Avevano
un modo singolare di tenersi per mano. Francesca non aveva bisogno di
stringerla attraverso il guanto perché entrambe accordavano la propria andatura
in modo prefetto, un passo l’una, due passetti l’altra. Era un’espressione
simbolica del loro legame, quel delicato sfiorarsi, in cui la più piccola
provava la sensazione rassicurante di essere accolta, non trattenuta, dalla
mano più grande. Ogni tanto Ermina le inviava due strette veloci, come segnali
d’alfabeto Morse, che Francesca le restituiva: un linguaggio che si erano
inventate per comunicarsi silenziosamente un gradimento reciproco.
Si
erano avviate per il corso principale all’ora del passeggio. Ermina guardava la
madre, non più giovane, con una punta di dolore per i capelli precocemente
imbiancati che ai suoi occhi apparivano appropriati ad una nonna, più che ad
una mamma. Ma presto traeva conforto dalle occhiate di rispettoso consenso in
chi accennava un saluto, valutando in modo differente il suo portamento
aristocratico e il contrasto tra il nero del tailleur attillato e il pallore
del viso. La trasparenza della veletta riusciva appena a celare il bagliore
scuro dello sguardo.
In
distanza, lungo il marciapiede opposto, una coppia impettita avanzava con passo
perfettamente sincronizzato, un incedere lento e regolare, come si trattasse di
passare in rivista le truppe.
Con
la stessa espressione sprezzante, da superiore a sottoposto, entrambi
rivolgevano misurati e secchi cenni del capo, più simili ad un ordine che ad un
saluto, concedendo quel raro privilegio ad esseri inferiori degni di un istante
d’annoiata considerazione, imposta da regole diplomatiche.
Lui,
in divisa da generale, era irrigidito dalla volontà di accrescere statura e
prestigio, un atteggiamento divenuto abituale dalla pratica autoritaria del
comando. Lei, la Generalessa, aveva capelli bianchi incredibilmente azzurrati,
immobilizzati in una foggia arrotolata simile alle parrucche settecentesche.
Profilo tagliente, labbra sottili, sguardo che non concede pietà: pur senza
codino, era il ritratto di Robespierre. Un incontro abituale, sul quale si
potevano regolare gli orologi.
Proprio
quel giorno e proprio quella volta, inspiegabilmente, in Francesca s’infranse
qualcosa da cui, senz’altro controllo, un guizzo di ribellione al conformismo
di una farsa in cui scorgeva anche se stessa, prese la via della fuga
sottoforma di un pensiero espresso che mai Ermina avrebbe pensato potesse
uscire dalla bocca della madre.
-
Vuoi vedere che a quella signora piace la …? - E pronunciò con naturalezza la
parola che evoca una delle più neglette funzioni del corpo, consapevole, come
il Sommo Poeta che la usò così com’era, che nessun sinonimo sarebbe riuscito a
renderla accettabile e altrettanto efficace.
Qualche
istante dopo la domanda diretta, “le piace la…?”, passò sussurrata
attraverso un sorriso di circostanza e la veletta, giungendo indenne a
destinazione.
Un
esperto di lettura labiale avrebbe a stento rilevato la differenza tra un “buonasera
signora” e la frase incriminata, tanto meno la Generalessa. Toccata da tanto garbo, rispose arricciando
il labbro intorno ad un sorriso sussiegoso, accompagnando con un lento cenno
del capo che aveva tutta l’aria di un’affermazione.
-
Hai visto che avevo ragione? Le piace - concluse Francesca, rientrando
impassibile e soddisfatta, senz’altro aggiungere, nella sua parte.
Ermina,
ammutolita per quell’interludio così distante dall’immagine rassicurante della
madre che le veniva di nuovo restituita, s’affrettò a inviarle due piccole
strette di mano.
*
* *