Su segnalazione di Renzo Penna pubblichiamo la recensione recensione del libro di Marta Fana: "Non è lavoro è sfruttamento"
Di libri come “Non è lavoro è sfruttamento”di Marta Fana si dovrebbe dire, sicuramente, che sono utili. In poche,
agevoli pagine, non appesantite da note o apparato bibliografico eccessivo, ed
alleggerite regolarmente da qualche grafico mai di complessa interpretazione,
Marta Fana mette insieme il lavoro minuzioso che ha compiuto negli ultimi anni.
Così come con i bollettini del Ministero del Lavoro e dell’Istat, che catalogava
mese dopo mese agli inizi della sua attività giornalistica, l’autrice è andata
in questi anni collezionando e inseguendo i “dispacci” dal fronte caldo del
lavoro. In una inesorabile e piuttosto rapida ascesa, dal suo blog personale, a
siti di informazione dal basso, fino a quotidiani (prima il Manifesto,
poi il Fatto Quotidiano) e media tradizionali sempre più autorevoli (Internazionale
e, oramai sempre più spesso, la televisione), Fana è andata seguendo il filo
rosso di quelle piccole, apparentemente noiose e insignificanti faccende d’ogni
giorno, di cui è composta la decennale offensiva messa in atto in Italia contro
il lavoro. Lavoro analizzato, è bene specificarlo per chi come lei ha studiato
l’economia (sempre meno economia politica, e sempre più apparentemente neutra economics),
non come fattore astratto, fungibile e omogeneo di una candida funzione di
produzione, ma dal punto di vista di tutte quelle donne e uomini che di lavoro
devono cercare di vivere ogni giorno. Noiose, queste storie, solo per i molti,
a destra, a sinistra, o dispersi da qualche parte nel mezzo, che hanno imposto
o hanno ceduto ad una narrazione sulla presunta fine del lavoro,
sull’irrilevanza dei luoghi di produzione, e di conseguenza, sull’inutilità e
anzi, anti-storicità, di chi al contrario si ostina a pensare che chi lavora
vada ancora indagato, descritto e raccontato – per non dire organizzato e
rappresentato in forme politiche, e prima ancora di società, di classe. E
allora, allo stesso modo in cui, sommando i numeri del Ministero, scovò il
grande bluff del fantasista Poletti, mettendo insieme le inchieste sui facchini
di Foodora, le denunce dei lavoratori pagati a voucher, quando non a
scontrini, Marta si cimenta nell’impresa, all’apparenza titanica, di dare del
lavoro una rappresentazione complessiva e di classe. È questo allora il primo
grande pregio, che fa di Non è lavoro, è sfruttamento un libro
dannatamente utile: l’apparente semplicità in cui, dalla somma di quegli
articoli e status che ogni giorno si possono trovare sulla bacheca Facebook
dell’autrice, viene fuori qualcosa di molto di più, l’emersione nella sua
interezza di un mondo, quello della produzione, del lavoro, del conflitto, che
nella teoria delle scienze sociali e nella pratica della comunicazione politica
e giornalistica si pretende essere ridotto a marginalità, interstizio, e che
invece da queste pagine emerge come centrale, pulsante.
Lo spiegava, con la dovizia di dettagli propria di uno storico di razza,
Bruno Settis, in un libro che raccontava di Ford, ma parlando a noi, e che non
a caso Fana recensiva poco più di un anno fa discutendo di “necessità di
cultura e conflitto” è solo mettendo al centro della discussione la produzione,
che la narrazione ottimistica e pacificata costruita a partire dal consumo e
dai consumatori può essere superata, ed il conflitto e le contraddizioni
possono emergere. Se era vero in tempi, come quelli descritti da Settis, di Five
Dollar Day e grande espansione industriale, non può non essere vero ai
tempi della deindustrializzazione e della grande, pluri-decennale crisi
italiana. E allora quel mondo, che nei bollettini ministeriali sembra fatto di
risorse fungibili e anzi, sempre più mobilitate e pacificate, dalle
conversazioni coi lavoratori veri e in carne ed ossa, emerge come teatro di
vero conflitto e lotta di classe. E non importa che la gran parte degli
eserciti in campo, soprattutto quello dei lavoratori, non ne abbiano
consapevolezza, non siano stati avvisati: come oramai parecchi anni fa spiegava
Luciano Gallino, non ha bisogno della consapevolezza di entrambe le parti per
prendere forma.
Non ci volevano, questo è certo, lauree, master, lavori in prestigiose
istituzioni internazionali, e un dottorato in economia a SciencePo, per
mettere su un foglio excel i numeri mensili sui nuovi occupati, e verificare
che sommati davano meno di quanto il vergognoso Ministro del Lavoro millantava
in pubblico. Ci voleva però la convinzione, l’umiltà, ma soprattutto la rabbia,
di cui Marta Fana dà mostra sempre più spesso in quegli studi televisivi dove è
chiamata a sparigliare ‘discussioni’ affettate, che risulterebbero noiose a
delle dame inglesi dell’Ottocento. C’è voluta quella rabbia, per far cascare la
maschera da “ottimismo-profumo-della-vita” a un Farinetti – e questo dovrebbe
dirci molto, forse, di tanti altri che in televisione vanno a intestarsi la
rappresentanza di chi lavora e soffre, e che di fronte a padroni e padroncini,
capitani d’azienda e furbetti del quartierino, ridacchiano e fanno spallucce,
facendo rimpiangere la verve agonistica con cui le neopromosse andavano a
giocarsela al Delle Alpi nell’era d’oro di Luciano Moggi. Ci vorrebbero molte
di più di queste entrate a gamba tesa, per ricordarci che, nella crisi
economica, sociale ed occupazionale più grave che questo Paese abbia
probabilmente mai conosciuto (per il Pil ci sono le serie storiche ufficiali a
testimoniarlo), sono oramai tre anni che si lasciano le sorti dei lavoratori in
mano ad uno dei Ministri più indegni e sguaiati che la nostra vilipesa
Repubblica ha dovuto subire. Il libro riporta, in appendice, la lettera che
l’autrice scrisse, oramai quasi un anno fa, rispondendo a quella che non era né
la prima, né sarebbe stata l’ultima delle uscite deprecabili di Poletti. Ma il
libro è molto più di quella lettera, che del resto veniva un anno dopo un
lavoro scientifico che, con i primi dati allora disponibili (dati che, come ci
ripete di continuo l’autrice nel libro, “hanno la testa dura, come i fatti che
rappresentano”), valutava gli effetti del Jobs Act. In quel lavoro, così
come nell’attività quotidiana di commento e critica, Marta Fana negli anni ci
ha fatto apprezzare le sfumature, le insidie, le vere e proprie disfunzionalità
dei dati ufficiali, nel rappresentare il mondo del lavoro. In questo libro,
quasi inevitabilmente, i dati vengono dunque letti insieme agli articoli – non
quelli accademici, rigorosi ed eburnei, ma quelli sporchi e cattivi, scritti in
pochi minuti per un quotidiano locale, gli unici da cui ricomporre il computo
quotidiano (questo sì, davvero, un bollettino dal fronte) di incidenti,
infortuni, licenziamenti e abusi -, ed alle vere e proprie storie, come le
definisce, le vite raccontatele da “lavoratori e disoccupati”, incontrati in
tutte le parti d’Italia, in cui sempre più spesso è chiamata a prendere parola
in questi ultimi mesi.
Non è lavoro, è sfruttamento ne accumula ed affastella tanti, di
questi dati e queste storie, descrivendo settori (la logistica, ma anche il
pubblico, e persino quella scuola dell’alternanza, che in questi giorni celebra
i suoi primi infortuni sul lavoro, ma anche fortunatamente i suoi primi
scioperi) che nella narrazione giornalistica, ma ancor di più accademica,
sarebbero o marginali, o luoghi di assenteismo e privilegio, comunque silenti e
pacificati. Invece, in questa forma che vorrebbe essere, stando alle
dichiarazioni quasi programmatiche dell’introduzione, insieme saggistica e
narrativa, il libro riesce a farne emergere le tensioni, i movimenti, le
rotture, l’angoscia che attanaglia chi non può bere o andare in bagno durante
il turno, chi pulisce i cessi anche se non dovrebbe, chi rimane invalido a vita
per farsi pagare pochi euro con un voucher, il cui corrispettivo si ritira in
tabaccheria, tra gli sguardi pieni di invidia degli assuefatti dalle slot machine
convinti che chi riscuote sia un fortunato vincitore.
Non sarà certo, né mirava del resto ad essere, un libro da inserire nella
letteratura working-class, di cui
Alberto Prunetti, a margine di un dialogo con Wu Ming 2 e con la stessa
autrice, rivendicava giustamente l’importanza solo poche settimane fa. Dal
punto di vista stilistico, probabilmente, l’esperimento talora non riesce fino
in fondo, l’ibridazione tra i due stili non risulta sempre efficace: ma
certamente, la scelta rende il testo più veloce e tagliente di un normale
saggio, infarcito di citazioni e note. C’è da augurarsi davvero che la scelta
paghi, e che possa, per quanto lo possano ancora fare dei libri ai nostri
giorni, davvero raggiungere ed essere utile a quei lavoratori, ai quali e per i
quali il libro sembra esser stato scritto. Non che serva una ricercatrice, che
ha avuto la fortuna e la bravura di costruirsi una reputazione con lo studio e
il lavoro, per spiegargli la vita di merda che fanno. Ma forse, in Non è
lavoro, è sfruttamento, potrebbero trovare la prova che non è colpa loro,
come gli viene spesso rinfacciato, o come iniziano a chiedersi anche loro,
all’ennesima svolta che non arriva; che non è perché non sono abbastanza
flessibili, imprenditoriali, intraprendenti; né perché hanno studiato la cosa
sbagliata, in troppo tempo, o facendo tesi su cose considerate irrilevanti; che
non è colpa del non essere abbastanza sfacciati nelle pubbliche relazioni, o
slanciati nel parlare o sbiascicare le lingue; o che, ovviamente, non è vero che
non si sono sacrificati, non hanno rischiato abbastanza. Ripetendo fino allo
sfinimento, quasi come fossero una filastrocca da imparare a memoria, categorie
marxiane non più à la page, Marta Fana in questo libro cerca di
instillare, nella testa di uno sfruttato vero, che speriamo legga le sue
pagine, la convinzione, o almeno il dubbio, di esser vittima non di un
complotto, ma di un conflitto, del tentativo di riportare lo sfruttamento del
lavoro al centro del modello economico di questo Paese, riducendo la Repubblica
conquistata e creata dai partigiani ad un ricordo, uno scherzo breve della
storia, una parentesi da archiviare per tornare serenamente all’Ottocento.
C’è da sperare, allora davvero, che il libro continui ad andare bene, che se
ne parli, che esca dai salotti e dalle librerie “dei compagni” e, magari
attraverso ciò che resta delle biblioteche pubbliche, entri nelle case delle
mille periferie urbane, geografiche, sociali e morali di questo Paese, e solo
per questo varrebbe la pena recensirlo, comprarlo, regalarlo, suggerirne
l’acquisto al bibliotecario del proprio quartiere. Ma probabilmente gran parte,
se non tutte, le poche migliaia di copie stampate sinora da Laterza,
saranno nelle mani di persone come me, che pur non avendo un impiego garantito,
sono e dovrebbero sentirsi decisamente privilegiati, rispetto a quel nostro
coetaneo sopraffatto, tradito, suicida, con cui l’autrice apre il suo libro, e
di cui tutti abbiamo marchiata a fuoco nella memoria la storia, anche se non ne
ricordiamo il nome, ma a cui sappiamo di correre il rischio di dover dare la
faccia di amici e persone care. Noi che, pur dovendo accettare più di una volta
di lavorare gratis, pur dovendo compiere rinunce e talvolta accettare vere e
proprie forme di sfruttamento, abbiamo il privilegio di poter vivere (anche
solo per un po’) di lavori intellettuali, e retribuiti, pure se meno di quanto
era d’uso e ci auspicheremmo. Anche per noi, però, Non è lavoro, è
sfruttamento è utile. È probabilmente il libro che non si dovrebbe mai scrivere,
nella posizione dell’autrice: perché appena finito il dottorato, ci viene detto
sempre più insistentemente nell’università dei tagli, e del merito misurato
attraverso indicatori bibliometrici, bisognerebbe mettersi a pubblicare
articoli, quelli seri, con esperimenti naturali, modelli elaborati, e soluzioni
empiriche argute, esclusivamente per riviste di fascia A – figuriamoci perdere
tempo con dei libri, e divulgativi poi! Un libro appunto ibrido, che
inevitabilmente suonerà arido a chi la classe operaia se la immagina soggetto
per grande narrativa (magari, anche qui, di romanzi ottocenteschi), e suonerà
invece terribilmente descrittivo (parola dispregiativa!) a chi non ci troverà
nessuna grande novità scientifica, che del resto l’autrice non vuole fornire.
Un libro per sfruttati che probabilmente non lo leggeranno, e che sarà letto
forse di più da chi, semmai, sta dall’altra parte della barricata, e magari non
vuole sentirselo ricordare.
Un libro che però ci ricorda che le disuguaglianze non sono numeri e formule
astratte, sono nomi lavori di merda, giornate storte, bestemmie rabbiose. Sono
storie quotidiane e reali, di bambini di 12 anni che muoiono per la rinuncia a
curarsi da un dentista, come nella prima delle storie che il Guardian ha
iniziato a collezionare in una sezione del giornale e del sito dedicata proprio
alla inequality. E anche che forse è
questo quello che il paese si dovrebbe aspettare da noi scienziati sociali, da
noi “esperti” e studiosi: provocare dibattito, rappresentare in modo efficace e
realistico la realtà, col fine di conoscerla, sì, certo, ma per cambiarla,
quando raggiunge livelli inaccettabili di ingiustizia, come quelli descritti da
Non è lavoro, è sfruttamento. Che noi si sia rigorosi sì,
“intellettualmente onesti”, ma non certo “obiettivi, imparziali, fuori della
mischia”, come insegnava quel Sylos Labini di cui probabilmente l’autrice
sognava di seguire le orme, quando un editore prestigioso come Laterza
le avrebbe offerto di fare un libro tutto suo. Che si sia di questa o quella
idea o partito, ma che si tifi senza rimorso e timidezza per l’unico progresso
possibile, che è il miglioramento delle condizioni di vita, di lavoro e di non
lavoro, del maggior numero possibile di persone. Forse, ispirandosi un po’ a
quanto scriveva Christian Raimo qualche mede fa, servirebbe che ciascuna delle
tante teste ben pensanti delle generazioni più istruite della storia d’Italia,
dedicasse a questa missione civile un poco del suo tempo, ne permeasse un po’
del suo lavoro, e delle sue relazioni. Non sarebbe certo abbastanza, ma
contribuiremmo a rendere libri come Non è lavoro, è sfruttamento meno
dannatamente utili. E allora, speriamo (in modo attivo, e non in attesa, come
raccomandava Erich Fromm) che il libro continui ad andare bene, ma anche che
invecchi presto, che diventi il ricordo di un brutto incubo in cui abbiamo
vissuto i nostri anni migliori, ma da cui svegliarsi ci saremo svegliati, un
giorno, speriamo, non lontano.
Giacomo Gabbuti - 1 novembre 2017