Povertà
globale. Il Rapporto Oxfam fotografa non solo le vette, straordinarie nel 2017,
della ricchezza ma guarda il mondo anche dalle profondità globali degli abissi
sociali
L’ultimo rapporto Oxfam sullo stato sociale
del pianeta è piombato come un pugno sul tavolo dei signori di Davos. Dice che
l’1% della popolazione mondiale controlla una ricchezza pari a quella del
restante 99%. E questo lo riportano tutti i media. Ma dice anche di più. Dice,
per esempio, che tra il marzo del 2016 e il marzo 2017 quell’infinitesimo
gruppo di super-privilegiati (un paio di migliaia di maschi alfa, meno di 1 su
10 sono donne) si è accaparrato l’86% della nuova ricchezza prodotta, mentre ai
3 miliardi e 700 milioni di donne, uomini e bambini che costituiscono il 50%
degli abitanti della terra non è andato nemmeno un penny (alla faccia della
famigerata teoria del trickle down, cioè dello “sgocciolamento” dei soldi
dall’alto verso il basso). Dice anche che lo scorso anno ha visto la più grande
crescita del numero dei miliardari nel mondo (all’incirca uno in più ogni due
giorni). E dell’ammontare della loro ricchezza: 762 miliardi, una cifra che da
sola, se redistribuita, permetterebbe di porre fine alla povertà estrema
globale non una ma sette volte!
E poi dice, soprattutto, che quella mostruosa
accumulazione di ricchezza poggia sul lavoro povero, svalorizzato, umiliato di
miliardi di uomini e soprattutto di donne, e anche bambini. E’, biblicamente,
sterco del diavolo.
Anzi, non si limita a dirlo con l’aridità
delle statistiche, confronta anche le vite dei protagonisti: quella, per
esempio, di Amancio Ortega (il quarto nella classifica dei più ricchi), padrone
di Zara, i cui profitti sono stati pari a un miliardo e 300 milioni di dollari,
e quella di Anju che in Bangladesh cuce vestiti per lui, 12 ore al giorno, per
900 dollari all’anno (quasi 1 milione e mezzo di volte in meno) e che spesso
deve saltare il pasto.
È QUESTA LA FORZA del rapporto Oxfam di quest’anno: che non si limita a
guardare il mondo sul suo lato “in alto” – a descriverne il luminoso polo della
ricchezza -, ma di misurarlo anche “in basso”. Di rivelarci la condizione
miserabile e oscura del mondo del lavoro, dove uno su tre è un working poor, un
lavoratore povero, in particolar modo una lavoratrice povera. E dove in 40
milioni lavorano in “condizione di schiavitù” o di “lavoro forzato” (secondo
l’ILO “i lavoratori forzati hanno prodotto alcuni dei cibi che mangiamo e gli
abiti che indossiamo, e hanno pulito gli edifici in cui molti di noi vivono o
lavorano”).
IL SISTEMA ECONOMICO globale, plasmato sui dogmi del neo-liberismo –
l’unico dogma ideologico sopravvissuto – si conferma così come quella
maga-macchina globale (descritta a suo tempo perfettamente da Luciano Gallino)
che mentre accumula a un polo una concentrazione disumana di ricchezza produce
al polo opposto disgregazione sociale e devastazione politica (consumo di vita
e consumo di democrazia). Allungando all’estremo le società, espandendo
all’infinito i privilegi dei pochi, anzi pochissimi, e depauperando gli altri,
erode alla radice le condizioni stesse della democrazia. La svuota alla base,
cancellando il meccanismo della cittadinanza stessa: da società “democratiche”
che eravamo diventati (di una democrazia incompiuta, parziale, manchevole, ma
almeno fondata su un simulacro di eguaglianza) regrediamo a società servili,
dove tra Signore e Servo passa una distanza assoluta, e dove al libero rapporto
di partecipazione si sostituisce quello di fedeltà e di protezione. O, al
contrario, di estraneità, di rabbia e di vendetta: è, appunto, il contesto in
cui la variante populista e quella astensionista si intrecciano e si potenziano
a vicenda, come forme attuali della politica nell’epoca dell’asocialità.
IN REALTÀ NESSUNO dei suggerimenti che il Rapporto avanza figura
nell’agenda (quella vera, non gli specchietti per le allodole) dei governi di
ogni colore e continente: non la tassazione massiccia delle super-ricchezze
così da ridurre il gap (anzi, le flat tax che vanno di moda stanno agli
antipodi), né la riduzione degli stipendi dei “top executives”, per ridurli
almeno a un rapporto di 1 a
20 rispetto al resto dei dipendenti; men che meno la promozione delle rappresentanze
collettive dei lavoratori, o la riduzione del precariato. Figurano, certo, nel
démi-monde della politica governante, preoccupazioni formali, dichiarazioni
d’intenti o di consapevolezza, promesse e moine, puntualmente e platealmente
smentite dalla pratica (Oxfam porta gli esempi della Banca mondiale e del Fondo
monetario internazionale, che mentre denunciano i pericoli del dumping
salariale o dell’evasione appoggiano evasori e tagliatori di buste paga e di
teste, e naturalmente di Donald Trump, che mentre lisciava il pelo ai blue
collar riempiva la propria amministrazione di multimiliardari e di uomini delle
banche).
COME DIRE CHE L’IPOCRISIA è diventata la forma attuale della post-democrazia. E
che con questo qualunque sinistra che voglia rifondarsi non può non fare i
conti.
…
Segnalato dal civis Renzo Penna. "LA
GRANDE DISEGUAGLIANZA DELLA SOCIETA' SERVILE" si occupa del Rapporto Oxfam su diseguaglianza
e povertà globale. L'articolo pubblicato su "Il Manifesto" (23
gennaio 2018) è di estrema attualità
visto che il rapporto è stato presentato a Davos.