In questo giorno Alessandria rammemora la
tragedia che si è abbattuta sulla città con lo straripamento del Tanaro. Sempre
in prossimità di questo giorno, i media locali riportano le ricorrenti dispute
sullo stato delle opere di prevenzione al momento. Dispute e analisi opportune
perché nessuno distolga lo sguardo da quel che è stato e potrebbe essere di
nuovo.
Lascio tutto ciò a chi è meglio informato
di me al riguardo, ma ne condivido le preoccupazioni e le apprensioni. Così,
come mi riesce, voglio dare il mio contributo cercando di descrivere quella
giornata da parte di chi l’ha vissuta in prima persona come residente nella
zona Palazzetto-Piscina comunale. Sono passati 23 anni da allora, eppure quei
momenti sono ancora vivi nella mia mente e chissà che possano servire da riferimento
per i nuovi alessandrini.
Dunque, vediamo.
Dico subito che, tra quel sabato 5
novembre e quella domenica 6 novembre, in città non si vedeva grande
preoccupazione. Secondo dati storici, l’ultimo straripamento era avvenuto con
la Bormida nell’ottobre del ’77 e, per risalire al Tanaro, occorreva andare al
febbraio del ’74. Non ne ho memoria, ma credo che nessuno dei due abbia granché
coinvolto la mia zona.
Io, poi, ero tranquillissimo (e me ne
faccio una colpa ancora adesso). Come tutte le domeniche impigrivo a letto. Da
animale notturno, mi piaceva poltrire un po’ quando ne avevo l’occasione, così
mi crogiolavo finché non arrivò mio padre a scuotermi. Stava in via Donatello,
a pochi passi da me in via Ferraris, e appariva un po’ preoccupato. La notizia
non era tranquillizzante: secondo lui, Tanaro era troppo alto e bisognava
mettere al sicuro le macchine.
Sul momento non mi misi troppo in ansia;
mio padre era spesso preoccupato. Così mi alzai, mi lavai, mi vestii, feci
colazione e uscii, facendo qualche passo per inquadrare meglio il fiume e il
ponte Cittadella. Rimasi allibito, come altra gente che si soffermava pensosa.
Poi scattai. Feci le scale di corsa, chiamai mia moglie, le spiegai brevemente,
le dissi di prendere le chiavi delle macchine e di seguirmi. Anche allora,
comunque, la mia preoccupazione era ferma alle auto in sosta nel garage
seminterrato. Non pensavo ancora a quel che sarebbe successo subito dopo e alla
notte difficile che mi aspettava.
Facemmo appena in tempo. Eravamo giusto
fuorusciti dal cancello dei garage, lei davanti e io dietro, quando
immettendomi in via Ferraris scorsi con la coda dell’occhio della spuma
biancastra che usciva da dietro il palazzetto e traboccava per via. Suonai il
clacson, feci segno a mia moglie di seguirmi e mi lanciai a rotta di collo
lungo la via, verso il muretto della stazione. Ero nato da quelle parti e andai
da quella parte perché dentro di me “sapevo” che la strada risaliva.
Ci fermammo lungo il muretto a metà strada
fra via Tiziano e la stazione. Tornammo indietro a piedi per vedere come andava
e, quasi subito, scorgemmo l’acqua risalire dal sottopasso del ponte della
ferrovia. A quel punto decidemmo di allontanarci ancora. Non sapendo bene dove
l’acqua puntava e dove no, scegliemmo di andare in alto, sul cavalcavia del
Cristo. Lì lasciammo la macchina grande sulla strada che scendeva verso corso
Carlo Marx e tornammo indietro con la piccola, parcheggiandoci davanti alla
stazione, accanto allo Zerbino. Scoprimmo che l’acqua era arrivata all’altezza
dell’hotel Londra e si era fermata.
Ore dopo cominciò a ritirarsi e noi le
andammo dietro, badando bene a non scivolare sul fango e sulle altre schifezze
che si lasciava alle spalle. All’angolo di Spalto Borgoglio scorgemmo un
gruppetto di persone, accanto a una macchina della polizia con la luce che
girava sul tetto. Una ruspa se ne stava ferma nell’acqua, davanti al liceo
scientifico.
“Cosa fanno?”, chiedemmo a un poliziotto.
“Ha chiamato una signora”, disse lui
indicando col dito. “Suo padre abita in quel palazzo ed è debole di cuore. Ma
non riescono ad avvicinarsi perché c’è troppa corrente”.
Apprendemmo così che l’acqua del fiume
faceva corrente e anche i mulinelli. Meglio non sfidarla, allora, come avevo pensato
io prima.
Aspettammo. Finalmente, verso l’alba,
potemmo arrivare davanti a casa nostra in un paesaggio disastrato. Non c’era
un’anima per via. Tutti barricati in casa. Niente luce, niente telefono, niente
riscaldamento. Questo niente durò per giorni. Per circa una settimana l’unica
luce in casa fu quella delle candele e, fuori, quella di una fotoelettrica,
piazzata accanto al palazzetto, che prendeva d’infilata la strada mentre, sul
tardi, arrivavano bulldozer e camion a raccogliere tutte le cose che di giorno
sbrattavamo dalle cantine.
Ci volle di più per riavere il calore dei
termosifoni. Nel frattempo cercavamo di combattere l’umidità cacciandoci a
letto con coperte e pastrani. Io ebbi anche un ricordo d’infanzia: per
riscaldare il letto mia nonna e mia madre mettevano una pietra piatta sul
fuoco. Poi la avvolgevano in un sacchetto di tela e la infilavano sotto le
lenzuola, Così feci la medesima cosa e quel calore attenuava un po’ l’atmosfera
lunare fuori.
Ho detto in premessa: una notte difficile.
Ora posso aggiungere: molte notti difficili.
L’anno scorso abbiamo mancato il bis per
pochi centimetri. Abbiamo già dato.