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Piero Ferrero e "La verità nascosta"
Francesco Roat

 

La verità nascosta ‒ il titolo del saggio scritto dallo psicoanalista Piero Ferrero (pubblicato dalle Edizioni Erickson) ‒ rimanda ad un’antica leggenda indù che narra come gli dei, dopo aver scartato l’ipotesi di celare la potenza divina sul monte più elevato, nella massima profondità della terra o in quella oceanica, decisero di occultarla entro il cuore dell’uomo: unico luogo che egli, a loro avviso, non avrebbe mai esplorato. Ed in effetti l’essere umano è, in generale, assai poco incline a calarsi negli abissi della propria interiorità, preferendo rivolgersi a ciò che è altro, oltre e altrove rispetto a sé ‒ quindi all’esteriorità ‒, disattendendo così al monito scritto all’ingresso del tempio delfico dedicato al Dio Apollo. Avviso il quale intimava giusto una sola accorata esortazione: gnothi seauton, conosci te stesso.

Ma il disagio legato alla riluttanza da parte dei più a cercare la propria autenticità dentro di sé dipende forse soprattutto dal timore di misurarsi coi demoni che abitano gli anfratti dell’inconscio e dalla paura di far luce sull’ombra ‒ per dirla con un vocabolo junghiano ‒ che abita i recessi oscuri delle nostre anime. Eppure affrontare il male, quello psichico ma non esclusivamente, è compito ineludibile per ognuno di noi, se si voglia giungere alla consapevolezza, alla verità (sia pur con l’iniziale minuscola) intorno a se stessi. Anche se, afferma il nostro psicoterapeuta ‒ esso: “non è una realtà da combattere, ma piuttosto da capire”. Ne consegue che: “Al male occorre andare incontro, non negarlo, proprio per averne meno paura e trovare il coraggio di viverlo e affrontarlo”.

Va tuttavia premesso che, parlando in termini filosofici, a mio avviso il male in sé non esiste dal punto di vista ontologico. Noi abbiamo sempre a che fare soltanto con quello relativo appunto all’uomo: consistente cioè nella sua sofferenza in quanto essere vulnerabile, precario, limitato, esposto com’è ai pericoli, alla malattia, alla perdita e infine all’exitus. E, rispetto a tutti i mali in cui è dato all’umanità d’incappare ‒ tra quelli provenienti da eventi naturali, quelli causati da azioni messe in atto da altri rispetto a sé, e quelli che colpiscono l’individuo sorgendo da dentro di lui ‒, forse sono proprio le sofferenze interiori ad essere i guasti più deleteri. Ci riferiamo, in primo luogo, alla sofferenza psichica devastante/alienante o meglio ancora psicotica (schizofrenia, depressione grave, psicosi maniaco-depressiva), dove ‒ osserva Ferrero ‒ paradossalmente: “è l’uomo stesso, autore e vittima del male, che si oppone a che questo possa finire”.

Il problema allora è come porsi di fronte al male; specie se esso non può venire estorto alla radice o se la malattia risulta inguaribile. Ciò però non esclude affatto possa venir curata la persona che la patisce. Si tratta allora di accettare davvero la patologia dell’altro, ossia del paziente, da parte dello psicoterapeuta. Ma sgombriamo il campo dagli equivoci. Un’accettazione di questo tipo non comporta una sconfitta, una resa senza condizioni al malessere psichico; piuttosto solo tale presa d’atto consente ‒ scrive Ferrero ‒ di: “andare incontro al male e farsi carico della parte lesa”, accogliendola, comprendendola. Solo a partire da queste premesse è attuabile un processo trasformativo volto a mutare la disperazione del malato in amicizia/alleanza risanatrice con lo psicoterapeuta.

Tramite un rapporto all’insegna dell’amore, poiché solo attraverso di esso diviene possibile il prendersi davvero cura di qualcuno. Elemento/strumento essenziale di una relazionalità amorevole è rappresentato dal rispondere all’altro nella sua propria interezza, prestandogli autentica attenzione e un’apertura generosa fatta di rispetto, empatia, cuore aperto, accoglienza, ascolto privo di pregiudizi e/o apriorismi d’alcun genere. Tutto questo contraddistinto dalla: “fiducia nel fatto che l’amore può trasformare la distruttività e il senso di colpa in sentimenti e atti riparativi e costruttivi”.

Fiducia, non mera fede o credenza illusoria in qualche ricetta/formula risolutiva, giacché non si dà in ambito umano altra soluzione che il costante inarrestabile mutare di ogni cosa, ambito, soggetto. Una fedeltà alla vita, semmai, ‒ si auspica il più possibile sana ‒ vista come continuo gioco di relazioni e passioni, intessuta come sempre è l’esistenza di gioie e dolori, salute e malattia, bene e male.

22/01/2018 19:27:55
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