La verità nascosta ‒ il titolo del saggio scritto dallo psicoanalista Piero
Ferrero (pubblicato dalle Edizioni Erickson) ‒ rimanda ad un’antica leggenda
indù che narra come gli dei, dopo aver scartato l’ipotesi di celare la potenza
divina sul monte più elevato, nella massima profondità della terra o in quella
oceanica, decisero di occultarla entro il cuore dell’uomo: unico luogo che egli,
a loro avviso, non avrebbe mai esplorato. Ed in effetti l’essere umano è, in
generale, assai poco incline a calarsi negli abissi della propria interiorità,
preferendo rivolgersi a ciò che è altro, oltre e altrove rispetto a sé ‒ quindi
all’esteriorità ‒, disattendendo così al monito scritto all’ingresso del tempio
delfico dedicato al Dio Apollo. Avviso il quale intimava giusto una sola accorata esortazione: gnothi seauton, conosci te stesso.
Ma il disagio legato alla
riluttanza da parte dei più a cercare la propria autenticità dentro di sé
dipende forse soprattutto dal timore di misurarsi coi demoni che abitano gli
anfratti dell’inconscio e dalla paura di far luce sull’ombra ‒ per dirla con un vocabolo junghiano ‒ che abita i recessi
oscuri delle nostre anime. Eppure affrontare il male, quello psichico ma non esclusivamente, è compito ineludibile per
ognuno di noi, se si voglia giungere alla consapevolezza, alla verità (sia pur
con l’iniziale minuscola) intorno a se stessi. Anche se, afferma il nostro psicoterapeuta
‒ esso: “non è una realtà da combattere, ma piuttosto da capire”. Ne consegue
che: “Al male occorre andare incontro, non negarlo, proprio per averne meno
paura e trovare il coraggio di viverlo e affrontarlo”.
Va tuttavia premesso che,
parlando in termini filosofici, a mio avviso il male in sé non esiste dal punto
di vista ontologico. Noi abbiamo sempre a che fare soltanto con quello relativo
appunto all’uomo: consistente cioè nella sua sofferenza in quanto essere
vulnerabile, precario, limitato, esposto com’è ai pericoli, alla malattia, alla
perdita e infine all’exitus. E,
rispetto a tutti i mali in cui è dato all’umanità d’incappare ‒ tra quelli
provenienti da eventi naturali, quelli causati da azioni messe in atto da altri
rispetto a sé, e quelli che colpiscono l’individuo sorgendo da dentro di lui ‒,
forse sono proprio le sofferenze interiori ad essere i guasti più deleteri. Ci riferiamo, in primo luogo, alla sofferenza
psichica devastante/alienante o meglio ancora psicotica (schizofrenia, depressione
grave, psicosi maniaco-depressiva), dove ‒ osserva Ferrero ‒ paradossalmente:
“è l’uomo stesso, autore e vittima del male, che si oppone a che questo possa
finire”.
Il problema allora è
come porsi di fronte al male; specie
se esso non può venire estorto alla radice o se la malattia risulta
inguaribile. Ciò però non esclude affatto possa venir curata la persona che la
patisce. Si tratta allora di accettare davvero la patologia dell’altro, ossia
del paziente, da parte dello psicoterapeuta. Ma sgombriamo il campo dagli
equivoci. Un’accettazione di questo tipo non comporta una sconfitta, una resa
senza condizioni al malessere psichico; piuttosto solo tale presa d’atto
consente ‒ scrive Ferrero ‒ di: “andare incontro al male e farsi carico della
parte lesa”, accogliendola, comprendendola.
Solo a partire da queste premesse è attuabile un processo trasformativo volto a
mutare la disperazione del malato in amicizia/alleanza risanatrice con lo
psicoterapeuta.
Tramite un rapporto all’insegna
dell’amore, poiché solo attraverso di esso diviene possibile il prendersi
davvero cura di qualcuno. Elemento/strumento
essenziale di una relazionalità amorevole è rappresentato dal rispondere
all’altro nella sua propria interezza, prestandogli autentica attenzione e
un’apertura generosa fatta di rispetto, empatia, cuore aperto, accoglienza, ascolto
privo di pregiudizi e/o apriorismi d’alcun genere. Tutto questo contraddistinto
dalla: “fiducia nel fatto che l’amore può trasformare la distruttività e il
senso di colpa in sentimenti e atti riparativi e costruttivi”.
Fiducia,
non mera fede o credenza illusoria in qualche ricetta/formula risolutiva,
giacché non si dà in ambito umano altra soluzione
che il costante inarrestabile mutare di ogni cosa, ambito, soggetto. Una fedeltà
alla vita, semmai, ‒ si auspica il più possibile sana ‒ vista come continuo gioco di relazioni e passioni, intessuta come sempre è l’esistenza
di gioie e dolori, salute e malattia, bene
e male.