Su segnalazione di Renzo Penna pubblichiamo la presentazione del libro “Non è lavoro è sfruttamento” tratto dal sito: www.laterza.it
«Io non ho tradito, io mi sento tradito» sono le parole di
un ragazzo, appena trentenne, che decide di abbandonarsi al suicidio
denunciando una condizione di precarietà, un sentimento di estrema
frustrazione. Non è l’urlo di chi si ferma al primo ostacolo, di chi
capricciosamente non vede riconosciuta la propria ‘specialità’. È l’urlo di chi
è rimasto solo. Di precariato si muore.
Tutto questo ha a che fare con le trasformazioni della
nostra società, a partire dai diritti universali, dal lavoro, dall’umanità e
dalla solidarietà negate. Quelle cose che si è deciso di escludere dalle nostre
vite, non potendogli dare un prezzo. C’è più di una generazione a cui avevano
detto che sarebbe bastato il merito e l’impegno per essere felici. Quella di
chi si è affacciato al mondo del lavoro cresciuto a pane e ipocrite promesse, e
quella di chi si affaccia oggi, quando la promessa assume il volto di
un’ipocrisia manifesta. Oggi ci si suicida perché derubati di possibilità, di diritti,
di una vita libera e dignitosa. Qualcosa è andato storto e c’è chi continua a
soffiare sul fuoco delle responsabilità individuali, delle frustrazioni che la
solitudine sociale produce.
Di precariato si muore. E non è un caso. Il precariato è la
risposta feroce contro la classe lavoratrice, il tentativo più riuscito di
distruzione di una comunità che aveva in sé un connotato, quello di classe, che
si caratterizza per una comunanza di interessi in costante conflitto con gli
interessi di chi ogni mattina si sveglia e coltiva il culto dell’insaziabilità,
dell’avidità che si fa potere. Il potere di sfruttare, di dileggiare tutti
quelli che contribuiscono a creare le fortune dei pochi che se le accaparrano.
Di precariato si muore quando al concetto di società si
antepone quello di individuo. Ed è esattamente ciò che è stato fatto dalla
Thatcher e da Reagan in poi, quello che hanno fatto tutti i governi che hanno
tradito i lavoratori, dalla fine degli anni Settanta fino alle più recenti
riforme del mercato del lavoro. È stato un impegno quotidiano. Costanza e
tenacia. Le hanno provate tutte e ci sono riusciti perché sono rimasti coerenti
con la loro idea e ogni giorno e ogni notte hanno lottato per raggiungere
quell’obiettivo. Uniti. Loro hanno vinto nel momento in cui sono rimasti uniti
perseverando nel disaggregare i lavoratori in quanto corpo sociale. Per farlo
hanno avuto bisogno di molta creatività, di imporre, con una buona dose di
maquillage, un nuovo volto al lavoro: eliminando dall’immaginario i bassifondi,
gli operai; escludendo dal racconto quotidiano la fatica dello sfruttamento;
mascherando l’impoverimento dietro l’obbligo di un dress code.
Come scrive Owen Jones a proposito del ‘thatcherismo’:
«L’obiettivo era quello di cancellare la classe operaia come forza politica ed
economica della società, rimpiazzandola con una collezione di individui, o
imprenditori, che competono gli uni contro gli altri per i propri interessi.
[...] Tutti avrebbero aspirato a rimontare la scala [sociale] e coloro che non l’avessero
fatto sarebbero stati responsabili del loro stesso fallimento».
Né sulla Manica né sul Tirreno è bastata la poesia a fermare
questa deriva. Nostalgicamente ascoltiamo ancora De André, capace come pochi di
riflettere su un’umanità che sembra persa, spiegarci che esiste «ben poco
merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore». Così, negli ultimi decenni, è
andata diffondendosi sempre più la figura del giovane con la partita Iva:
libero di solcare i contratti a progetto, le prestazioni occasionali, di non
arrivare a fine mese e di non avere diritto al reddito nei periodi di non
lavoro. Non vincolato da un contratto, libero di esser pagato quanto e quando
vuole l’azienda e di non avere alcun potere negoziale. Nel frattempo, il
giovane precario poteva consolarsi e crogiolarsi del racconto della sua
specificità, di essere unico, di non essere uguale a ‘quegli altri’, quelli
impiegati da più di vent’anni con gravi lacune nell’utilizzo di Microsoft
Office o, peggio ancora, quelli vestiti male, un po’ sporchi di polvere, di
grasso e vernice. Nei cinque minuti tra il parcheggio e la porta d’ingresso, o
tra la caffettiera e la piccola scrivania, separate dal lungo corridoio di una
casa in affitto, il giovane precario pensa di essere indispensabile. Pensa che
tutto andrà meglio, che questo contratto è solo l’inizio, potrà rivendicarlo al
prossimo colloquio, quello che non esiste, perché il curriculum lo mandi a un
indirizzo di posta elettronica. Lui è solo e a volte pensa che in fondo è
l’unico uomo al comando. Di cosa non gli è ben chiaro. Però i sindacati mai.
E del resto, per molti anni, i sindacati non si sono accorti
che questi avevano la partita Iva ma erano degli sfruttati e quando se ne sono
accorti hanno procrastinato. Un circolo vizioso che ha portato alla sconfitta.
Era in atto la trasformazione antropologica e culturale del lavoro subordinato,
mascherato dalle collaborazioni. All’inizio degli anni Duemila chiunque poteva
essere un lavoratore a termine. Una generazione in fin dei conti abituata dai tempi
della scuola: le verifiche a crocette, i quiz ogni quindici giorni erano già
l’emblema del ‘mordi e fuggi’. Al diavolo il diritto a una conoscenza lenta,
approfondita, critica. Gratta e vinci. Usa e getta. Come quei gadget che, ora,
soddisfano gli attacchi di consumismo bulimico, mentre un operaio muore sotto
un camion durante un picchetto. È il momento in cui, controllando il codice a
barre che traccia la spedizione, il giovane collaboratore inveisce contro Poste
Italiane perché non ha consegnato il gadget in tempo. Ma Poste Italiane è stata
privatizzata, i postini sono sempre meno e quelli che son rimasti lavorano
dieci ore al giorno, le spedizioni sono state appaltate a un corriere esterno,
gli sportelli chiudono perché i cittadini sono stati trasformati in clienti. E
vanno su internet, le filiali non servono più.
Sono gli anni in cui molti più giovani potevano dirsi liberi
dal lavoro subordinato, lo dicevano alla televisione, lo dicevano i giornali.
Purtroppo continuano a dirlo. I costi del lavoro diminuiscono, le imprese non
devono pagare i contributi, ma non devono pagare neppure la formazione ai
propri collaboratori. E i giornali tornano a titolare che le imprese non
trovano giovani adatti a ricoprire le mansioni cercate. La colpa della
disoccupazione e della precarietà è stata accollata alla scuola, che non
prepara al mercato del lavoro. Devono uscire precisi e perfetti per il prossimo
annuncio. Ma guai a investire nella formazione: meglio pretendere che sia la
scuola, e quindi lo Stato, a pagare, anche per far lavorare gratis nelle
aziende i propri studenti.
È così che nasce l’alternanza scuola-lavoro, i cui
protocolli d’intesa del Ministero del Lavoro e di quello dell’Istruzione e
della Ricerca danno il diritto a grandi multinazionali di impiegare migliaia di
studenti nei propri locali, per fare i commessi. Una velocità che lascia
interdetti. È stato un attimo, dal susseguirsi di stage umilianti o inutili al
dovere del lavoro gratuito. Sarà un’esperienza fantastica, recitavano le
pubblicità dell’Expo 2015 a
Milano. Vedrete cose, conoscerete gente, gratuitamente. Lavorerete gratis
finché altri vorranno. Poi il nulla. Anzi no, poi Garanzia Giovani, il progetto
europeo per l’inserimento lavorativo dei Neet (Not in Education, Employment,
Training), cioè per coloro che non studiano, non lavorano e non sono coinvolti
in programmi di formazione. Più di un milione di persone tra i 15 e i 29 anni
si sono presentati ai centri per l’impiego o strutture convenzionate, con la
speranza di trovare un lavoro. L’ha detto la pubblicità, il Ministero del
Lavoro non fa che vantarsi di questo programma. E allora proviamoci, come in un
reality, sia mai che ci dice bene. Altri ci sono arrivati celando
l’umiliazione, mettendo da parte l’orgoglio della laurea, dei master da fuori
sede. Tirocini come se non ci fosse un domani, per tutti!
Masse di lavoratori che la sera tornano a casa con le
proprie storie personali, alcuni aprono un blog e si raccontano. Una questione
privata. Nessuno ha inventato il sito di incontri per partite Iva, un mega
raduno di chi ha partecipato al grande show di Garanzia Giovani. Lo sciopero
generale dei tirocinanti. Ognuno a pregare che quella promessa di assunzione
possa un giorno farsi realtà. Loro, i potenti, gli avidi, gli sfruttatori,
hanno vinto perché sono stati coerenti, uniti, perché sono stati più forti nel
‘tutti contro tutti’, dove i morti li abbiamo contati solo noi. Hanno vinto
quando ci hanno chiamati «bamboccioni», imponendoci una partita Iva, e siamo
stati educati, silenti, accondiscendenti. Hanno vinto quando ci hanno detto che
eravamo «choosy» e abbiamo porto l’altra guancia. Hanno vinto quando abbiamo
smesso di credere che, uniti, si vince anche noi.
Indagare sulle condizioni di lavoro e non lavoro in Italia è
una vera e propria discesa agli inferi. Il dilagare del lavoro povero, spesso
gratuito, la totale assenza di tutele e stabilità lavorativa sono fenomeni
all’ordine del giorno, che si abbattono su più di una generazione, costretta a
lavorare di più ma a guadagnare sempre di meno, nonostante viviamo in una
società il cui potenziale produttivo già permetterebbe di ridurre e distribuire
il tempo di lavoro mantenendo e/o raggiungendo un tenore di vita più che
dignitoso. È la realtà contro cui si infrange la narrazione dominante sulla ‘generazione
Erasmus’ e sui Millennials, la stessa che con facilità dichiara che coloro che
sono nati negli anni Ottanta dovranno lavorare fino a 75 anni per avere una
misera pensione. Come se fosse un fatto naturale, inevitabile, ma soprattutto
irreversibile, e non invece il risultato di scelte politiche ben precise, che
hanno precarizzato il lavoro, la possibilità di soddisfare bisogni che
dovrebbero essere considerati universali, come l’istruzione, la sanità, la
casa, il trasporto pubblico. Le stesse politiche che hanno provocato
l’inasprirsi delle diseguaglianze sociali spostando reddito e ricchezza dai
lavoratori, che li producono, alle imprese, che a loro volta hanno scelto di
trasformarli in vere e proprie rendite. Il furto quotidiano operato a danno dei
lavoratori, di oggi e domani, è stato sostenuto dall’ideologia del merito,
imposta per mascherare un inevitabile conflitto tra chi sfrutta e chi è
sfruttato. Ma soprattutto per negare la matrice collettiva dei rapporti di
lavoro, dei rapporti di forza in gioco: è la retorica per cui ognuno è unico
artefice del proprio destino.
Il risultato è l’avanzare di forme di sfruttamento sempre
più rapaci che pervadono ogni settore economico, con labili differenze tra
lavoro manuale e cognitivo: dai giornalisti pagati due euro ad articolo ai
commessi con turni di dodici ore, dagli operai in somministrazione nelle
fabbriche della Fca ai facchini di Amazon.
Sono questi gli argomenti trattati in questo libro in cui
l’analisi delle trasformazioni economiche e sociali che hanno attraversato i
diversi settori si intreccia con le storie di quanti vivono quei luoghi – e non
luoghi – di lavoro. Per ragioni oggettive e soggettive, ho scelto di analizzare
e descrivere solo alcuni settori economici e forme di lavoro, in particolare la
logistica, la grande distribuzione e i servizi pubblici, ma anche i lavoretti
dietro la gig
economy, le forme di lavoro gratuito, il lavoro a chiamata e
il sistema dei buoni lavoro (i voucher). È una scelta dettata da poche ragioni
di fondo, tra loro collegate. Primo, essi costituiscono gli esempi più
significativi della ristrutturazione del capitalismo, dove la frammentazione
del lavoro segue la frammentazione del processo produttivo. Secondo, sono la
più nitida rappresentazione di come la valorizzazione del capitale necessiti la
creazione di vere e proprie avanguardie dello sfruttamento, che coinvolgono sia
i lavoratori immigrati della logistica, sia quelli italiani della grande
distribuzione o dei servizi pubblici. La matrice di classe che opera in questi
settori è la medesima, nonostante la narrazione dominante tenda a separare e a
diversificare una soggettività, quella del nuovo e trasversale proletariato,
con espedienti retorici e di facciata. Terzo, il riemergere dei conflitti che
popolano questi settori e le modalità con cui le lotte si affermano son spesso
taciuti o relegati a meri fatti di cronaca locale quando, invece, sono
espressione di un mondo affatto pacificato. D’altra parte, frontiere del
precariato come il lavoro a chiamata e il lavoro gratuito si configurano non
soltanto come forme di totale estrazione del valore prodotto dai lavoratori che
ingrassa solo gli utili d’impresa, ma agiscono come strumenti di estremo
ricatto: la promessa di un futuro migliore se si è disposti a farsi sfruttare
senza mai alzare la testa. Mettere in luce la comunanza di interessi, palesando
la natura di classe di questi conflitti, ha l’obiettivo di far convergere e
amplificare le lotte e le pratiche in atto.
Infine, sebbene con estrema sintesi e in modo affatto
esaustivo, si è provato a descrivere il processo politico che ha portato
all’impoverimento della classe lavoratrice e soprattutto di quelle generazioni
che si affacciano oggi al mondo del lavoro. Per ribadire, in fin dei conti, che
il divorzio tra la sfera economica e quella politica è solo un inganno: i
processi economici non sono nient’altro che processi politici di potere, di
riproduzione di rapporti di forza. In Italia come nel resto d’Europa, la scelta
dei governi è stata quella di avallare il progressivo smantellamento dei
diritti in modo da restituire forza e dominio alle imprese, a discapito del
progresso sociale, cioè del miglioramento delle condizioni di vita della
maggioranza.
Mi preme specificare alcuni dettagli del modo in cui nasce e
prende forma questo volume. Innanzitutto, esso è frutto di un lavoro collettivo
per cui ringrazio i colleghi, gli amici ma soprattutto i compagni che,
interrogandosi e stimolando il dibattito su questi temi, mi hanno,
metaforicamente, costretta nel tempo ad approfondirli. È soprattutto grazie a
loro che questa coscienza collettiva ha preso forma in uno scritto, preceduto
da diversi interventi sui giornali, nei dibattiti, in piazza, nei picchetti e
nelle assemblee. Gli incontri con lavoratori e disoccupati sono la fonte delle
storie che a tratti compaiono nel libro. Storie che si ripetono e di cui il
breve racconto che ne viene fuori non è che una sintesi di prassi molto più
frequenti. Con la speranza che questa presa di coscienza collettiva possa
diffondersi e raggiungere i tanti, i molti, che hanno diritto a un riscatto,
all’emancipazione negata dall’avidità del capitale e dall’ipocrisia del potere.
A loro è dedicato questo libro.