1. - La ricorrenza dell'
80° anniversario della morte di Antonio Gramsci va colta come una opportunità
per cercare di capire il nostro Paese, le ragioni profonde delle nostre
difficoltà, dei nostri ritardi politici e civili. Conveniamo tutti sul fatto
che dobbiamo ripensare la nostra vita pubblica, che l' Italia deve darsi un
nuovo asse attorno al quale construire il suo futuro. Ma dobbiamo convenire
anche sul fatto che il nostro futuro non si costruisce se non conosciamo il
nostro passato.
Gramsci
è un pensatore di genio che proprio in questo ci è di grande aiuto: perchè ha
molto riflettuto sulla nostra storia, della quale ha saputo cogliere gli snodi
fondamentali e i molti problemi che attendono
da lungo tempo di essere risolti. Bisogna aggiungere, però, che la
centralità di questo " tema" nella riflessione gramsciana non è stata
ben colta. Le celebrazioni che di decennio in decennio si sono susseguite non
sempre hanno saputo evitare di celebrare il Nostro soprattutto come un
dirigente politico capace, proprio per lo spessore della sua figura, di
suscitare contese politiche ormai del tutto sterili. Si è celebrato spesso il
Gramsci politico, utlilizzabile o per una pregiudiziale preferenza o per una
pregiudiziale avversione, per giustificare le scelte politiche contingenti di
una parte o per essere esposto alle critiche contingenti della parte avversa.
La
verità è che il Gramsci " politico"
ci può dire ormai molto poco. La sua attualità non può risiedere qui ,
troppo diversa è l' Italia del suo tempo da quella del nostro tempo. L'uomo
politico va valutato nel contesto della sua epoca storica. La vecchia Italia liberale che permetterà
l'avvento del fascismo non esiste più e non sesistono più le forze sociali e le
soluzioni con cui Gramsci intendeva cambiarla. Per fare un esempio: l' analisi
della questione meridionale , formulata nel suo breve scritto del 1926, è oggi
del tutto inutilizzabile (del resto, lo stesso Gramsci in una delle sue lettere
dal carcere definitiva tale scritto << rapidissimo e
superficialissimo>> . Il mondo bracciantile lì indicato non esiste più da
tempo , come non esiste più il blocco agrario egemone, nè gli intellettuali
meridionali mosche cocchiere funzionali alla conservazione dello status quo ,
nè la possibilità di un rivolgimento radicale tramite un' alleanza tra la
classe operaia del Nord e i contadini del Sud. Con la fine di quel tempo è
venuto meno anche il valore della proposta politica.
L'attualità
e la grandezza di Gramsci vanno cercate altrove. E questo altrove non è nemmeno
la sua tempra morale - il suo martirio - testimoniata dalla lunga permanenza
nelle carceri fasciste e dalle Lettere
dal carcere. Egli stesso, d' altronde , provava un certo fastidio nei
riguardi di tentativi di " utilizzarlo " come martire del fascismo
perchè si è sempre considerato - anche nei momenti più duri del regime
carcerario e di maggiore precarietà della sua salute- un leader politico che aveva fatto delle
scelte nette per condurre una battaglia
che poi aveva perso. Dunque non è un martire, ma un politico sconfitto.
Pur
conosciuto soprattutto come l’autore delle " Lettere dal carcere" , bisogna dire che nemmeno queste ci consegnano
il vero nucleo della sua grandezza. Ci sono qui , naturalmente, il Gramsci
scrittore di valore, il valore letterario di questa sua corrispondenza
apparentemente rapsodica e occasionale ma che ubbidisce, invece, ad un percorso
intellettuale coerente, ma non ci sono la sua vera grandezza e la sua genialità.
2.
- Facendo un bilancio complessivo delle celebrazioni gramsciane dell' anno
appena concluso, si potrebbe dire che sul Gramsci "politico” ,
"martire" e "letterato", per la verità non si sia indugiato
molto. Semmai è emerso un altro limite, sempre presente nell' approccio all'
opera di Gramsci: quello dello smembramento del suo pensiero in tanti singoli,
isolati temi ognuno dei quali si esaurisce in se stesso e non riesce a cogliere
l' elemento unitario che tutti li lega. Abbiamo allora le dispute filologiche
sul marxismo di Gramsci, sul suo leninismo, sul suo materialismo o sul suo
idealismo e storicismo , sul suo positivismo o antipositivismo ; oppure le
dispute storico-teoriche sull' egemonia , sul partito, sulla democrazia
diretta, sull' assemblea costituente. Si
è trattato spesso di una fatica grande ma inutile perchè Gramsci è fuori dagli
schemi e dalle scuole, non fa uso di stampi preconfezionati che non gli
servirebbero comunque a nulla dato che dovrebbe applicarli poi ad un organismo
storico - quello dell' Italia - unico, non replicabile e originalissimo.
Gramsci
è stato un grande teorico, un pensatore di genio. Nel coro dei leaders politici
e dei pensatori del suo tempo, la sua voce è la più alta per molti aspetti inquietante perfino per la
sua parte politica, per il suo stesso partito (del quale non è nemmeno sicuro
che avesse la tessera o che ne fosse considerato membro) . Fu un grande
solitario e uno sconfitto, ma, commemorandolo a Parigi a un mese dalla morte,
di lui Carlo Rosselli ebbe a dire : << In Antonio Gramsci l' umanità ha
perso un pensatore di genio e la rivoluzione italiana il suo capo >> .
Ora
che non abbiamo più l' assillo storico e ideologico di " fare la
rivoluzione" perchè con la Resistenza e la lotta di Liberazione il nostro
Paese è entrato nel novero delle grandi democrazie, dove continuano a stare la
genialità e l'attualità di Gramsci? Senz'altro nei " Quaderni" perchè
lì è contenuta una riflessione ampia , originale, non appiattita sul
contingente.
Chiuso
nelle carceri fasciste, gravemente ammalato , sconfitto come capo politico,
senza il sostegno del suo partito, egli sente urgente il bisogno di
approfondire, studiare, di fare qualcosa << für ewig >>. Pensa di
concentrarsi su quattro temi apparentemente molto distanti dai problemi reali:
1. << una ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia del
secolo scorso; in altre parole, una ricerca sugli intellettuali italiani, le
loro origini, i loro raggruppamenti secondo le correnti della cultura, i loro diversi
modi di pensare ecc. ecc. >> ; 2. << uno studio di linguistica
comparata>> ; 3. << uno studio sul teatro di Pirandello e sulla
trasformazione del gusto teatrale italiano che il Pirandello ha rappresentato e
ha contribuito a determinare>>; 4. << un saggio sui romanzi di
appendice e il gusto popolare in letteratura>> (1) .
Trasferito
nelle carceri di Turi nel novembre del 1930, precisa ulteriormente gli
argomenti da approfondire dando una particolare sottolineatura al tema degli
intelletuali. Così scrive alla cognata: <<
Mi sono fissato su tre o quattro argomenti principali, uno dei quali è quello
della funzione cosmopolita che hanno avuto gli intellettuali italiani fino al
Settecento >> . E, ancora dopo, nel 1931, ribadisce, precisando
uleriormente : << Uno degli argomenti che più mi ha interessato in questi
ultimi anni è stato quello di fissare alcuni aspetti caratteristici nella
storia degli intellettuali italiani>> (2).
Non
si tratta di divagazioni intellettualistiche, nè del cedimento di una persona
che , isolata dal mondo, tende a fuggire dalla realtà, nè di stranezze tipiche della
tradizione intellettuale italiana. Per Gramsci si tratta delle questioni
fondamentali attraverso le quali, da una parte, <<approfondire il
concetto di Stato>> e, dall' altra, per rendersi << conto di alcuni
aspetti dello sviluppo storico del popolo itailano>> (3). Lo studio degli
intellettuali e della cultura gli serve insomma per capire l' Italia, le
peculiarità della sua storia a partire da quella più importante della netta
separazione fra la sua politica e, appunto, la sua cultura, fra la chiusura
gretta della politica italiana e il carattere cosmopolitico della sua cultura. Nelle
note sul Machiavelli indica la causa lontana di tutto questo e il rovello
teorico che lo accompagna. Nella riflessione del Segretario fiorentino trova
<< la conferma>> di ciò che ha rintracciato in altre letture e in
altri autori e cioè che << la borghesia italiana medioevale non seppe
uscire dalla fase corporativa per entrare in quella politica perchè non seppe
completamente liberarsi dalla concezione medioevale-cosmopolitica rappresentata
dal Papa, dal clero e anche dagli intellettuali laici (umanisti) , cioè non seppe
creare uno Stato autonomo, ma rimase nella cornice medioevale feudale e
cosmopolita>> (4).
Le
conseguenze di quel fallimento sono state la decadenza politica del nostro
Paese in tutta la sua storia successiva , l' incapacità di esprimere una forte
e vasta concezione nazionale e il
carattere cosmopolitico e astratto della nostra cultura. Umberto Cerroni
ribadisce come proprio, dopo il fallimento del Cinquecento, la politica
italiana si slega << da ogni universalismo intellettuale e la cultura da
ogni radicazione politica. Nella politica e nella vita morale l'Italia fu preda
del guicciardiniano " particulare" e nella cultura inseguì un
universalismo cosmopolitico che presto degenerò in astrattismo e retorica. Gli
intellettuali si separarono sempre più dalla concretezza storico- politica e i politici
dagli ideali universali >> (5).
Tuttavia,
per Gramsci, la tradizione cosmopolitica della cultura italiana ha anche un
aspetto positivo: diventa, anzi, la risorsa che consente di guardare oltre il
limite del suo presente storico, oltre il muro eretto dal fascismo. E’ la risposta alla domanda che lo angoscia,
all’assillo di rintracciare la via d’uscita da un regime che appariva granitico
ed invincibile. Si chiede se davvero <<il moto politico che condusse
all’unificazione nazionale e alla formazione dello Stato italiano deve
necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo
militaristico>>. Poiché <<si può sostenere che questo sbocco è
anacronistico e antistorico (cioè artificioso e di non lungo respiro)>>,
<<esso è realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima,
cattoliche poi>> le quali, appunto, sono cosmopolitiche e tali da
spingere Gramsci a dire che <<la “missione” del popolo italiano è nella
ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna
e avanzata>>. Che per lui è quella rappresentata dal proletariato moderno
in generale e da quello italiano in particolare, il cui internazionalismo
appare proprio l’erede legittimo della tradizione universalistica italiana: la
quale <<si continua dialetticamente nel popolo lavoratore>>, e
<<il popolo italiano è quel popolo che “nazionalmente” è più interessato
a una moderna forma di cosmopolitismo>> (6).
3.- Tutti i temi
trattati nei “Quaderni” convergono verso un unico punto: l’Italia.
L’Italia è il suo problema. Per
risolvere il quale Gramsci interroga il nostro passato. Va a fondo
nell’indagine sulle ragioni della nostra
tarda unificazione, cogliendo l’anomalia,
la contraddizione vera dell’intera storia d’Italia: quella tra la sua
straordinaria precocità culturale e il suo grave ritardo politico. Umberto
Cerroni è stato lo studioso che più e meglio di altri – cucendo tra loro, in un
ordine coerente, tutti gli spunti che i “Quaderni” forniscono – ha ricostruito
il processo che ha determinato la separazione, indicata da Gramsci, fra cultura
e politica nell’Italia moderna.
La
nostra è la storia unica e dolorosa di una nazione precoce e di uno Stato
ritardato, di una eccezionale precocità intellettuale e culturale e di un
drammatico ritardo politico. E’ questa, appunto, la nostra anomalia: <<è
tutta compresa nella mancata saldatura fra la straordinaria capacità
intellettuale, precoce e anticipatrice, e la secolare impossibilità di
costruire un circuito politico unificante che in pari tempo diffondesse quella
capacità nello spirito generale della nazione e desse gambe, energia popolare e
forza politica alla cultura>> (7). Abbiamo avuto la prima lingua moderna,
la prima arte moderna, la prima teoria moderna del diritto e dello stato. Con i
glossatori abbiamo avuto la prima riflessione sistematica sulla regolazione tra
singoli e tra gli Stati; con le tavole amalfitane, il primo codice marittimo;
già col Decreto di Graziano (XII secolo), da cui ha origine il Corpus iuris canonici, la separazione del diritto ecclesiastico
dalla teologia, ma non abbiamo avuto una tempestiva unificazione politica e
statuale.
Tra
tutte le nazioni europee moderne è successo solo a noi (e per altre ragioni
alla Germania): Francia ed Inghilterra, pur arretrate culturalmente, avranno
per tempo il loro Stato nazionale. A noi ciò fu impedito dalla presenza dello
Stato della Chiesa perché in Italia – scrive Cerroni – la Chiesa non era
soltanto <<una poderosa costruzione spirituale-religiosa>>, ma
aveva anche <<uno Stato temproale che occupava il centro esatto della
penisola. Difendendo il potere religioso qui la Chiesa doveva difendere altresì
la sua sede fisica e politica>>. Lo scontro con essa, necessario per
l’unificazione nazionale, fu sistematicamente perso dalle forze laiche.
La
prima sconfitta catastrofica per il futuro dell’Italia fu quella di Federico
II. Egli compì, già agli inizi del XIII
secolo, il primo tentativo al mondo di fondare uno Stato nazionale, di unire al
Regno di Sicilia il resto d’Italia. Una unificazione dal Sud verso il Nord –
sottolinea Cerroni – che vede protagonista proprio il Sud con una cultura nuova
fecondata dal contatto con genti estranee alla Germania, dall’incontro con la
cultura araba, con la filosofia di Averroé che ci fa uscire dal Medioevo, che
ci consegna un mondo conoscibile razionalmente e che nutrirà il pensiero di
Dante e Tommaso d’Aquino. A questo Stato da unificare Federico II fornisce già
una organica sistemazione giuridica con le Costituzioni
di Melfi del 1231, scritte dai più grandi giuristi del tempo: Pier delle
Vigne, l’arcivescovo Giacomo di Capua, Roffredo di Benevento. Sono queste, per
Cerroni, un documento grandioso di modernizzazione post feudale, in cui è
prefigurata l’organizzazione statale su basi moderne: la sovranità laica, la
formazione di un ordine giudiziario e di una pubblica amministrazione autonomi,
l’organizzazione finanziaria e fiscale centralizzata, il principio della
convivenza di più razze e più religioni.
Il fallimento del tentativo di Federico
II costituisce, come già detto, un disastro storico e civile. Restammo per
molti secoli senza Stato perché dopo fallirono anche tutti gli altri tentativi.
La nostra fu, così, la storia di tanti fallimenti e, come dice Cerroni con una
definizione molto bella, di tante <<repubbliche perdute>>. Egli ci
fa l’elenco di quelle su cui ragiona anche Gramsci: <<1) lo Stato
assoluto di Federico II, in primo luogo, rinverdito da Manfredi nel XIII
secolo; 2) lo Stato visconteo che nel XIV secolo penetra nel centro della
penisola fino a Spoleto; 3) l’alleanza fra Napoli, Milano e Firenze nella così
detta Guerra degli Otto Santi sul finire della emigrazione avignonese dei papi;
4) la repubblica partenopea del 1799; 6) la repubblica napoleonica d’Italia; 7)
la repubblica romana del 1848>>. A questi, dice, si potrebbero aggiungere
altri tentativi di espansione territoriale: <<lo Stato di Carlo d’Angiò
dopo la fine della minaccia imperiale, l’espansione della repubblica di Venezia
ai primi del Seicento, il ducato di Castro distrutto dalle milizie pontificie
nel 1649, lo Stato di Gioacchino Murat>>. Col falllimento di tutti questi tentativi, la
politica italiana uscì sempre più dal proscenio europeo <<involgarendosi
nelle competizioni particolaristiche e la cultura italiana si salvò solo
allontanandosi dalla politica e vivendo comunque in un vuoto politico
nazionale. E’ così accaduto che si è diffusa tra gli italiani una concezione
della vita pubblica sostanzialmente cosmopolitica, cui corrispondeva un
comportamento pratico individualistico. Tutte le più grandi energie
intellettualli si concentrarono nella attività privata mentre la vita pubblica
stagnava e degenerava nei piccoli antagonismi e nelle grandi infamie>>.
Per questo la Chiesa ha potuto mantenere per secoli – <<unico caso in
occidente>>, sottolinea Cerroni – il suo potere temporale al centro della
penisola. E aggiunge: <<Per secoli
l’Italia restò spezzata in tre tronconi: un Nord frantumato in piccoli
principati regionali, un centro dominato da uno Stato teocratico e un Sud
unificato bensì in uno Stato, ma subordinato a dinastie straniere.
Culturalmente la Chiesa - una entità ecumenica metà nazionale e metà politica –
dominò incontrastata per cinque secoli>>. Dunque, la Repubblica che
abbiamo perduto e che non abbiamo mai avuto è lo Stato Italiano <<della
cui necessità storica si avverte sempre più coscienza>> ma la cui costruzione è sistematicamente
fallita (8).
4.- Nessun soggetto storico è
riuscito a portare a conclusione questa impresa. In questo tentativo di
costruzione statale – dice Gramsci – hanno fallito tutti: laici e cattolici. I
laici perché hanno coltivato un sostanziale disprezzo per le masse, i cattolici
per il condizionamento determinante della Chiesa di Roma, avendo questa sempre
operato concretamente con la logica e per interessi di una potenza temporale
permanentemente in concorrenza con le altre potenze temporali. Scrive Gramsci:
<<I laici hanno fallito al loro compito storico di educatori ed
elaboratori della intellettualità e della coscienza morale del popolo-nazione,
non hanno saputo dare una soddisfazione alle esigenze intellettuali del
popolo: proprio per non aver
rappresentato una cultura laica, per non aver saputo elaborare un moderno
“umanesimo” capace di diffondersi fino agli strati più rozzi ed incolti, come
era necessario dal punto di vista nazionale, per essersi tenuti legati ad un
mondo antiquato, meschino, astratto, troppo individualistico o di
casta>>. E aggiunge subito: <<Ma se i laici hanno fallito, i
cattolici non hanno avuto miglior successo>>. Gramsci dà un giudizio
sferzante, impietoso sulla Chiesa, la quale – sostiene - <<non vuole
compromettersi nella vita pratica economica e non si impegna a fondo, né per
attuare i principi sociali che afferma e che non sono attuati, né per
difendere, mantenere o restaurare quelle situazioni in cui una parte di quei
principi era già attuata e che sono state distrutte>>. E continua:
<<Per comprendere bene la posizione della Chiesa nella società moderna,
occorre comprendere che essa è disposta a lottare solo per difendere le sue
particolari libertà corporative (di Chiesa come Chiesa, organizzazione
ecclesiastica), cioè i privilegi che proclama legati alla propria essenza
divina: per questa difesa la Chiesa non esclude nessun mezzo, né l’insurrezione
armata, né l’attentato individuale, né l’appello all’invasione straniera>>.
Per la sua grettezza ed egoismo, conclude Gramsci, essa è disponibile a
sostenere qualsiasi regime politico, anche il più autoritario perché
<<per “dispotismo” la Chiesa intende l’intervento dell’autorità statale
laica nel limitare o sopprimere i suoi privilegi, non molto di più: essa
riconosce qualsiasi potestà di fatto, e purchè non tocchi i suoi privilegi, la
legittima; se poi accresce i privilegi, la esalta e la proclama
provvidenziale>> (9).
Quasi tutte le nostre anomalie, secondo
Gramsci, incrociano questo vistoso peso storico e ognuna di esse deve essere
valutata alla luce di una plurisecolare vicenda nazionale. La stessa questione
meridionale, per esempio, da lui affrontata in modo assai diverso nel 1926, nei
“Quaderni” diventa una anomalia da ricondurre ai ritardi complessivi del
processo della nostra unità nazionale. In questo senso non è possibile ridurla
alla questione del Sud e diventa invece una grande “questione Italia”, uno
degli elementi peculiari dell’intero Paese. Con Francesco De Sanctis, con il
Gramsci dei “Quaderni”, l’analisi del
Mezzogiorno non concede nulla alla chiusura meridionalistica e viene invece
collegata ai grandi processi della formazione della coscienza nazionale.
L’arretratezza – la “malattia” –
rappresentata dal Mezzogiorno è vista come una patologia dell’intero organismo
italiano, che ha, sì, una sua incubazione specifica nel Sud, ma che attiene
soprattutto all’incapacità complessiva di strutturare una convivenza nazionale
di livello adeguato all’Europa civile e laica. La conclusione è che il nostro
Paese, unitosi politicamente con grave ritardo (pur avendo creato con grande
anticipo tutte le condizioni culturali, giuridiche, linguistiche per una sua
unità), non avrebbe potuto non pagare tributi particolarmente elevati alla
fragilità della sua identità storica, civile, politica determinata da tale
ritardo.
5.- Gramsci va ancora più a fondo
nell’analisi e pone la questione della fine che ha fatto l’eredità culturale e
politica lasciataci da tutte le realtà substatali preunitarie. Si chiede, in
sostanza, che fine avessero fatto le tradizioni più significative e
culturalmente valide delle piccole corti. Insomma, si pone la domanda, per
nulla <<oziosa>>: <<Nella formazione dello Stato unitario
italiano c’è stata “eredità” di tutte le funzioni politico-culturali svolte dai
singoli staterelli precedenti o c’è stata, da questo punto di vista, una
perdita secca?>> Cioè: <<accanto a ciò che fu guadagnato>>
con l’unità politica del Paese, <<ci fu anche qualcosa di
perduto?>>
Si
è perduto certamente molto. Per fare qualche esempio con Gramsci, si è perduto
molto dello spirito della buona amministrazione austriaca del Lombardo-Veneto o
di quella dei Lorena; molto della tradizione <<orientale>> di
Venezia; della tradizione intellettuale europea di Milano; molto dello spirito
politico, artistico e culturale di Parma, Urbino, Mantova, Modena (10). Come
riassume Cerroni, l’unificazione savoiarda dall’alto, per incorporazione, ha
<<oggettivamente “scartato” dall’eredità nazionale tutta una serie di
elementi culturali>>. Vi è stato <<una sorta di azzeramento della
storia preunitaria, che ha emarginato l’eredità culturale delle componenti
preunitarie, ha oscurato le cause del loro insuccesso e ha ridotto ad un
livello locale e “dialettale” grandi tradizioni storiche come quelle
federiciane, veneziane, genovesi, napoletane, siciliane, toscane,
piemontesi>> (11). Vi è un’
“Italia perduta” che Gramsci intende ritrovare e che si è persa a causa della
convinzione che l’Italia sia nata solo con la sua unità politica, che, perciò,
prima essa addirittura non esistesse.
Le
conseguenze per la mancata tempestiva unificazione politica del nostro Paese
sono state – e continuano ad essere – gravissime. La stessa cultura, così
precoce, così raffinata, senza un oggetto storico-politico, statuale da
fecondare, dopo il Cinquecento, inizia a sfaldarsi, ad alterarsi, a disperdersi
in sterili astrattezze e fantasticherie. Il talento degli italiani, non
rapportandosi con una realtà pubblica legittimata nella coscienza di ogni
singolo, degenera in furbizia, in <<talentismo>>, in una specie di
perversione del talento, che divaga nel privato ed è disponibile ad ogni tipo
di corruttela, di estetismo e di universalismo astratto. Si tratta di una
deformazione dell’ingegno indotta <<da una cultura non
nazionale-popolare, non responsabile di uno Stato>>. Non si vuol dire –
precisa Cerroni – che <<in Italia ogni ingegno diventa un briccone, ma
che l’individualismo mina il carattere e la moralità dell’italiano>>
(12). Dal suo canto, la politica, separata da una cultura nazionale, perde
l’orizzonte dell’interesse generale e diventa miope, gretta, particolaristica,
campanilistica, municipalistica.
Sta
qui il tarlo della nostra vita pubblica: nell’anomalia storica – unica tra i
Paesi moderni dell’Europa – della separazione profonda tra una cultura
indifferente al destino della comunità e astrattamente universalistica, e una
politica lontana dalla dimensione culturale. L’Italia diventa, e rimane, un
Paese fatto di individui che non guadagnano la dimensione di cittadini, con una
vita pubblica permanenentemente agitata e sregolata, guastata dall’impasto di
due sovversivismi: quello delle classi subalterne e quello delle classi
dirigenti, <<dal basso e dall’alto>>. Il sovversivismo dei
subalterni è il risultato, appunto, dell’assenza, o debolezza, di una coscienza
nazionale ed è correlativo – dice Gramsci - <<al “sovversivismo”
dall’alto, cioè a non essere mai esistito un “dominio della legge”, ma solo una
politica di arbitrii e di cricca personale o di gruppo>> (13).
La
vera rivoluzione da vare, l’impresa storica da portare avanti, per Gramsci, è
dunque quella di mettere in comunicazione, per così dire, tra loro cultura e
politica: dare alla cultura concretezza e una comunità nazionale e alla
politica respiro ideale, capacità progettuale. Possiamo senz’altro dire che,
con la sua analisi, lucida e impietosa, dei nostri mali storici, egli indica
anche il percorso da compiere per trovare il fondamento della nostra identità
nazionale e le ragioni storiche del nostro stare insieme in un Paese moderno.
Egidio Zacheo