superficie del terreno, e su alcuni campioni
di roccia raccolta, come avrei potuto fare io alla fine del terzo anno del
corso di geologia. Siccome in quel progetto la superficie dell’invaso sarebbe
stata sensibilmente inferiore alla Sella di Bric Zerbino, sulla sella non venne
previsto nessun rialzo, per cui la relazione geologica non s’interessa particolarmente
al punto.
Ma
perché si giunse alla costruzione di questa diga secondaria? Vittorio Bonaria
ce lo spiega alle pp. 83-90. Nel progetto successivo del 1899, sulla Sella di
Bric Zerbino fu progettato uno sfioratore come unico sistema di smaltimento
delle eventuali acque travalicanti la sella. Il medesimo progettista,
l’ingegnere Zunini, nel 1903
in luogo dello sfioratore progettò una diga alta 10 metri, in quanto la
quota dell’invaso, sopraelevando la diga principale, fu portato da 311 a 320 metri sul livello del
mare. Saltando alcune fasi progettuali, in un variante del 21 maggio 1924,
quindi a costruzione della diga principale quasi ultimata, il progettista ingegnere
Gianfrasceschi portò la diga secondaria a 15 metri d’altezza, in
quanto la diga principale era stata sopraelevata di un poco, innalzando la
quota massima dell’invaso a 322
metri sul livello del mare, con un cubaggio a massimo
invaso di 18.000.000 di m3 ed un bacino di 141 km2, lungo
5 km. E
in un’ulteriore variante del 10 ottobre
dello stesso anno, l’ingegnere Gianfrasceschi prevedeva la realizzazione della
diga secondaria “a totale gravità”.
Si
sarà notato che la quota dell’invaso era aumentata di soli due metri, mentre la
diga secondaria fu aumentata di 5
metri. Mi sono domandato a lungo il perché, la cui
risposta è banale: durante alluvioni, la massa d’acqua contenuta in un bacino
fluviale, che è fluida e fluisce, non è statica ma dinamica, per cui la sua
superficie degrada, diminuendo da monte verso valle, e ciò giustifica una
sopraelevazione maggiore della diga secondaria che era più a monte della diga
principale.
Fatto
sta che già nel 1923 la diga di Sella di Bric Zerbino, in pietra e calcestruzzo non armato, era
pressoché ultimata, e si sa che fu costruita in modo sbrigativo risparmiando sui
costi. In effetti sappiamo ampiamente che alla sua base si verificarono perdite
per infiltrazioni di acqua, e a p. 221 Vittorio Bonaria mostra una bella
fotografia della diga secondaria con quattro punti di perdita segnalati da
frecce bianche. Nel 1924 si cercò di rimediare, siamo a p. 220, a queste perdite con
iniezioni di calcestruzzo che “non ebbero risultati apprezzabili”. Da una nota
del Genio Civile, che presenziò ad
alcune trivellazioni, si sa che la roccia assorbì una grande quantità di
calcestruzzo, e ciò significa, aggiungo io, che il terreno di fondazione era molto
fratturato, il che non era un buon viatico per una diga.
Per
proseguire con la panoramica sui difetti della diga di Sella di Bric Zerbino, sottolineerei
il fatto che fu progettata e costruita per non essere tracimata, ed adesso ne
sappiamo il perché, per cui non fu provvista di alcun tipo di scarico, anche
solo uno sfioratore, uno scolmatore superficiale, nel mentre il paramento di
valle non era adeguato per costituire uno scivolo in caso di tracimazione. Dopo
l’evento, rimasero i tronconi delle due spalle, ma vennero immediatamente, e
assurdamente, asportati dalla O.E.G. (Officine
Elettriche Genovesi), la società che ebbe in mano progetto e costruzione
del complesso. Pertanto non si poté esaminare la qualità del calcestruzzo, come
l’incastro nella roccia, ed io ritengo si trattasse di sottrazione di corpo di
reato. Vittorio Bonaria non segnala documenti in proposito negli atti
processuali, a meno che mi siano sfuggiti, e poi non più rintracciati, nella marea
di documentazione prodotta da Vittorio Bonaria. Pertanto ho domandato via e-mail all’autore di fornirmi un chiarimento. La
risposta l’ho avuto giovedì 10 dicembre 2015. Siccome essa è interessante ed
aggiunge qualche tassello al puzzle, la riproduco coi tasti come incolla:
Non vi furono
valutazioni quantitative del calcestruzzo della diga secondaria (di armature
non ve ne erano essendo la diga a gravità e non in cls armato). E’ vero che dopo pochissimi
giorni le oeg demolirono i monconi. Tuttavia vennero fatte numerose fotografie
che vennero utilizzate qualitativamente nel dibattimento.
Due di questo
sono riportate nella pagina allegata facente parte della Perizia Accusani/Peretti
(1936) a favore della Parte Civile dove è ben evidente (le due immagini non
sono buone ma posso recuperarne di migliori) che il moncone di destra era appoggiato
a roccia totalmente disarticolata e poco competente, mentre il moncone di
sinistra addirittura su un riporto.
Il che, per una
diga, era un altro cattivo viatico. In ogni caso, se tutto è così, il tribunale
non si peritò, e uso un gioco di parole, di periziare ciò che restava della
diga secondaria. “cls” abbrevia ‘calcestruzzo’ “le oeg” è da intendere
‘personale dell’O.E.G.’ La “pagina allegata” è un allegato mostrante due
fotografie dei tronconi da giornali dell’epoca, la cui qualità è pessima, per
cui si capisce poco o nulla, salvo intuire uno sfasciume.
Vediamo
un’altra assurdità. Al processo, la relazione geologica Salmoiraghi 1898 non fu
allegata dalla O.E.G. al progetto di quell’anno, e nemmeno al progetto
definitivo, bensì al progetto del 1921 dell’ingegnere Gianfrasceschi, e,
siccome non era datata, giudici e periti di parte civile dovettero ritenerla
datata al 1921. E ciò non mi pare casuale, in quanto l’ingegner Gianfranceschi
morì prima del processo, quindi non poteva né testimoniare né figurare come
imputato. Ma non è ancora tutto: pur essendo la stessa identica relazione, non
era firmata dall’ingegnere Francesco Salmoiraghi, bensì dall’ingegnere Angelo
Salmoiraghi! Vittorio Bonaria ha trovato che, nell’albo degli ingegneri di
Milano, esisteva all’epoca un ingegnere Angelo Salmoiraghi, ma era
specializzato in tutt’altro campo, strumenti ottici, tanto che fu il fondatore
della “Salmoiraghi”. E, anche in questo caso, che io sappia al processo nessuno
si peritò di domandare lumi a questo ingegnere, che nulla avrebbe potuto
peraltro dire sulla relazione. Però, come testimone e sotto giuramento, avrebbe
dovuto dire se la firma era la sua o se fosse falsa, ma sarebbe bastato anche
solo una perizia calligrafica, che, per quel che ne so, non fu fatta. In ogni
caso, si trattava di uno scandalo che sarebbe stato sufficiente a orientare tutto
il processo, e che al processo non ebbe particolare risalto.
Ma
tutto ciò non bastava, vi è ancora altro. Il tribunale, non contento dei suoi
periti che evidenziavano qualche pecca nella progettazione dell’opera, nominò
come consulente un luminario di idraulica, il professore ingegnere Giulio De
Marchi (1890 -1972), ricordato dagli addetti ai lavori in quanto promotore, nel
1918, dell’estensione del servizio idrografico a tutto il territorio nazionale.
Esso divenne noto a tutti gli italiani dopo le alluvioni nel Veneto e di
Firenze del 1966, in
quanto alla fine di quell’anno fu costituita la commissione interministeriale
“De Marchi”, con Giulio De Marchi presidente, per lo studio e la sistemazione idraulica
e la difesa del suolo. La commissione era più nota ancora ai geologi, e agli
studenti di geologia come lo scrivente, in quanto tra i suoi membri mancava la
figura più importante, il geologo! Dopo questa premessa, siamo a p. 265 del
libro di Vittorio Bonaria, la relazione de Marchi sul disastro di Molare sostiene che la capacità di scarico del “lago
artificiale di Ortiglieto” corrispondeva “alle direttive tecniche
universalmente accettate all’epoca della costruzione delle due dighe”. Ma Giulio
De Marchi non prese in considerazione il non funzionamento della colossale
valvola a campana o “Verrina”, e il cattivo funzionamento dello scarico di
fondo. E a questo proposito, siamo in fondo a p. 265, Vittorio Bonaria riporta
un brano della sentenza: “Per ciò che riguarda gli organi di scarico l’accusa
ha già retroceduto, negando, secondo quanto venne esposto, il nesso di
causalità fra il mancato loro funzionamento e il disastro, cosicché non è più
necessario occuparsi ulteriormente di questo argomento”. Il che mi pare un
assurdo, uno dei tanti del processo e della sentenza, in quanto si volle
togliere, nel dibattimento, una grave responsabilità della società
costruttrice.
Nella
pagina seguente e successiva, Vittorio Bonaria riporta un lungo brano della relazione
De Marchi, in cui si ammette che la capacità degli scaricatori fu
insufficiente, però, precisa De Marchi, ciò colpisce l’uomo della strada “per impulsi sentimentali“, ma
non il tecnico, col che giustifica tutto. Nel seguito, Vittorio Bonaria
sunteggia alcune posizioni di Giulio De Marchi in relazione alla capacità di
scarico superficiale del bacino. Essa “era pari a circa 860 m3/s,
“che rapportati all’estensione del bacino, pari a 141 km2, corrispondevano a
circa 6 m3/s per ogni chilometro quadrato di bacino”. Però, siccome
il giorno fatidico il livello del lago prima della tracimazione era di 324,50
msl, pari alla quota del coronamento della diga principale, gli apparati di scarico superficiale della
diga, i sifoni e lo scolmatore,
scaricarono 7,3 m3/km2, quindi più di quanto progettato.
Pertanto per evitare la tracimazione non si sarebbe dovuto superare questo
valore, dice la relazione come se fosse una giustificazione, tenuto anche conto
che alla Sella di Bric Zerbino, per quanto da me detto prima, la quota delle
acque poteva, o piuttosto doveva, essere in quell’istante maggiore. A questo
punto Giulio De Marchi, prendendo in esame i 54 invasi esistenti, o in fase di
realizzazione, al febbraio 1926, dimostrò che la capacità de “la Diga di Bric
Zerbino era conforme al modo operandi dell’epoca”. E ciò fu recepito dalla
sentenza, in un brano riportato in una lunga citazione alla pagina successiva,
267. E quindi di chi era la colpa del disastro per il tribunale? Di nessuno,
salvo il cielo, aggiungo io.
Vittorio
Bonaria, a commento, in realtà un anticipo
tra le pagine 265 e 266,
in base alla sentenza conferma che, se anche gli organi
di scarico avessero funzionato, la tracimazione sulle due dighe vi sarebbe
stata lo stesso, “e dunque il crollo sarebbe stato inevitabile con circa 25
minuti di ritardo come le perizie si premurarono di calcolare”. Ma io, se fossi
stato perito del tribunale (e come geologo fui perito di un altro tribunale),
avrei indagato in ogni caso sul rapporto tra le manchevolezze negli scarichi e
le cause del disastro. E questo procedere sarebbe stato tanto più valido in
quanto anche un ritardo di soli 25 minuti nel crollo della Sella di Bric
Serbino e della diga che reggeva, avrebbe potuto salvare numerose vite, avendo
a disposizione più tempo per avvertire le autorità e la popolazione, quando, in
quelle circostanze, i minuti sono preziosi, e lo sanno bene coloro che si sono
trovati in mezzo ad alluvioni, come lo scrivente.
Oltre
a ciò, alle pp. 267-268, Vittorio Bonaria segnala che “i bacini più prossimi ad
Ortiglieto” (il lago di Ortiglieto primitivo, preciso io), come quello sul Gorzente,
“avevano portate di scarico per chilometro quadrato decisamente superiori ad
eccezione del lago della Lavagnina Superiore che di fatto era poco più di una
briglia”. Siccome è una trattazione troppo complessa, salterei il fatto che la
relazione De Marchi non prenda in considerazione la capacità dell’invaso, un
parametro assai importante, perché è quello che determina il volume di acqua da
scaricare in caso di tracimazione, e rimando alle pp. 267-268 del libro di Bonaria
per eventuali approfondimenti.
Già
la serie di manchevolezza viste tolgono le basi all’attendibilità della
relazione De Marchi, che, forse proprio per questo, fu fatta propria dal
tribunale. Anzi, siccome i due periti del tribunale avevano risposto a De
Marchi asserendo che non era stato calcolato un coefficiente di sicurezza per
la portata degli scolmatoi, cosa che in campo ingegneristico si deve fare per
qualsiasi fattore, per esempio la portanza dei terreni, la quantità e qualità
del tondino di ferro nel cemento armato, ecc., Giulio De Marchi, che era
davvero un erudito nel suo campo, rispose loro che, in “alcuni progetti
idraulici”, firmati dai due periti del tribunale, non vi era il computo di un
coefficiente di sicurezza. Ora se i due periti avevano sbagliato, ciò non
giustifica la mancanza di un adeguato coefficiente di sicurezza per il volume e
flusso di scarico degli scolmatoi della diga di Molare. Eppure nella sentenza
del tribunale si ironizza sui due periti per questo fatto, e, in proposito, Vittorio
Bonaria a p. 269 riporta il brano della sentenza. Infine, meloncino sulla
torta, nella relazione De Marchi non si fa cenno al fatto che gli scolmatoi
della diga principale in gran parte non funzionarono, e quelli che funzionarono
operarono in regime ridotto, e su questo fatto ritorno.
Secondo
i giudici del tribunale, i vari progettisti e dirigenti O.E.G., che si erano
succeduti nel corso degli anni, non risultavano responsabili, salvo uno.
Infatti l’unico responsabile riconosciuto dal tribunale risultò essere
l’ingegner Gianfrasceschi, che, siamo nella farsa sebbene macabra, non era più
imputabile in quanto nel frattempo morto. Tuttavia non aveva agito come libero
professionista essendo, tra il 1921 e il 1926, essendo un dipendente stipendiato
dall’ O.E.G. Però, nel contratto di
assunzione vi era la clausola che la responsabilità della diga era sua, il che
pare un assurdo, in quanto il responsabile di tutto è il presidente della
società o chi per esso. Naturalmente non avevano responsabilità i due dipendenti
a valle della diga di Molare, dove vi era la centrale e l’officina elettrica,
che con due telefoni di una sola linea diretta all’O.E.G. (passando però per un
altro telefono), dovevano trasmettere comunicazioni proprie e quelle ricevute
da Abele De Guz, controllore della e sulla diga principale, con abitazione a
lato di essa. Questi telefoni stabilivano, per giri tortuosi e lunghi, i
collegamenti tra diga e dirigenza, mentre sarebbe stato necessario un
collegamento con la rete telefonica nazionale, in quanto già intorno alle 10,30
del 13 agosto 1935, chi era sulla diga, prevedendo la tracimazione alla diga
principale, avrebbe potuto avvertire immediatamente il prefetto e i sindaci per
far evacuare la valle dell’Orba, e ciò avrebbe risparmiato vite. Ma, nella
sentenza, si asserì che questi complicati giri comunicativi furono ininfluenti.
Si
tenga presente che la linea difensiva O.E.G. si basava sul fatto che i vari
progetti presentati erano a termini di legge, in quanto i Decreti Ministeriali
del 13/4/1921, 25/51924, 21/4/1925, siamo a p. 277 del libro di Bonaria, erano
tutti posteriori a ciascuno dei progetti
presentati. Ma Vittorio Bonaria osserva che, se la variante ultima del 1926 riguardava
alcune modifiche non sostanziali all’impianto, almeno la variante del 1924 della diga secondaria non riguardava
semplici modifiche al progetto, e quindi avrebbe dovuto rispettare almeno il
D. M. 2 aprile 1921. Infatti in questa variante, oltre ad inserire 12
sifoni scaricatori nella diga principale, che vediamo nelle fotografie 3 e 4, si
modificava sostanzialmente la diga secondaria di Sella Zerbino, “che divenne di
sola ritenuta e quindi non tracimabile”, con tutte le conseguenze che sappiamo.
Infine,
al processo nessuno si curò di segnalare il fatto che il custode Abele De Guz
avvertì la dirigenza che gli scaricatori di fondo della diga principale non
entrarono in funzione in quanto, udite udite, non erano ancora collaudati, e
non si collaudarono mai perché si temevano vibrazioni al corpo della diga. E si
tenga presente che l’invaso iniziò ad essere riempito, e fu utilizzato
illegalmente producendo energia elettrica, prima che fosse avvenuto il collaudo
della diga! Ma non solo, Abele De Guz per telefono avvertì che gli scarichi di
superficie erano bloccati dai tronchi d’albero, che gli sfiatatoi sotto il
coronamento erano in gran parte inattivi per intasamento, e che la grande
valvola di scarico a campana, detta “Verrina”, scavata dal coronamento sino al
fondo, si bloccò a non entrò in funzione. E ciò nonostante che lo stesso
coraggioso custode (ebbe un premio dalle mani dello stesso Benito Mussolini che
andò a trovarlo nell’abitazione a lato della diga), sfidando la tracimazione,
in quanto occorreva agire sulla diga a metà di essa, l’avesse messa in moto, e che
poi fosse ritornato mezz’ora dopo per riprovare a farla funzionare, senza
successo. Per cui, cosa poteva fare l’Orba se non iniziare a far tracimare alle
12,30 la diga principale e la diga secondaria di un salto valutato in 2,4 metri d’acqua, e fare
il resto?
Occorre
aggiungere, come anticipato, che i materiali prodotti da Vittorio Bonaria mostrano
come, se anche tutti gli scarichi fossero entrati in funzione, la portata
dell’Orba era tale che le due dighe sarebbero state tracimate, e ciò, per il
tribunale, assolveva tutti. Però Vittorio Bonaria a p. 267, figura 7, spiega
che la diga di Val Noci sulla Scrivia aveva capacità di scarico superiore a
quella della diga di Molare “nonostante il bacino alimentante fosse di quasi
venti volte inferiore”. E di questo nessuno al processo ne tenne conto, almeno
che ne sappia io, né ci si prese la cura di fare una verifica sulle capacità di
scarico delle dighe dell’area, e non solo.
Provando
a tirare conclusioni sul disastro, devo dire che il processo non assomiglia a
un processo reale, quanto piuttosto ai quei processi che nel medioevo si
facevano contro le cavallette. Naturalmente finivano con la loro colpevolezza e
con una bella processione di scongiuro a una chiesa, e, nel nostro caso, la
processione fu al cimitero. Qui il colpevole fu Giove Pluvio, mentre
risultarono illibati coloro che fecero di tutto perché il disastro, ed uso
ironicamente un’espressione giuridica, fosse messo in essere.
Il
lettore potrebbe credere che sia giunto al termine della recensione, ma il
libro di Bonaria, tra le pp. 297 e 303, propone una coda sorprendente,
incredibilmente assurda tra tutte le assurdità viste, la quale merita un titolo:
Il nuovo progetto per riproporre la diga di Molare
Successe
che, sul finire degli anni ’70 del secolo scorso, vi fu un nuovo interessamento
per rimettere in funzione la diga di Molare. Ciò avvenne, e siamo in un altro
dei tanti assurdi della nostra vicenda, su istanza dei comuni a valle della
diga sino all’alessandrino, quelli che subirono l’alluvione, i danni, e i
morti. Motivo? La preoccupazione della sempre maggiore carenza di acqua per
irrigazione e uso potabile. Nel 1979 fu organizzata una serie di conferenze sul
soggetto, in cui spiccava la relazione geologica del prof. Floriano Calvino,
che io ho conosciuto un anno dopo la laurea, titolare della cattedra della
facoltà di geologia dell’università di Genova, promotore di tutta una serie di
tesi di laurea sull’argomento. Il tutto era finalizzato alla stesura di un
progetto, e nel 1980 fu presentato un “Avanprogetto di fattibilità”. Si
trattava di realizzare un invaso, ancora
di 18.000.000 di m3, utilizzando la diga principale, con la costruzione,
presso la voragine di Sella Zerbino, di una diga secondaria in “rockfill”,
ovvero di pietrame con nucleo impermeabile di terra. Non tracimabile come la
precedente, era alta 55 m,
larga al piede 150 m,
lunga al coronamento 140 m,
quindi era più larga alla base che al coronamento. Il volume del nuovo
sbarramento secondario era calcolato in 350.000 m3, e
avrebbe garantito un invaso massimo a 320 metri sul livello del mare. E qui c’è
qualcosa che non afferro: il cubaggio del lago è lo stesso del precedente
invaso, ma la quota di invaso massimo è due metri inferiore. Che qualcuno abbia
abbassato la valle base dell’invaso?
La
diga principale vedeva la dismissione dei 12 sifoni scaricatori (che nel 1935
non avevano funzionato), e la realizzazione di uno scaricatore di superficie
largo 80 m
al centro del coronamento. Ciò comportava un nuovo profilo del paramento a
valle per ottenere un grande scivolo. Lo scarico di fondo, che nel 1935 non
funzionò, e quello superficiale, sarebbero stati ripristinati, mentre quello a
metà altezza della diga sarebbe stato modificato. Della valvola a campana per
fortuna non se ne parla più, e la produzione di energia elettrica fu posta in
secondo piano.
Il
tutto mi pare una follia, in particolare la nuova diga di Sella Zerbino non
tracimabile come la precedente, e, stavolta, ben alta rispetto alla base per
via della voragine che si era aperta, e
nemmeno in cemento armato. E mi pare pure un’altra follia il ripristino di scaricatori
nella diga principale che nel 1935 non funzionarono, o mal funzionarono, perché
rapidamente intasati. Infine la diga principale non era collaudata per le nuove
norme sismiche. Contrari a questo tentativo di ripristino erano gli ambientalisti
per vari motivi paesistici ed ecologici. Infatti nel lago svuotato si era
costituito un particolare habitat, e in parte era stato messo a coltura, quindi
con un danno economico per quei poveri agricoltori di collina e montagna.
Proseguendo
coi dati che pesco nel libro di Vittorio Bonaria, nel 1999 col “Decreto
Bersani” fu liberalizzato il mercato dell’energia elettrica, e la diga
principale dall’ENEL passò a privati, alla Tirreno Power concessionaria della
diga di Ortiglieto, la quale vorrebbe riportare questo lago al cubaggio
originario di 1.000.000
m3. Infine la diga principale, quella che si
voleva riutilizzare, nel 2010 è stata cancellata dal registro delle dighe, e la
Tirreno Power l’ha ceduta al demanio. Siamo giunti così alle pp. 301 - 302, e
sappiamo che vi è il progetto di messa in sicurezza della diga di Molare, che
resta un monumento simbolo di ciò che successe, e del suo ex invaso. Ciò è in
base al DL n° 79 del 20 marzo 2004, con una spesa a carico del Ministero delle
Infrastrutture e del Ministero dei Trasporti di 600.000 €, il che, in tempi di
restrizioni finanziarie, mi pare una cifra molto alta. Il progetto prevede la
costruzione di un argine in terra lungo circa 200 m e alto 5 m ad alcune decine di metri a
monte della diga di Molare. Lo scopo è di proteggerla da esondazioni del Rio
della Brigne, con tempo di ritorno di 1.000 anni, le cui acque ora si scaricano
tranquillamente poco a monte di Sella Zerbino. Ciò è una cosa che non capisco,
in quanto basterebbe far funzionare lo scarico di fondo della diga di Molare,
che, per le acque di piena di un piccolo rio non vedo come potrebbe intasarsi. Ma
la cosa più assurda tra tutte le assurdità è che l’allagamento causato dal rio
delle Brigne avrebbe bagnato il piede della diga solamente per “circa 2 m”!
Ora
mi porrei alcune domande:
a) cosa vuol dire tempo di
ritorno di mille anni;
b) in che modo è stato
calcolato visto che le registrazioni pluviometriche datano da un centinaio
d’anni, e, come sappiamo, sulla Val d’Orba medio alta anche da molto meno.
c) i valori statistici sono
avventure, e lo sappiamo meglio ancora dalla teoria dei quanti, anche solo per
il fatto che ci dicono che se un evento accadrà in un lasso di tempo lunghissimo,
quindi è rarissimo, non ci dicono quando: potrebbe succedere anche domani mattina,
e infine:
d) anche l’alluvione del 13
agosto 1935 era stata causata da precipitazioni con tempo di ritorno statistico
di mille anni!
Oltre
a quanto prospettato per il ripristino,
nella prima fase dei lavori sono previsti interventi sul corpo della diga, tra
cui il ripristino del condotto dello scarico
mediano, dove un tempo era alloggiata la valvola a campana “Verrina”,
per scaricare eventuali acque accumulate tra la diga e l’argine di cui sappiamo,
di cui, a questo punto, ne capisco ancora meno il motivo. Poi si vorrebbe
sistemare la parte a valle del meandro abbandonato, tra le proteste della
popolazione locale, che vorrebbero il ripristino solo nel tratto a monte del
meandro (ma è cosa che nel testo non è ben chiarita). Diversamente, con grande risparmio,
si potrebbero realizzare un ecomuseo, e la valorizzazione del sito di
Ortiglieto, usando metodologie eco sostenibili, e questa mi pare un’ottima
soluzione.
Il
paragrafo termina con questa osservazione dell’autore: “Visto il notevole dinamismo
che negli ultimi trent’anni ha connotato le vicende legate alla Diga di Molare
è probabile che quando questo libro sarà nelle librerie vi siano al riguardo
ulteriori sviluppi”.
Ho
letto e spulciato il libro di Vittorio Bonaria tra fine ottobre 2015 e l’inizio
del novembre successivo, e quindi erano già passati due anni dalla sua
edizione. Pertanto venerdì 6 novembre 2015 ho domandato all’autore, via e-mail, se vi fossero stati successivi sviluppi. Ho
ricevuto la risposta il lunedì 9 novembre successivo. Estraggo il brano
d’interesse:
Attualmente le operazioni di messa in sicurezza della Diga di
Molare sono abortite a causa dell’acclarata inutilità e di vari avvisi di
garanzia scattati ai danni di molteplici soggetti tra cui i Commissari Delegati
Governativi. Purtroppo parecchie decine di migliaia di euro, che sarebbero
potute essere spese per migliorare la fruibilità (attualmente inesistente) del
sito sono state buttate invece via per inutili movimentazioni terra che hanno
inoltre parzialmente devastato un sito di pregio naturalistico.
Non
dubitavamo che sarebbe finita così, all’italiana, per usare un luogo comune che
pare eternificarsi. Ma, a magra consolazione, devo dire che è sempre meglio di
quanto era in progetto, con tutta pace della diga di Molare e del suo sito.
…
Vittorio
Bonaria, Storia della Diga di Molare Il Vajont dimenticato prefazione di Luca
Mercalli, Genova, Erga Edizioni, maggio 2013, pp. 332, € 25.
…
uscito su ITER n° 37, anno XII n°3
dicembre 2016 (ma è uscito a agosto 2017